La testimonianza in video collegamento da Haifa, Israele, del responsabile della comunità del movimento in Terra Santa
Hussam Abu Sini
Giornata
d'inizio anno di CL Lombardia (21.09.2024)
Buon pomeriggio a tutti, io sono Hussam. Per chi non mi conosce sono cattolico, arabo, israeliano, di origine palestinese. È complicato... Faccio l’oncologo, sono nato e cresciuto a Nazareth e vivo ad Haifa, una città sul mare nel nord di Israele, con mia moglie Chiara, che è italiana, e i nostri due figli piccoli.
Ho incontrato il movimento nel 2008, studiando Medicina a Torino. (…)
Nell’incontro con quelle persone, io ho capito che c’era un altro modo di trattare
le cose, c’era un amore che era gratuito verso di me e mi è stato chiesto solo
di ricambiarlo. Così, nel 2016 finisco
l’università e decido di tornare a casa, in Terrasanta, con l’idea di
portare la bellezza e la pienezza che avevo incontrato in Italia ai cristiani
qui, alla gente che vive qui, perché potessero vedere quello che avevo visto
io.
Avevo anche quella
posizione “ideologica” che hanno quasi tutti qui: noi cristiani, noi
arabi, siamo qui da prima e dobbiamo starci. Nel percorso che ora vi racconto,
capirete che quest’idea – che è ideologica – crolla subito, alla prima
tempesta, innanzitutto per me.
Quello che ho capito in tutti i fatti che racconterò è
una frase che monsignor Paolo Martinelli, vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, ci ha detto all’Assemblea del Medioriente e poi all’Assemblea
internazionale dei responsabili: «Essere in missione vuol dire
essere mandati da qualcuno, a qualcuno, con qualcuno». Lo avevo già
compreso nell’incontro fatto a Torino, ma poi l’ho capito ancora di più dopo,
stando qui, perché la prima cosa che ho fatto, quando sono tornato, è stata
cercare la comunità del movimento. Quindi ho iniziato a stare con loro, però
poi, piano piano, mi sono un po’ allontanato per dedicarmi al lavoro. Ma non
ero contento come ero contento in Italia, per quella pienezza e bellezza che vi
ho raccontato. Un giorno, gli amici della comunità mi invitano a cena e io
desideravo andare, perché mi mancavano. Ma, mentre andavo, per tutto il viaggio
mi dicevo: «Adesso inizieranno a dirmi: “Dove sei stato? Perché non sei più
venuto, non ti sei fatto vedere? Dicevi che era la prima cosa che hai cercato
...”». La cena era a Betlemme e, quando sono arrivato, non volevo entrare,
volevo tornare a casa; prima di salire le scale dicevo: «No, no, adesso si
arrabbiano…». Entro e c’è un nostro amico, Ettore, un memor Domini che è stato qui per
vent’anni, che, appena mi vede, mi abbraccia e mi dice: «Ci sei mancato!».
Quell’abbraccio è stato molto significativo per me. Mi dicevo: «Dove si trova
un abbraccio così?». Quell’abbraccio me lo porto fino ad oggi. Infatti, quando
nel 2018 mi hanno chiesto la responsabilità della comunità in Terrasanta, ho
detto subito di sì perché era la forma con cui ricambiare quell’amore che io
ricevo di continuo.
Vi ho raccontato questi fatti per farvi capire quanto dicevo all’inizio, riprendendo monsignor Martinelli:
«Mandati da qualcuno, a qualcuno, con qualcuno». Quest’anno – l’anno della
guerra – è stato molto importante per me. Io personalmente ho fatto tanti
passi, e anche tutta la comunità ha fatto tantissimi passi.CL MILANO, giornata inizio anno 21/09/24
Il 7 ottobre 2023 stavamo vivendo la nostra vacanza. Per la prima volta, l’avevamo fatta a inizio
anno e non alla fine, proprio per farla coincidere con la Giornata d’inizio
anno. Vi spiego la complessità della nostra comunità, che è mista: ci siamo io,
mia moglie e i miei figli, ed io sono arabo-israeliano; c’è un’altra ragazza
arabo-israeliana; un ragazzo italiano che fa il dottorato ad Haifa; alcuni memores
Domini che vivono a Gerusalemme;
quattro donne palestinesi di Betlemme e altre due ragazze cattoliche di lingua
ebraica. La nostra vacanza era dal 6 all’8 ottobre, in un paesino che si chiama
Abu Ghosh, venti minuti a nord di Gerusalemme. Il 6 iniziamo, con
l’introduzione, i giochi, un bel clima, bell’ambiente... Ci svegliamo il 7 con
tutti i video e le notizie di quanto era successo nei kibbutz vicino a Gaza.
Subito ci sono stati momenti di agitazione, di ansia. Insieme a noi c’erano
quattro persone venute dall’Italia ad accompagnarci, compreso il nostro visitor, e all’inizio abbiamo deciso di continuare la
vacanza, perché comunque non si poteva uscire da lì: sentivamo i razzi, i
bombardamenti e ci siamo messi a recitare le Lodi insieme. È stato il primo
punto importante per me: lì ho capito che l’unità era data dalla circostanza,
sì, ma eravamo uniti perché guardavamo tutti dalla stessa parte. Mi ha colpito
molto una frase che il cardinale Pierbattista Pizzaballa, il nostro Patriarca,
ha scritto a tutta la Diocesi: «Dove c’è un disordine, solo Dio può mettere
ordine». Quella giornata poteva essere la più disordinata della nostra storia,
invece si è svolta in un ordine incredibile. Solo Dio poteva mettere ordine e
tutti ce ne stavamo accorgendo, tutti stavamo guardando dalla stessa parte.
Mentre facevamo la Giornata d’inizio, che abbiamo anticipato al mattino, è
caduto un razzo a trecento metri da noi (e con noi c’erano i bambini!). È stato
bello come siamo andati tutti nel bunker, con un ordine mai visto prima, come
una famiglia: l’arabo chiedeva dell’ebreo, l’ebreo chiedeva dell’arabo. Ci
siamo proprio scoperti come dei fratelli che stavano facendo una vacanza
insieme. Al pomeriggio, per stemperare un po’ la tensione, abbiamo fatto dei
giochi, fino a quando è arrivata la notizia che i check-point tra Gerusalemme e
Betlemme potevano essere chiusi a tempo indeterminato. Per chi non lo sa, tra
Israele e Palestina c’è un muro e i palestinesi, per passare i check-point,
hanno bisogno di un permesso speciale. Se rimanevano chiusi a tempo
indeterminato, loro sarebbero rimasti bloccati in Israele senza poter tornare
dalle loro famiglie. Allora abbiamo detto la Messa velocemente, per poi
ripartire. Una nostra amica di Betlemme, mentre stava andando via, con le
lacrime agli occhi mi ha detto: «Io devo tornare a casa, c’è la mia famiglia,
ma non voglio perdere l’intensità che stiamo vivendo qui». Io l’ho abbracciata
e le ho risposto: «Guarda, non finisce qui. Si inizia da qui!». E un nostro
amico, venuto dall’Italia, ha detto: «We are one», siamo una cosa sola. Questo è stato il nostro motto
di tutto l’anno, poi vi racconto perché.
Torniamo a casa, e allora non sapevamo ancora dove si stava andando, e continuiamo ad andare avanti senza
sapere. A dieci giorni dall’inizio della guerra, il cardinale Pizzaballa indice
una giornata di digiuno e preghiera. E questo mi ha colpito tanto: la presenza
di Pizzaballa in questi mesi è stata per me e per la nostra comunità
fondamentale, cruciale, perché è stato l’unico a richiamare la pace tra due
popoli che gridavano vendetta. In una lettera a tutta la Diocesi ha scritto:
«Cristo ha vinto il mondo amandolo», e questo deve darci il coraggio di dire
chi siamo. Io, grazie a quello che vi ho raccontato prima – dal primo incontro a
quando sono tornato e all’abbraccio di Ettore, fino a quella vacanza – ho
capito che Cristo mi ha vinto amandomi, offrendomi il Suo amore, e mi ha
chiesto solo di ricambiarlo. Questo mi deve dare il coraggio di andare a dire
chi sono.
In quella giornata di digiuno e preghiera, con mia moglie siamo andati a Messa, era un martedì sera e mi ha colpito molto che la chiesa fosse affollata, da noi normalmente la gente va solo la domenica: lì ci siamo scoperti parte di un popolo, un popolo che sta gridando la pace. E per questo – inizialmente su richiesta di mia moglie, poi giudicandolo insieme – abbiamo deciso di anticipare il Battesimo di nostra figlia Marta, che allora aveva quattro mesi. Primo: perché, giudicando con gli amici, avevamo paura, non sapevamo come sarebbero andate le cose. Secondo: perché volevamo che nostra figlia facesse parte di quel popolo. E terzo: per affidarla all’Unico che ci dava la speranza in un momento in cui mancava la speranza per il Paese. Il Battesimo è stato bellissimo: lo abbiamo celebrato qui ad Haifa, in una piccola cappella dei cattolici di lingua ebraica (il parroco è italiano e in questi anni siamo diventati amici) e il rito si è svolto in tre lingue diverse: italiano, arabo ed ebraico. Dico sempre ai miei amici: «Trovatemi un posto, in questa situazione, dove si incontrano queste tre lingue insieme!». È stata proprio una grande festa affidare nostra figlia all’Unico che ci dava speranza in quel momento. Dico anche – da padre – che la forma di amore più bella che si può dare a un figlio è affidarlo, perché se l’amore non è quello, c’è qualcosa che non va. Lì ho capito sempre più che è un amore a caratterizzare la mia vita e che mi accompagna nel lavoro che faccio. (...)
Faccio l'oncologo ad Haifa e racconto un episodio, accaduto con un mio paziente ebreo, che è morto il 28 aprile. Quest’uomo, a cui mi sono molto affezionato, aveva un tumore al polmone metastatico. Ho provato di tutto con lui (chemioterapia, radioterapia, immunoterapia, operazione alla colonna vertebrale), ma andava tuto male, la malattia progrediva e io mi sentivo un po’ fallito rispetto a lui. L’ultima settimana della sua vita, mi chiama la moglie: «Guarda, non ce la stiamo più facendo, sta sempre a letto, è ingestibile. Come facciamo?». E io: «Portalo da me in ospedale, lo ricovero. Sappiamo dove sta andando, che muoia con dignità». Per cui lo porto subito in reparto, vado a trovarlo e lui mi dice: «Grazie per tutto quello che hai fatto per me». Io tra me e me mi arrabbio: «Sta andando tutto male!». Il giorno dopo, alle sette del mattino, per prima cosa vado a trovarlo e scopro che ha mandato la moglie a comprare dei regali per i miei figli. Gli dico: «Ma tu lo sai dove stai andando; perché l’hai fatto?». E lui: «So benissimo dove sto andando, ma grazie a te ho guardato la malattia in un altro modo». Lì è stato subito un altro richiamo per me: io non sono lì per guarire (desidero guarirli tutti!), ma io sono lì per comunicare un’altra cosa. E quell’uomo è morto felice.
Quella mattina, esco dalla camera con i due regali per i miei figli, con quel richiamo che mi aveva “spaccato” in due, e vedo un infermiere con cui siamo amici da cinque anni. Lui, tutte le volte che si discute, soprattutto per la guerra, mi dice: «Hai la moglie italiana, l’Italia è il Paese più bello al mondo, scappa! Cosa stai facendo qui? Perché rimani? Puoi andartene…». Quel giorno, mi vede, gli racconto del paziente, e mi dice: «Da cinque anni cerchi di spiegarmi perché vuoi stare qui. Oggi l’ho capito. Tu devi stare qui». Veramente, se noi rimaniamo è per un compito, un compito grandissimo.
Scoprendo di più il Suo amore, ho scoperto sempre di più anche il valore della nostra comunità: quest’anno ci siamo sorpresi a essere come una famiglia, fratelli. Abbiamo cominciato a fare delle cose insieme. L’Angelus tutti i giorni all’una, che per me è un momento molto importante, in cui ci fermiamo per fare memoria di quello che ci unisce. E poi la Scuola di comunità tutte le settimane (anche se online), e il dare un giudizio comunionale, un giudizio vissuto in una comunione. È nata anche l’idea di fare una giornata di convivenza una volta al mese. Come ci siamo scoperti fratelli? I fratelli non si risparmiano, non è che si “abbracciano” e basta; i fratelli si guardano in faccia. Come dicevo prima, la nostra non è una comunità facile, è mista e le frizioni tra persone diverse ci sono sempre. Racconto solo una call che ho vissuto con tre donne palestinesi per tantissimi problemi che si erano creati: la call, alle dieci di sera, era iniziata con toni arrabbiati («Vogliamo che le cose siano così!») e a un certo punto mi sono arrabbiato anch’io: «Perché sono qui alle dieci e mezza a parlarvi? Perché vi voglio bene! Voi siete fondamentali nel cammino che facciamo, perché siete il primo richiamo per me. Come anche gli altri sono fondamentali». E loro mi chiedono: «Ma come facciamo a vivere così?». «Per l’appartenenza a un luogo». E loro: «Ma come si fa ad appartenere sempre più?». «C’è una forma: l’iscrizione alla Fraternità». E loro, tutte e tre insieme: «Vogliamo iscriverci alla Fraternità!». Mi ha colpito tanto, perché in un momento particolare tu decidi di ricambiare quell’amore: al posto di fare come fa il mondo, tu decidi di ricambiare quell’amore lì.
(…)
Infatti vorrei chiudere esattamente come ho iniziato: «Mandato da qualcuno, a qualcuno, con qualcuno»
è quello che caratterizza la mia vita. Questa è la novità della mia vita, che
mi fa essere più uomo, più padre dei miei figli, più marito di mia moglie, più
oncologo dei miei pazienti e più amico dei miei amici. Grazie.
https://it.clonline.org/storie/mondo/2024/10/07/gia-testimonianza-hussam
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