di Stefano Spinelli
mercoledì 11
aprile 2012
“Cambiare
tutto per non cambiare niente”? È questo l’inquietante interrogativo che prendo
in prestito dalla gattopardesca frase del Tancredi riferita alla Sicilia nel
corso del 1860 (“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto
cambi”), e che oggi mi viene da associare - chissà perché - alla riforma
dell’articolo 18 e dei licenziamenti, presentata alle Camere dal governo Monti,
dopo una lunga e travagliata gestazione che ha visto un colpo di coda a
effetto.
Com’è noto
si era partiti da annunci roboanti: occorre riformare il mondo del lavoro e
agevolare la flessibilità (oltre che in entrata) anche in uscita, in quanto
l’Italia è l’unico Paese dove vige una legislazione molto rigida che prevede -
in ogni caso - la reintegrazione del lavoratore ingiustamente o erroneamente
licenziato (mi riferisco alle imprese che superino un numero minimo di
dipendenti).
Era stata
formulata una bozza che si diceva essere ispirata al modello tedesco e che
prevedeva: il mantenimento del reintegro, nel caso in cui si licenzi un
lavoratore per motivi che in giudizio vengano accertati come discriminatori
(per la sua affiliazione sindacale, per la sua partecipazione a scioperi o per
motivi legati a posizioni politiche, religiose, per motivi razziali, culturali
o sessuali); la scelta giudiziale tra reintegro e un indennizzo - peraltro non
indolore, ossia tra 15 e 27 mensilità - qualora il licenziamento venga assunto
per motivi disciplinari rivelatisi inconsistenti; la corresponsione del solo
indennizzo per i licenziamenti assunti per motivi economici, e quindi
accampando ragioni produttive e organizzative dell’azienda non dimostrate in sede
giudiziale (si tratta di quei licenziamenti che oggi si dicono sforniti di
giusta causa oggettiva e per i quali è prevista sempre la reintegrazione del
lavoratore).
Pur nella
complessità della proposta di modifica, più o meno condivisibile a seconda delle
diverse letture del mondo del lavoro, tra difesa della stabilità del posto di
lavoro e ricerca della flessibilità, bisogna pur dire che detta proposta aveva
un suo senso ben preciso. Si cambiava bene o male la legislazione vigente e si
sostituiva la sanzione della reintegrazione del lavoratore illegittimamente
licenziato con quella economica di un consistente indennizzo, fino a 27
mensilità, per tutte quelle ipotesi di licenziamenti non giustificati, ma non
gravissimi, ossia non discriminatori, né pretestuosi o ritorsivi, cioè non
intimati per motivi disciplinari del tutto inesistenti o peggio per vendetta,
solo per i quali avrebbe continuato ad applicarsi la sanzione della reintegra.
La gravosità
dell’indennizzo sarebbe poi stata sufficiente - nelle intenzioni del governo -
a dissuadere le imprese dal procedere comunque con licenziamenti
ingiustificati. Si consideri che oggi la sanzione del reintegro può essere
sostituita dal lavoratore con la corresponsione di un indennizzo pari a 15
mensilità. Comunque, la riforma aveva il suo pezzo forte nella modifica della
disciplina dei motivi economici e non è affatto vero che riguardasse ipotesi
insignificanti e residuali. Le accese reazioni, soprattutto quelle negative,
alla riforma, stanno a dimostrare che di modifiche effettive si trattava e non
solo di facciata.
Ma ora tutto
è nuovamente cambiato. Si torna - credo - al passato. Non a caso i giornali
hanno titolato il nuovo mutamento di rotta del governo con un chiaro “torna il
reintegro”. Più che altro, credo che le ultime novità pongano questioni di
coesione interna alla nuova normativa. In sostanza, la modifica dell’articolo
18 non pare più avere una sua ragione ben precisa, un suo peso specifico. O si
tratta di lasciare le cose come sono ora; oppure mi pare risulterà di ben
difficile applicazione.
Intanto, si
aumenta la complessità: anche in caso di licenziamenti per motivi economici,
infatti, viene prevista la scelta del giudice se riconoscere l’indennizzo
oppure (ancora) il reintegro “in caso di manifesta insussistenza dei motivi
addotti”. In buona sostanza, anche nell’ipotesi di licenziamento per motivi
economici, che costituiva l’ipotesi più innovativa della riforma, sarà il
giudice a scegliere tra indennizzo e reintegrazione. E il discrimine tra la
scelta sarebbe la “manifesta insussistenza dei motivi”.
A questo
punto, però, la riforma non tiene più. Prima di quest’ultimo cambiamento, in
caso di licenziamento dovuto - per esempio - a una riorganizzazione d’impresa
comportante la soppressione del posto di lavoro, le ipotesi configurabili erano
due. O l’impresa dimostrava la sussistenza del motivo economico, e allora il
licenziamento risultava giustificato, senza alcuna sanzione né economica, né
risarcitoria. Oppure il motivo economico non veniva provato, e allora l’impresa
era condannata dal giudice al pagamento della (sola) sanzione economica, con la
grande novità dell’inapplicabilità della sanzione del reintegro. Adesso,
invece, nello stesso caso, sarebbero previste addirittura tre ipotesi: o il
motivo economico sussiste, oppure non sussiste e in questo caso il giudice
dovrebbe decidere se applicare l’indennizzo oppure la reintegrazione qualora vi
sia “manifesta insussistenza” del motivo.
Sennonché,
il motivo economico sussiste o non sussiste. Non mi pare possa essere
individuabile l’ulteriore categoria della “manifesta” insussistenza. Che
significa? O l’accampata riorganizzazione dell’impresa esiste ed è tale da
giustificare il licenziamento, oppure non esiste o non è tale da giustificare
il licenziamento. Non siamo nel campo del licenziamento disciplinare che può
comportare una gradualità di situazioni, di cui solo le più gravi sono atte a
legittimare il licenziamento. Qui il motivo economico che legittima la
soppressione del posto di lavoro o c’è o non c’è. Non mi pare possa
individuarsi l’ulteriore concetto del “manifestamente non c’è”.
Forse si
dovrebbe distinguere tra un motivo economico che non c’è, ma che tutto sommato
avrebbe potuto legittimare un recesso; e invece un motivo che non c’è e che in
ogni caso, a prescindere, non avrebbe mai potuto giustificare un recesso? Se
anche si riuscisse in questo improbabile intento, come si crede che si
comporteranno i giudici? Probabilmente la prassi si attesterà nel riconoscere
il reintegro in tutti i casi in cui risulterà insussistente il motivo, salvo
quelle pochissime situazioni in cui il giudice stesso sia indeciso.
Inoltre,
reintroducendo il reintegro, diventa decisivo sapere a chi spetti l’onere di
provare l’insussistenza del motivo: al lavoratore o al datore? Sinora era il
datore di lavoro che, in caso di licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, doveva provare non solo la sussistenza del motivo, ma anche
l’impossibilità di riutilizzare il lavoratore all’interno della struttura
aziendale, adibendolo a mansioni anche diverse, ma equivalenti, rispetto a
quelle svolte in precedenza (cosiddetto “obbligo di repechage”).
Se l’onere
dovesse essere confermato, il motivo economico si presumerà sempre
insussistente. In tutti i casi in cui l’impresa non riuscirà a dimostrare il
contrario potrebbe applicarsi il reintegro (esattamente come avviene ora). Se
invece l’onere spettasse al lavoratore, il motivo economico si presumerà
sussistente. Solo se il lavoratore riesce a provare che il motivo è pretestuoso
potrebbe applicarsi il reintegro. Ma nulla che riguardi detto onere sembra
previsto nella bozza di riforma e - stando così le cose - non vedo perché non
debba procrastinarsi la prassi a oggi esistente (dell’onere a carico del datore
di lavoro).
Allora, ho
l’impressione che l’ultima modifica alla bozza di riforma non sia altro che il
modo per reintrodurre, in tutti i casi di licenziamento illegittimo, la
sanzione della reintegrazione, esattamente come oggi (salvi residuali casi a
discrezione dei giudici). Con buona pace di coloro - e penso al professor
Ichino che pur da sinistra si sta battendo per ridurre la differenza tra
insider e outsider, tra garantiti e non garantiti - che avrebbero visto di buon
occhio la riforma Fornero. La controprova? La Camusso e la Cgil, che volevano
il mantenimento dell’articolo 18 e si sono sempre battute per scongiurarne ogni
ipotesi di modifica, hanno accolto con favore l’ultima modifica pur continuando
a contrastare la riforma nel suo complesso.
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