ECCO UN INTERVENTO DI TRE ANNI FA DI FRANCESCO AGNOLI SUL FOGLIO CHE SOSTANZIALMENTE RIPRENDE LE STESSE CRITICHE, (IN PARTE GIA' POSTATE SUL BLOG). PER QUESTO E' INTERESSANTE COGLIERE CHE NON SI TRATTA NE' DI UN EPISODIO ISOLATO, NE' DI UNO SCONTRO VISCERALE, MA DI UN GIUDIZIO MEDITATO CHE VA AL CUORE DEL PROBLEMA
La Deposizione di Caravaggio |
Sono reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, "Per
un’etica condivisa" (Einaudi), e non posso non riflettere sulla distanza
che esiste tra il pensiero di questo famoso monaco mediatico e l’ortodossia
cattolica. L’errore di fondo, che inficia tutto il ragionamento di Bianchi, è
quell’ ottimismo mondano che si è insinuato profondamente nel pensiero
ecclesiastico e cattolico nell’epoca del post Concilio. Mondano, intendo,
perché ignora o sminuisce del tutto l’esistenza del peccato. “Quando la Chiesa,
scriveva parecchi anni fa il Cardinal Journet al cardinal Siri, prenderà
coscienza sino a che punto lo spirito del mondo è penetrato dentro essa, si
spaventerà”.
Ma come è penetrato questa mentalità, di cui Bianchi è oggi uno dei massimi
alfieri? A mio modo di vedere all’epoca del Concilio, allorchè in molti si
diffuse l’idea che col mondo, inteso in senso evangelico, occorresse trovare un
modus vivendi pacifico e conciliante, sempre e comunque. Bisognerebbe anzitutto
ritornare a quegli anni, per evitare di costruire leggende e miti come quelli
che piacciono ai vari Melloni, Mancuso e, appunto, a Enzo Bianchi: il concilio
non fu una pacifica e simpatica riunione di vescovi e periti, tutti in perfetto
accordo tra loro, ma fu una lotta dura, che vide la presenza di posizioni
problematiche e critiche, rispetto alla volontà di “aggiornamento” e
“innovazione”, di molti uomini di grande spessore, dal cardinal Siri, più volte
papabile, ai cardinali Ottaviani, Ruffini, Bacci, sino al Coetus
Internationalis patrum, formato da centinaia di padri conciliari, e raccolto
intorno a mons. Marcel Lefebvre.
I documenti conciliari sorsero dunque in mezzo alla tempesta, agli scontri,
talora veramente aspri, tra “conservatori” e “progressisti”, con correzioni,
emendamenti, e ambiguità, inevitabili laddove un documento nasca come
mediazione, come compromesso tra posizioni divergenti. A mio modo di vedere,
l’ambiguità più grande fu quella sull’atteggiamento da tenere, appunto,
rispetto al mondo, allo spirito moderno e alle sue filosofie. Il concilio volle
essere pastorale, e quindi soffermarsi proprio e soprattutto, in questo caso
senza godere dell’infallibilità, sui modi, le strategie, per una nuova
evangelizzazione, efficace e fruttuosa. Il principio guida, che fu indicato da
Giovanni XXIII, fu quello di utilizzare, rispetto alla “severità” del passato,
la “medicina della misericordia”.
Ci fu insomma un cambio di passo, che Romano Amerio, oggi riscoperto e
finalmente ristampato da Fede & Cultura, commentò tra l’altro con queste
profetiche parole: “Questo annuncio del principio della misericordia
contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della
Chiesa, la condanna stessa dell’errore è opera di misericordia, poiché,
trafiggendo l’errore, si corregge l’errante e si preserva altrui dall’errore.
Inoltre verso l’errore non può esservi propriamente misericordia o severità,
perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre
all’errore l’intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio
falso. La misericordia essendo, secondo S. theol., II, II, q. 30, a. 1, dolore
della miseria altrui accompagnato dal desiderio di soccorrere, il metodo della
misericordia non si può usare verso l’errore, fatto logico in cui non vi può
essere miseria, ma soltanto verso l’errante, a cui si soccorre proponendo la
verità e confutando l’errore. Il Papa peraltro dimezza un tale soccorso, perché
restringe tutto l’officio esercitato dalla Chiesa verso l’errante alla sola
presentazione della verità: questa basterebbe per sé stessa, senza venire a
confronto con l’errore, a sfatare l’errore. L’operazione logica della
confutazione sarebbe omessa per dar luogo a una mera didascalia del vero,
fidando nell’efficacia di esso a produrre l’assenso dell’uomo e a distruggere
l’errore” (Romano Amerio, Iota unum, Fede & Cultura).
Questo brano magistrale mi sembra possa essere utile per far fronte anche
oggi a questo ottimismo mondano, che nasce all’interno del mondo cattolico, e
che si presenta con alcune caratteristiche costanti: la condanna più o meno
aspra delle decisioni e della pastorale della Chiesa del passato; il ripudio
della Tradizione e il tentativo di presentare il Vaticano II come una sorta di
nuova Pentecoste, di vero e proprio atto di nascita della cosiddetta “Chiesa
conciliare”. Ottimismo mondano di cui il citato Bianchi costituisce uno degli
esempi più solari, in quanto espressione di un tipo di cattolicesimo adulterato
che ritiene che l’essenziale sia raggiungere una posizione condivisa, una
mediazione, un punto di incontro, quale esso sia, tra la Verità di Cristo e le
posizioni, anticristiche, del mondo. Se analizziamo il libro citato ne troviamo
subito, nell’incipit, il significato di fondo: Bianchi vuole fare pulizia,
anzitutto all’interno del mondo cattolico, mettere i puntini sulle i, spiegare
quale debba essere il comportamento dei suoi fratelli di fede. Costoro, scrive
Bianchi, debbono smetterla di riunirsi in “gruppi di pressione (sic) in cui la
proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell’altro, per
diventare intransigenza e arrogante contrapposizione a una società giudicata
malsana e priva di valori”. La lettura del seguito fa capire bene il
significato di queste parole, del tutto simili a quelle di un Augias o di un
Odifreddi: esse sono una condanna chiara, anche se un po’ ipocrita nelle
modalità, della posizione della Chiesa e dei cattolici, riguardo al referendum
sulla legge 40 e alla questione dei pacs-dico.
Una condanna, in generale, di ogni tentativo legale e leale da parte dei
cattolici, e non solo, di affermare valori non negoziabili in politica. Bianchi
lo ripete più volte, spiegando quello che è ovvio, e cioè che “il futuro della
fede non dipende da leggi dello stato”, ma dimenticando che i cattolici, come
tutti gli altri cittadini, sono chiamati ad esprimere la loro visione di
società, qui e oggi, e non a ritirarsi nelle sagrestie. Il cattolicesimo che
Bianchi vorrebbe è invece insignificante e inesistente sul piano culturale e
politico, e finisce addirittura per delineare una religiosità amorfa, astratta,
spiritualista, che è lontanissima dall’idea originaria del cattolicesimo.
Ogni scontro e polemica attuale, ogni rinascita odierna
dell’anticlericalismo, continua il monaco, è sempre colpa dei credenti, “è
sempre una reazione a un clericalismo che si nutre di intransigenza, di
posizioni difensive e di non rispetto dell’interlocutore non cristiano”. A
parte che non si capisce bene, a leggere queste parole, a quale dibattito abbia
assistito Bianchi in questi anni, il punto centrale è un altro: nel togliere al
cristianesimo la sua capacità di incarnarsi nella realtà, per plasmarla
concretamente, Bianchi finisce per negare cittadinanza al cristianesimo stesso
e per scegliere come punto di riferimento assoluto e ingiudicabile, quasi
metafisico, la Costituzione repubblicana. Da essa deriverebbe, udite, udite,
“l’assoluto diritto dello stato di legiferare su tutte quelle realtà sociali
fondate o meno sul matrimonio (sia religioso che civile)”. “Diritto assoluto”,
scrive Bianchi: una affermazione, a ben vedere, che oggi, dopo l’esperienza
delle statolatrie totalitarie, neppure il più laicista tra i giuristi
arriverebbe, almeno nella teoria, a sostenere. In tutto il suo argomentare
Bianchi annulla il concetto di Verità, affermando un relativismo pieno;
sostiene la perfetta equivalenza tra fede e ateismo (“l’uomo può essere
umanamente felice senza credere in Dio, così come può esserlo un credente”);
nega di fatto in più passaggi, con linguaggio equivoco, ma chiaro, il primato
petrino, a vantaggio del “primato del Vangelo”, e propone come unico
riferimento del suo argomentare, da buon protestante, solo e soltanto la
bibbia, la sua “lettura personale e diretta” (sic), etsi Ecclesia non daretur.
“Per un’etica condivisa” è appunto un inno ad un “modo”, ad uno “stile”, al
“come”, con cui i cristiani dovrebbero presentarsi oggi ai non credenti: un
modo, uno “stile”, inaugurato dal Concilio Vaticano II, che sarebbe “importante
quanto il messaggio”. Coerentemente, in tutto il libro manca, appunto, il
messaggio! Non vi è mai una affermazione chiara di una verità teologica o
morale: si parla di “etica condivisa”, si lanciano sfrecciatine piuttosto
velenose ai cattolici, al centro destra, a Berlusconi, a Maroni, a Mel Gibson,
a Ferrara, come fossero loro i problemi della cristianità, ma poi non si arriva
mai ai contenuti: tutto puro stile, buonismo a buon mercato, mai una parola,
una posizione, quale che sia, sulla clonazione, la fecondazione artificiale, le
famiglia, l’eutanasia, la sessualità, e tutti i problemi più scottanti
dell’etica odierna. Al massimo qualche vago riferimento alla pace, e un
accenno, velatissimo, per carità, alla 194, la legge che legalizza l’aborto,
ricordando però, anzitutto e soprattutto, che i cattolici dovrebbero rispettare
ogni legge nata dal “confronto democratico”, e proclamata, lo si ricordi, da
quello Stato che ha potere “assoluto” di vita e di morte.
A Bianchi sfugge, come
avrebbe detto Amerio, che lo stile è questione secondaria, nel senso che viene
dopo, logicamente e non cronologicamente, perché l’Amore procede dalla Verità,
e non viceversa. Gli sfugge, inoltre, che il suo irenismo indifferentista e
relativista è stato già bollato da san Pio X, allorché deprecava quanti alla
sua epoca si adoperavano per un “adattamento ai tempi in tutto, nel parlare,
nello scrivere e nel predicare una carità senza fede, tenera assai per i
miscredenti”, all’apparenza, ma in realtà priva di vera misericordia, perché
spoglia di verità. A chi continuava a sponsorizzare una “conciliazione della
fede con lo spirito moderno”, Pio X indicava il crocifisso, e ricordava che
certe idee “conducono più lontano che non si pensi, non soltanto
all’affievolimento, ma alla perdita totale della fede”. Perché se io non fossi
un credente, e leggessi, per cercavi una parola di verità, il libro di Bianchi,
arriverei alla conclusione che la verità non esiste, e che la mia sete di verità
è roba da persone senza “stile”. Caro Bianchi, la verità, nella carità, mi dice
sempre un’amica pro life, ma: la verità, per carità! Questo è l’unico stile,
della Chiesa, di Cristo e del suo Evangelo, cioè della buona novella (vede che
la novella, il messaggio, è importante?)
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