mercoledì 11 settembre 2019

IL PAPA: UNO SCISMA AMERICANO?


 

NON HO PAURA MA PREGO PERCHÉ NON ACCADA

Al rientro dal viaggio in Mozambico, Madagascar e Mauritius, Francesco fa il punto della situazione della Chiesa e degli attacchi al suo pontificato: «Nella storia del cattolicesimo è già successo molte volte che un gruppo si stacchi, ma c’è di mezzo la salute spirituale di tanta gente»

 

Intervista di GIAN GUIDO VECCHI
Corriere della sera 11 settembre 2019

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SUL VOLO PAPALE - L’aereo sorvola il Kilimangiaro quando Francesco raggiunge i giornalisti che lo hanno seguito in Mozambico, Madagascar e Mauritius. All’andata, nel commentare un libro sugli attacchi contro di lui dell’ultradestra cattolica americana, aveva esclamato: per me è un onore che mi attacchino. Ora risponde sereno, ma secco: «Io prego che non ci sia uno scisma, ma non ho paura, nella Chiesa ci sono stati tanti scismi». E parla, tra l’altro, delle «xenofobie che tante volte cavalcano i cosiddetti populismi politici» («A volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34»), delle «guerre che non risolvono niente», di devastazioni ambientali e corruzione, della denatalità europea«per attaccamento al benessere».

Santità, negli Usa ci sono forti critiche e alcune persone a lei vicine hanno parlato di un complotto contro di lei. C’è qualcosa che questi critici non capiscono dal suo pontificato, o che lei ha imparato dalle critiche?
«Le critiche aiutano sempre, quando uno riceve una critica subito deve fare autocritica, e dire questo è vero, non è vero…Delle critiche io vedo sempre i vantaggi. A volte ti arrabbi, ma i vantaggi ci sono. Le critiche non sono soltanto degli americani ma un po’ dappertutto, anche in Curia, almeno quelli che le fanno hanno l’onestà di dirlo. E me piace questo, non mi piace quando le critiche stanno sotto il tavolo, ti fanno un sorriso che ti fanno vedere i denti e poi ti pugnalano da dietro. Questo non è leale, non è umano. La critica vera è un elemento di costruzione. Invece la critica delle pillole di arsenico è un po’ come buttare la pietra e nascondere la mano. Questo non serve, non aiuta. Aiuta i piccoli gruppetti chiusi che non vogliono sentire la risposta alla critica. Invece una critica leale, “io penso questo, questo, questo…”, è aperta alla risposta e costruisce, aiuta. Se dico “questo del Papa non mi piace”, faccio una critica e aspetto la risposta, vado da lui e parlo, scrivo un articolo e gli chiedo di rispondere. Questo è leale, questo è amare la Chiesa. Fare una critica senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non volere bene alla Chiesa, è andare dietro ad una idea fissa, cambiare Papa, cambiare stile, o fare uno scisma, questo è chiaro no? Una critica leale è sempre ben ricevuta, almeno da me».

Lei ha paura di uno scisma nella chiesa americana? 
«Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Concilio Vaticano I e l’ultima votazione, quella sull’infallibilità, un bel gruppo se ne è andato, si è staccato dalla Chiesa e ha fondato i veterocattolici per essere fedeli alla tradizione della Chiesa, poi hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno l’ordinazione delle donne. Ma in quel momento erano rigidi, andavano dietro ad un’ortodossia e pensavano che il Concilio avesse sbagliato. Anche il Vaticano II ha creato queste cose, forse il distacco più conosciuto è quello di Lefèbvre. Sempre c’è l’azione scismatica nella Chiesa, è una delle azioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi. Prego perché non ce ne siano, perché c’è di mezzo la salute spirituale di tanta gente, prego che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino nello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa, a come ha incominciato la Chiesa: con tanti scismi, uno dietro l’altro, basta leggere la storia della Chiesa. Gli ariani, gli gnostici, i monofisiti, tutti questi… È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi, gli scismatici hanno sempre una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo, dalla fede del popolo di Dio. Quando al concilio di Efeso ci fu una discussione sulla maternità di Maria, il popolo - questo è storico - era all’entrata della cattedrale e quando i vescovi entravano per fare il concilio, stavano con i bastoni e glieli facevano vedere e gridavano, “Madre di Dio, Madre di Dio”. Come dicendo: se voi non fate questo, ecco cosa vi aspetta. Il popolo di Dio sempre aggiusta e aiuta. Uno scisma è sempre una situazione elitaria, dall’ideologia staccata dalla dottrina. Per questo io prego che non ci siano gli scismi. Ma non ho paura. Io rispondo alle critiche, tutto questo lo faccio. Ma questo è uno dei risultati del Vaticano II, non è che questo Papa o l’altro Papa o l’altro Papa… Ad esempio le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse, io copio lui. “Ma il Papa è troppo comunista, eh ”! Entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola sulla ideologia lì c’è la possibilità di uno scisma. E c’è la ideologia, cioè la primazia di una morale asettica, sulla morale del popolo di Dio. La morale dell’ ideologia, così pelagiana, ti porta alla rigidità. E oggi abbiamo tante, tante scuole di rigidità dentro della Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che alla fine finiranno male. Quando voi vedrete cristiani, vescovi e sacerdoti rigidi, dietro di quello ci sono dei problemi, non c’è la sanità del Vangelo. Per questo dobbiamo essere miti con le persone che sono tentate da questi attacchi, perché stanno passando un problema, e dobbiamo accompagnarle con mitezza».


Cosa pensa del fenomeno della xenofobia in Africa? 
«Ho letto sui giornali di questo problema della xenofobia. Ma non è un problema solo dell’Africa, è una malattia umana, come il morbillo. È una malattia, ti viene, entra in un Paese, in un continente. E mettiamo muri, no? E i muri lasciano soli coloro che li fabbricano. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma coloro che rimangono dentro i muri rimarranno soli e alla fine della storia saranno sconfitti da invasioni potenti. Ma la xenofobia è una malattia, “la purezza della razza”, ad esempio, per nominare una xenofobia del secolo scorso. Le xenofobie tante volte cavalcano i cosiddetti populismi politici. Delle volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34. Si vede che c’è un ritornello in Europa, ma anche in Africa. Anche voi in Africa avete un problema culturale che dovete risolvere. Io ricordo che ne ho parlato in Kenya: il tribalismo. Lì ci vuole un lavoro di educazione, di avvicinamento fra le diverse tribù per fare una nazione. Abbiamo commemorato il venticinquesimo della tragedia del Rwanda, poco tempo fa. Un effetto del tribalismo. Io ricordo in Kenya, nello stadio, quando ho chiesto a tutti di alzarsi, di darsi la mano, e dire “No al tribalismo, no al tribalismo”, dobbiamo dire no. Anche questo anche è una chiusura e una xenofobia, una xenofobia domestica. Si deve lottare contro questo: sia alla xenofobia di un Paese con un altro, sia alla xenofobia interna».

E del problema dell’educazione dei giovani in Africa? 
«L’Africa è un continente giovane, ha vita giovane. Come ho detto a Strasburgo la madre Europa è quasi diventata la nonna Europa, è invecchiata. Stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo in Europa. Non so in quale Paese, ma è una statistica ufficiale del governo di quel Paese: nell’anno 2050 in quel Paese ci saranno più pensionati che gente che lavora. È tragico. Qual è l’origine di questo invecchiamento dell’Europa? Ho un’opinione personale: penso che la radice sia il benessere, attaccarsi al benessere. Sì, ma stiamo bene, io non faccio figli perché devo comprare la villa, fare turismo, un figlio è un rischio, non si sa mai… È un benessere che ti porta a invecchiare. Invece l’Africa è vita. Ho trovato in Africa un gesto che avevo trovato in Colombia e a Cartagena: le persone che mi mostravano i bambini. Dicevano: questo è il mio tesoro, questa è la mia vittoria. Lo stesso gesto l’ho visto in Europa orientale con una nonna che faceva vedere il bambino e diceva: questo è il mio trionfo. Voi avete la sfida di educare questi giovani. L’educazione in questo momento è prioritaria. Il primo ministro di Mauritius mi diceva che ha in mente la sfida di far crescere un sistema educativo per tutti, la gratuità del sistema educativo è importante perché ci sono centri di educazione di alto livello ma a pagamento. Ce ne sono ma occorre moltiplicarli perché l’educazione arrivi a tutti. Le leggi su salute ed educazione sono fondamentali».

Lei ha parlato con il presidente del Mozambico. Quali aspettative ha in relazione al processo di pace? 
«Oggi si identifica il Mozambico con il lungo processo di pace che ha avuto i suoi alti e bassi, fino a quell’abbraccio storico. Mi auguro che questo vada avanti e prego per questo. Invito tutti a fare lo sforzo di aiutare che questo processo di pace vada a avanti. Perché tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace, ha detto un Papa prima di me. È stato un processo di pace molto lungo, perché ha avuto una prima tappa, poi una caduta, poi un’altra, con lo sforzo di capi di partiti contrari, per non dire nemici, di andare a trovarsi l’un l’altro, uno sforzo anche pericoloso, alcuni rischiavano la vita. Vorrei ringraziare tutto la gente che ha aiutato, dall’inizio, dal primo che ha iniziato in un caffè. In un caffè c’era gente che parlava e c’era un sacerdote della Comunità di Sant’Egidio – sarà fatto cardinale il prossimo 5 ottobre – (Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna ndr) che ha iniziato il processo di pace lì. E poi ha continuato con l’aiuto di tanta gente di Sant’Egidio ed è arrivato a questo risultato. Non dobbiamo essere trionfalisti in queste cose. Il trionfo è la pace, non abbiamo diritto a essere trionfalisti perché la pace ancora è fragile nel Paese come nel mondo, è fragile e la si deve trattare “a pennellate”, come i bambini, con molta tenerezza, delicatezza, perdono, pazienza, per farla crescere e che sia robusta. Ma è il trionfo del Paese, la pace è la vittoria del Paese. E questo vale per tutti i Paesi che si distruggono con la guerra. Le guerre distruggono, fanno perdere tutto. Ho a cuore il tema della pace. Quando c’è stata la celebrazione alcuni mesi fa dello sbarco in Normandia ricordo che c’erano i capi dei governi a fare memoria dell’inizio della fine di una guerra crudele e di una dittatura anti umana e crudele come il nazismo e il fascismo: ma su quella spiaggia sono rimasti quarantaseimila soldati, eh! Il prezzo della guerra. Vi confesso: quando sono andato a Redipuglia ho pianto: per favore, mai più la guerra. Quando sono andato ad Anzio mi sentivo allo stesso modo. Dobbiamo lavorare con questa coscienza: le guerre non risolvono niente. Anzi fanno guadagnare le persone che non vogliono l’umanità. Dovevo dire questa cosa davanti a un processo di pace sul quale prego perché vada avanti e mi auguro che resti forte».

In Madagascar ha parlato della crisi ambientale, come in Amazzonia… 
«Esiste un inconscio collettivo per cui l’Africa va sfruttata. Noi dobbiamo liberare l’umanità da questo. E il punto più forte dello sfruttamento è l’ambiente naturale, la deforestazione, la distruzione della biodiversità. Un paio di mesi fa ho ricevuto i cappellani del mare. Nell’udienza c’erano sette ragazzi pescatori, mi hanno detto: “In alcuni mesi abbiamo recuperato quasi sei tonnellate di plastica”. L’intenzione di preghiera di questo mese è proprio la protezione degli oceani. In Vaticano abbiamo proibito la plastica. Poi ci sono i grandi polmoni dell’umanità. Uno in centro Africa, uno in Brasile, in tutta la zona amazzonica… E ci sono piccoli polmoni dello stesso genere. Bisogna difendere l’ecologia, la biodiversità che è la nostra vita, difendere l’ossigeno . La lotta più grande è quella per la biodiversità. La difesa dell’ambiente naturale la portano avanti i giovani che hanno una grande coscienza, perché dicono: “Il futuro è nostro… Col tuo fai quello che vuoi, ma non col nostro”. Cominciano a ragionare un po’ di questo. L’accordo di Parigi è stato un passo avanti buono. Sono incontri che aiutano a prendere coscienza. L’anno scorso, nell’estate, quando ho visto quella nave che navigava nel Polo Nord come se niente fosse ho sentito angoscia. E poco tempo fa abbiamo tutti visto la fotografia del funerale simbolico a un ghiacciaio che non c’era più, credo in Groenlandia».

I governi, a suo parere, stanno facendo tutto il possibile? 
«Alcuni fanno di più, altri di meno. Alla base dello sfruttamento ambientale c’è una parola brutta brutta: la corruzione. Quando si considera la responsabilità sociale e politica come un guadagno personale. Pensiamo ai tanti sfruttati nelle nostre società, in Europa. Il caporalato non lo hanno inventato gli africani. E così la domestica pagata un terzo del dovuto, le donne ingannate e sfruttate e costrette alla prostituzione nel centro delle nostre città…Tutto questo è sfruttamento ambientale e anche umano, per corruzione».

Attualmente in Madagascar molti giovani vivono in una famiglia molto complessa, a causa della povertà i genitori sono molto occupati… 
«In Madagascar il problema della famiglia è legato al problema della povertà. La mancanza di lavoro e anche allo sfruttamento, tante volte, nel lavoro. Quanti impedimenti no? Per esempio, nella cava di granito, coloro che vi lavorano guadagnano un dollaro e mezzo al giorno. Le leggi sul lavoro, le leggi che proteggono la famiglia, questo è fondamentale. E anche i valori familiari, che ci sono ma tante volte vengono distrutti per la povertà. Ieri in Mauritius, dopo la Messa, ho visto una bambina - aveva due anni, più o meno - che si era persa e piangeva perché non trovavano i genitori. E lì ho visto il dramma di tante bambini e giovani che perdono il legame familiare. Lo Stato deve prendersi cura della famiglia, dei giovani. Questo è un dovere dello Stato».

Lei ha menzionato in un messaggio di ringraziamento il popolo delle Chagos (tenute dal Regno Unito anche dopo la fine della dominazione coloniale e rivendicate da Mauritius: Il Tribunale dell’Aja e l’Assemblea Onu hanno chiesto ai britannici la restituzione, ndr). Il primo ministro di Mauritius l’ha ringraziata per avere ricordato le sofferenze della popolazione Chagos, le cui isole sono occupate dalla Gran Bretagna. Oggi c’è una base militare Usa. Come si può aiutare il popolo delle Chagos a rientrare? 
«Io vorrei ripetere la dottrina della Chiesa. Noi riconosciamo le organizzazioni internazionali e diamo loro la capacità di giudicare internazionalmente. Pensiamo per esempio al tribunale internazionale dell’ Aja o alle Nazioni Unite: loro parlano, e se siamo una umanità dobbiamo obbedire. È vero che non sempre le cose che sembrano giuste per tutta l’umanità saranno giuste alle nostre tasche, ma si deve obbedire alle istituzioni internazionali, per questo sono state create le Nazioni Unite e il Tribunale Internazionale. Perché quando c’è qualche lotta interna o tra i paesi, si va li a risolvere come fratelli civilizzati. Poi c’è un altro fenomeno – lo dico chiaro, ma non so se è un fenomeno del nostro caso - ed è quando arriva la liberazione di un popolo e lo Stato dominante deve andare via. In Africa ci sono state tante liberazioni, dalla Francia, la Gran Bretagna, il Belgio, l’Italia. Alcune liberazioni sono andate bene ma in tutti gli Stati che occupavano c’è sempre la tentazione di portarsi via qualcosa in tasca: sì, io dò la liberazione a questo popolo ma qualche briciola me la porto; per esempio, io concedo la liberazione al Paese ma dal pavimento in su, il sottosuolo rimane mio…Non so se è vero, è un esempio, ma sempre c’è questa tentazione e io credo che le organizzazioni internazionali debbano fare anche un processo di accompagnamento, riconoscendo alle potenze dominanti quello che hanno fatto per quel paese e riconoscendo la buona volontà di andarsene, e aiutandoli, con libertà, con fratellanza. Ma è un lavoro culturale lento dell’umanità e in questo le istituzioni internazionali ci aiutano tanto e dobbiamo andare avanti, facendo forti istituzioni internazionali. Le Nazioni Unite, l’ Unione Europea siano più forti non nel senso del dominio ma della giustizia, fratellanza e unità. C’è un’altra cosa che vorrei approfittare di dire: oggi non ci sono colonizzazioni geografiche, almeno non tante, ma ci sono colonizzazioni ideologiche che vogliono entrare nella cultura dei popoli e cambiarla e omogeneizzare l’umanità. La colonizzazione ideologica cerca cancellare l’identità degli altri per farli uguali. Arrivano con proposte ideologiche che vanno contro la natura e la storia e i valori di quel popolo, ma dobbiamo rispettare l’identità dei popoli, così cacciamo via tutte le colonizzazioni».

Secondo lei come sarà la comunicazione del futuro? Andrà un giorno in Spagna? 
«Io avrei bisogno del pallone di cristallo, per rispondervi. Ci andrò in Spagna, spero, se vivo. Ma la priorità dei viaggi in Europa è: i Paesi piccoli, poi i più grandi. Non so come sarà la comunicazione del futuro. Penso come era, per esempio, la comunicazione quando io ero ragazzo, ancora senza tv. Con la radio, col giornale, anche col giornale clandestino che era perseguitato dal governo di turno e si vendeva di notte, con i volontari… Ciò che rimane come una cosa costante della comunicazione è la capacità di trasmettere un fatto, un avvenimento, e distinguerlo dall’interpretazione. È importante che sia il fatto al centro e sempre accostarsi al fatto. Succede anche a noi, nella Curia: c’è un fatto, lo si racconta, ma viene abbellito, impreziosito, ognuno ci mette del suo, non con cattive intenzioni, ma la dinamica è questa. L’essenza del comunicatore è sempre riferire il fatto: il fatto è questo, la mia interpretazione è questa, mi hanno detto questo. Una volta mi raccontarono la storia di Cappuccetto Rosso, però ci aggiunsero l’interpretazione e così la storia finiva con Cappuccetto Rosso e la nonna che facevano un brindisi con il lupo. Insomma: l’interpretazione cambia il fatto».

Sappiamo che a lei non piace visitare dei Paesi durante le campagne elettorali. Eppure lo ha fatto in Mozambico a un mese dalle elezioni, essendo il presidente che l’ha invitata uno dei candidati. 
«Non è stato uno sbaglio, è stata un’opzione presa liberamente. Perché la campagna elettorale che comincia in questi giorni passava in secondo piano di fronte al processo di pace. L’importante era la visita per aiutare a consolidare il processo di pace. E questo è più importante di una campagna che ancora non era ancora iniziata. Cominciava nei giorni scorsi, alla fine della mia visita. E poi ho potuto salutare gli avversari politici, per sottolineare che l’importante era quello e non fare il tifo per questo presidente, che io non conosco e non so come la pensa e non so neppure come la pensano gli altri. Per me era più importante sottolineare l’unità del Paese. Ma quel che ha detto è vero: dobbiamo staccarci dalle campagne dei vari Paesi».

10 settembre 2019 
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