Fra chitarre, battimani, cori urlati, canzoni volgari, certe messe non hanno più nulla del mistero di fede. sono milizia terrena, arbitrio, artificio, falsità.
I cattolici "adulti" che disprezzano la tradizione esprimono la loro soddisfazione e fanno infuriare Socci.
Sul “caso Ligabue-nella-liturgia” mi trovo attaccato da
Corriere (Melloni) e Avvenire (Tarquinio)… E sentite come…
Bach come
Jovanotti? Ieri, sul Corriere della sera, il corsivista Alberto Melloni, campione
di cattoprogressismo, per rispondere al mio articolo sui funerali di Morosini,
stabiliva una sorprendente equivalenza, per la liturgia cattolica, fra le
canzoni di Ligabue e la musica di Mozart.
Dunque
cantare in chiesa, a un funerale, la Messa da Requiem di Mozart è la stessa
cosa che schitarrare – come hanno fatto a Bergamo – le canzonette di Ligabue
(con queste memorabili parole: “quando questa merda intorno/ sempre merda
resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”).
Vorrei dire
che, se Melloni detesta Mozart perché è amato da Ratzinger, provi a farsi
spiegare la grandezza teologica del suo Agnus Dei da Karl Barth.
In ogni caso
equiparare Mozart a Ligabue significa che manca o l’abc del giudizio culturale
o il senso del ridicolo o la pietà. O forse tutti e tre.
Soprattutto
manca la consapevolezza che la liturgia è la cosa più sacra della Chiesa e
non se ne può disporre a piacimento, perché non è fatta da noi, non è il
luogo delle nostre trovate, ma vi riaccade la passione e morte del Figlio di
Dio.
Stabilito
che in chiesa un corale di Bach non è la stessa cosa di una canzonetta di Vasco
Rossi, c’è poi il capitolo della musica sacra della tradizione e delle moderne
canzonette religiose.
Personalmente
non ho pregiudizi, anche se la qualità dei testi e delle musiche va valutata.
Ma quello che tracima dalla prosa di Melloni è soprattutto l’evidente
disprezzo per la tradizione cattolica che lo induce a definire il gregoriano un
“belare”.
E siccome
Melloni sostiene che per avvicinarsi a Dio non c’è differenza fra “belare in
gregoriano” e “quelle canzoni stile Pooh che riempiono le navate di tante
parrocchie”, voglio informarlo che invece la Chiesa stabilisce una
rigorosa gerarchia. In particolare definisce il gregoriano come il canto
proprio della Chiesa (poi viene la polifonia).
Lo ha
proclamato non in uno di quei Concili che i cattoprogressisti disprezzano, ma
proprio in quel Concilio Vaticano II di cui Melloni si proclama esperto e si
autonomina portabandiera.
Infatti
nella Costituzione “Sacrosantum Concilium” afferma che “la tradizione
musicale di tutta la chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che
eccelle tra le altre espressioni dell’ arte, specialmente per il fatto che il
canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrale della liturgia
solenne”.
Aggiunge:
“Senza
dubbio il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra scrittura, sia dai padri e
dai romani pontefici che recentemente, a cominciare da san Pio X, hanno
sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel
servizio divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più
strettamente sarà unita all’ azione liturgica”.
Il Concilio
prescrive: “Si conservi e si incrementi con somma cura il patrimonio
della musica sacra”.
E proclama:
“La
chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana:
perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il
posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la
polifonica, non si escludono affatto nella celebrazione dei divini uffici, purché
rispondano allo spirito dell’ azione liturgica, a norma dell’ art. 30”.
Come si vede
il Concilio Vaticano II è agli antipodi di chi boccia sprezzantemente il
gregoriano come un “belare” e lo equipara all’inserimento nella liturgia sacra
delle canzonette di Ligabue o di Vasco Rossi.
Si comprende
così che pure i tanti arbitri perpetrati nella liturgia non discendono affatto
dal Concilio ed è grave sbandierarlo a sproposito.
Già nel
1971 Ratzinger – che era stato un uomo del Concilio – denunciò la
grande devastazione teologica che il progressismo stava perpetrando, per cui “anche
a dei vescovi poteva sembrare ‘imperativo dell’attualità’ e ‘inesorabile linea
di tendenza’, deridere i dogmi”.
Nel 1997, da
prefetto dell’ex S. Uffizio, il cardinale Ratzinger scriverà: “sono convinto
che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo, dipende in gran parte dal
crollo della liturgia”.
Accanto ai
tanti abusi che si sono perpetrate nella liturgia, col post-Concilio, Ratzinger
ha sottolineato pure la decadenza della musica liturgica:
“E’ divenuto
sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si
scaccia la bellezza… La Chiesa ha il dovere di essere anche ‘città della
gloria’, luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più
profonde dell’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo
usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando
al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”.
Poi, proprio
Ratzinger, da Papa, ha cercato di riportare tutti alla retta dottrina anche
riordinando la liturgia e ridando legittimità all’antico rito della
Chiesa (che è il rito in cui si celebrava messa pure al Concilio
Vaticano II).
Sorprendente
è l’opposizione che tanti vescovi e preti hanno fatto a questo Motu proprio
“Summorum pontificum”. Un caso clamoroso è scoppiato proprio nella stessa diocesi di Bergamo
dove si è svolto il rito funebre di Piermario Morosini.
E’ stato
denunciato dal collega Alessandro Gnocchi sul “Foglio” del 17 novembre scorso.
Era morto il
padre dello stesso Alessandro e la famiglia aveva chiesto di celebrare le
esequie secondo il rito gregoriano a cui aveva ridato pieno accesso il Motu
proprio del papa. Ma il parroco, dopo aver preso istruzioni in Curia, ha risposto
di no.
E’ la stessa
Curia che poi lascia cantare le canzoni di Ligabue durante la Messa per
Morosini, canzoni –
ripeto – con questi testi: “quando questa merda intorno/ sempre merda
resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”.
Così tutta
la tolleranza liturgica che i progressisti alla Melloni sbandierano per chi si
vuole cimentare con Ligabue in chiesa, non deve più valere per chi chiede
semplicemente il rito cattolico autorizzato dal Papa?
La “pietà”
di Melloni dov’era quando sui giornali è scoppiato questo caso?
Anche il
direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio domenica mi ha criticato, richiamandomi
alla necessità di fare – nel caso di Morosini – “un’eccezione alla regola, per
puro amore e puro dolore” visto che “senza l’amore siamo solo cembali che
tintinnano”.
Ma non sono
io che posso autorizzare tali “eccezioni”: Tarquinio chieda al Vaticano. Io, da
parte mia, mi domando: perché il direttore di “Avvenire” non intervenne
anche per difendere il diritto al rito gregoriano della famiglia Gnocchi, visto
che in quel caso non si trattava neanche di “un’eccezione alla regola”, ma di
rispettare la regola data dal Papa?
Perché
Tarquinio non richiamò la Curia di Bergamo al dovere di carità nei confronti di
quella famiglia e al dovere di obbedire al Papa?
Il direttore
di “Avvenire” recentemente ha difeso con accanimento lo scrittore Enzo
Bianchi dalle legittime critiche rivolte a lui da alcuni teologi cattolici:
sarebbe auspicabile che con altrettanto zelo difendesse anche un Motu
proprio così caratterizzante del pontificato di Benedetto XVI come il
“Summorum pontificum”, da chi lo snobba.
Sottolineo
infine che il cuore del mio articolo sulle esequie del calciatore non erano
tanto le canzoni di Ligabue, quanto la mancanza da parte dei pastori di
una parola cristiana sulla necessità della preghiera per i defunti e
soprattutto sulla vita eterna.
E noto con
tristezza che pure in tutto lo scritto del direttore di Avvenire (di 2887
battute) non c’è un solo richiamo a questo che è il cuore della dottrina
cattolica.
Nemmeno
nell’articoletto di Melloni, ma di questo non mi sorprendo.
Sconcerta
però che i Novissimi (morte, giudizio, inferno e paradiso) siano scomparsi da
gran parte della predicazione e della catechesi.
Certo,
parlare dell’inferno non è “progressista”. Però è la più grande carità. E
pregare per i defunti è la vera pietà.
Antonio
Socci
Da “Libero”,
25 aprile 2012
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