martedì 4 luglio 2023

CORMAC MCCARTHY. «IN VITA MIA NON HO MAI INCONTRATO MISTERO PIÙ GRANDE DI ME STESSO»

È morto il 13 giugno, a 89 anni, uno dei più grandi scrittori contemporanei. Poco dopo l'uscita in Italia de "Il passeggero", thriller metafisico dalle domande incendiarie sull'essenza della vita.


C’e’un dialogo nelle ultime pagine – netto e potente, come tutti quelli che riempiono il libro – che ha dentro una domanda capace di sbalzare dalla carta, come certe parole scolpite in rilievo: «Se non siamo alla ricerca dell’essenza, allora cosa cerchiamo?». È vero. A cosa serve parlarsi, raccontare, scrivere – in fondo, vivere – se non a questo? Per lui, è così. Da sempre.
È tornato Cormac McCarthy. Sedici anni dopo La strada, il racconto post-apocalittico con cui vinse il Pulitzer, lo scrittore americano considerato un classico già da vivo (avrebbe compiuto 90 anni a luglio) ha pubblicato due romanzi intrecciati: The Passenger e Stella Maris. Negli Usa sono usciti assieme, in autunno. Da noi è appena arrivato in libreria il primo ( Il passeggero, Einaudi), con la traduzione – da applausi – di Maurizia Balmelli. Per il secondo bisognerà aspettare qualche mese. Ma intanto la storia di Bobby Western, scienziato che ha abbandonato la fisica per dedicarsi alle corse in auto e poi è diventato “sommozzatore da recupero”, e della sorella Alicia, genio della matematica, ci accompagna nel cuore stesso del mondo: alla ricerca dell’essenza. Del significato del reale.
Lei si è suicidata. Lo apprendiamo dalla prima pagina, e nei capitoli successivi – dove i dialoghi con Talidomide Kid, protagonista bizzarro delle sue allucinazioni, inframmezzano lo scorrere della storia – si svelerà man mano il perché. Impossibile reggere a una sensibilità così acuta, al paradosso di una ragione che più arriva al fondo delle cose e più vi trova domande e misteri. E impossibile vivere l’amore che desidera, perché l’oggetto – ricambiato – è proprio suo fratello, e una storia del genere spinge in modo inesorabile verso la solitudine e sull’orlo della follia.
Lui si ritrova devastato dalla perdita, corroso dal senso di colpa e alle prese con domande che non può censurare, perché «se tutto quello che amavo al mondo non c’è più, che cosa cambia se sono libero?». Alla fine, che senso ha vivere?

Quando il lavoro lo mette di fronte a un enigma (nell’aereo che dovrebbe recuperare, affondato al largo di New Orleans, la carlinga è intatta, ma mancano il corpo di un passeggero e la scatola nera), Bobby inizia un viaggio tutto suo, in fuga da personaggi inquietanti che lo braccano (l’Fbi? spie?) e in cerca della chiave per sciogliere il mistero.
Lui scandaglia il suo passato, tra le lettere della sorella e le carte del padre, fisico famoso, nel gruppo degli scienziati che crearono l’atomica. E noi ne seguiamo le tracce in un thriller metafisico, fatto di poca azione, dialoghi imperniati su temi universali (compresa la scienza, di cui McCarthy è un cultore) e, soprattutto, domande. Acute e profonde, perché cercano l’essenza.

È la cifra di McCarthy, uno dei (tanti) motivi che ne fanno uno dei più grandi scrittori contemporanei. Affrontare solo «questioni di vita e di morte», perché «non mi fido degli autori che non lo fanno», come ha detto in una delle sue rarissime interviste, anni fa. Lottare «corpo a corpo con gli dèi» (Washington Post) e tradurre questa lotta in storie: personaggi, situazioni, fatti. Dialoghi, profondi come pochi, in quella loro struttura così scarna e priva persino di virgolette. E una lingua ricca ed essenziale insieme, capace di far affiorare dalle cose una nostalgia che non ti spieghi.

Descrive i salmerini che nuotano in una pozza (La strada) o un’alba color cremisi sulle pianure maestose del Texas (Cavalli selvaggi) o la tana costruita dai topi muschiati in una gora, riparando «in modo impeccabile» il buco che aveva fatto Bobby, bambino, per guardarci dentro: e a leggere quelle mezze pagine di descrizione pura – scene banali che non hai mai visto, ricordi che non ti appartengono – senti affiorare dentro un magone strano.

Che cosa c’è di tanto potente nella realtà, da legarti così? E che sguardo bisogna avere per riuscire a evocarlo senza parlarne? Il punto è che per McCarthy, semplicemente, la realtà è viva. Trabocca di vita e mistero. Anche nei suoi angoli più apparentemente insignificanti, bui, oscuri.

Prendete Bobby. Non è un caso che sia un sommozzatore. «S’inabissa in un’oscurità che è del tutto incapace di afferrare», osserva Shedden, uno dei suoi amici. Come se il suo lavoro richiamasse fisicamente la fatica di districarsi nelle domande di tutti, mentre sopra di lui l’acqua scorre con tutto il suo peso «senza posa, senza posa. Restituendo come nient’altro l’implacabile passare del tempo». È il lavoro di tutti noi, volenti o nolenti: cercare nell’opacità del reale qualcosa che dia luce – senso – al viaggio. Di illuminare una verità imponente che uno dei personaggi riassume in una frase: «In vita mia non ho mai incontrato mistero più grande di me stesso». Perché quello che vale per la realtà, vale ancora di più per l’uomo. Il buio indecifrabile che tante volte rende la realtà oscura è parente stretto di quello che abbiamo dentro.

Il male è un tema onnipresente nell’opera di McCarthy. Ha disegnato personaggi spietati, capaci di una ferocia assoluta e senza motivi – il giudice Holden di Meridiano di sangue, il killer Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi –, che ricordano certi protagonisti dei racconti di Flannery O’Connor, perché vive le stesse domande. Che cosa accade nell’animo dell’uomo – e nella società, nell’ universo – quando si smarrisce il senso? E se esiste o no qualcosa di irriducibile anche a questo, se c’è un qualche lampo di salvezza capace di infiltrarsi nelle crepe di questa corsa verso il nulla, e di redimerci.


«Ne Il passeggero c’è un desiderio di dissoluzione molto forte», ha osservato Antonio Monda, giornalista letterario, in 
un recente incontro al Centro Culturale di Milano: «Ma prevale l’anelito alla salvezza. È più forte».

È vero in ogni pagina. In un mondo oscuro, che a prima vista sta scivolando in maniera inesorabile verso il buio, prevale altro. Anzitutto per il fatto stesso che la realtà c’è, e ha dentro una vita potentissima. Grida un desiderio, un bisogno di significato. Era impossibile uscire dalle pagine de La strada senza che rimbombasse nella testa quel dialogo tra padre e figlio, sperduti nel disastro: «Ce la caveremo. Perché noi portiamo il fuoco». Troppo facile vederci dentro una metafora potente: il rapporto con il Mistero. Ma è molto di più. Non è un simbolo e basta: è il cuore stesso, l’essenza della realtà.

C’è una sola condizione per addentrarsi in questo nucleo duro e inossidabile: voler guardare. Meglio, vedere. Sostiene Luca Doninelli (autore che i lettori di Tracce conoscono bene) che McCarthy «vede le cose là dove noi non vediamo. Noi sappiamo ragionare bene, ma ragioniamo su quello che vediamo e sentiamo. E quello che vediamo e sentiamo, normalmente, è poco. Lui vede più di noi». In un altro dialogo, uno dei personaggi dice: «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta». La luce c’è, sempre. Ma si tratta di volerla vedere, di non scegliere per il nulla.

Tutto il viaggio di Bobby alla rincorsa del suo passato e alla ricerca del suo significato, tutto il suo essere davvero e profondamente un passeggero – come ognuno di noi –, si gioca su questo filo sottile: riuscire a vedere. Anzi, scegliere di vedere.

Alla fine di un lungo dialogo con l’amica Debussy (una trans, uno dei personaggi più belli e più puri del libro), Bobby la accompagna fuori dal bar.

«Sul marciapiede lo baciò sulle guance. Ti conosco da un sacco di tempo e mai una volta che mi sia chiesta cos’è che vuoi.
Da te?
Da me. Sì. È molto strano per me. Grazie.
Lui la seguì con gli occhi finché si perse fra i turisti. Uomini e donne indistintamente si voltavano a guardarla. Pensò che la bontà divina appare in posti strani. Tieni gli occhi aperti».

Ecco, gli occhi aperti e la bontà divina. La nostra libertà e Dio. Che, a sua volta, compare spesso nel libro. Evocato, alluso o chiamato per nome. Inevitabile, quando si parla seriamente di vita e di morte.

Come mostra la stessa Debussy nella sua purezza: «Non so chi o che cosa sia Dio. Ma non credo che tutto questo sia arrivato qui da solo. Io inclusa. Forse tutto evolve esattamente come dicono. Ma se indaghi la fonte, a un’intenzione alla fin fine ci arrivi per forza... Circa un anno più tardi mi sono di nuovo svegliata ed era come se avessi sentito questa voce nel sonno e riuscivo ancora a sentirne l’eco e diceva: se qualcosa non ti avesse amato non saresti qui».

Se qualcosa non ti avesse amato, non saresti qui. Ovunque tu sia, in qualunque punto della storia, qualsiasi dolore tu stia vivendo, qualsiasi cosa tu abbia perso, c’è qualcosa di misterioso che viene prima, e ti ama. È una verità semplice e irriducibile. Fra milioni di secoli, sarà ancora vero. Se vorremo vedere.

Perché alla fine i passeggeri siamo noi. Il viaggio spetta a noi. La domanda che resta a McCarthy, dopo una vita intera spesa a «lottare con gli dèi», è quella che si fa Sheddan, l’amico di Bobby: «Siamo gli ultimi del nostro lignaggio? Albergherà, nei bambini futuri, una nostalgia di qualcosa che non sapranno nemmeno nominare?».

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