martedì 24 aprile 2012

UN FATTO E' LA COSA PIU' TESTARDA DEL MONDO

IL MISTERO DI BULGAKOV
E L'AMORE DI MARGHERITA

interventi di Adriano dell'Asta (tratto da La Nuova Europa)
e di Emmanuel Exitu (da Tracce)

il Diavolo agli Stagni dei Patriarchi, Mosca 1929

Il Diavolo è il piú appariscente personaggio del grande romanzo postumo di Bulgakov. Appare un mattino dinanzi a due cittadini, uno dei quali sta enumerando le prove dell’inesistenza di Dio. Il neo venuto non è di questo parere…Ma c’è ben altro: era anche presente al secondo interrogatorio di Gesú da parte di Ponzio Pilato e ne dà ampia relazione in un capitolo che è forse il piú stupefacente del libro… Poco dopo, il demonio si esibisce al Teatro di varietà di fronte a un pubblico enorme. I fatti che accadono sono cosi fenomenali che alcuni spettatori devono essere ricoverati in una clinica psichiatrica… Un romanzo-poema o, se volete, uno show in cui intervengono numerosissimi personaggi, un libro in cui un realismo quasi crudele si fonde o si mescola col piú alto dei possibili temi: quello della Passione… È qui che Bulgakov si congiunge con la piú profonda tradizione letteraria della sua terra: la vena messianica, quella che troviamo in certe figure di Gogol e Dostoevskij e in quel pazzo di Dio che è il quasi immancabile comprimario di ogni grande melodramma russo (Eugenio Montale).
“…. Che cosa vuoi infine?
Sono una parte di quella forza
Che desidera eternamente il male
E compie eternamente il bene”.
(Goethe, Faust)
INVITO ALLA LETTURA
Il mistero di Bulgakov
di Adriano Dell'Asta
10-04-2012

Anticipiamo questo articolo tratto dal numero in uscita de "La Nuova Europa", il bimestrale della Fondazione Russia Cristiana.

Michail Afanasevic Bulgakov nasce a Kiev il 3 maggio 1891 in una famiglia profondamente unita e ospitale, sempre aperta a tutti, dove si cantava e si suonava, dove la mamma era una regina luminosa e il padre era un punto di riferimento pacificante. Afanasij Bulgakov era professore di storia della teologia occidentale (esperto in anglicanesimo) all’accademia teologica di Kiev; è attraverso questa famiglia e gli amici del padre che Bulgakov conosce il cristianesimo; e anche quando la fede verrà scossa o sembrerà scomparire, la memoria di questa atmosfera e di questa gente resterà. (...)

Bulgakov non fa studi di carattere letterario, filosofico o teologico, studia medicina e diventa medico, esercitando anche la professione nei primi anni. Le esperienze di questo periodo sono conservate nei Ricordi di un giovane medico, dove tra le tante cose che il giovane scrittore ci trasmette ne ricordiamo due in particolare; innanzitutto che, per quanto i libri siano fondamentali, non ci trasmettono mai sino in fondo quella che è la vita nella sua completezza: «La mia ferita non assomigliava a nessun disegno», deve constatare sconsolato il giovane medico, così come altrove, deve ammettere che, nella realtà e dalla realtà, si impara che c’è qualcosa che nessun libro può insegnare: «Dalle parole staccate, dalle frasi lasciate in tronco, dai brevi cenni buttati là di sfuggita imparai la cosa più indispensabile, che non c’è in nessun libro». La seconda cosa che il giovane medico impara sul campo è che da solo non può salvare questa vita sorprendente; il suo compito come medico è esattamente questo, salvare la vita, ma, a differenza di quanto credono molti, conquistati dalle nuove potenzialità della scienza, lui non si fa nessuna illusione: è sempre lui e soltanto lui che deve mettersi in gioco e prendere le decisioni ultime, ma da solo non può fare nulla. (...)

Se si crede di salvare un malato o di trasformare il mondo da soli si rischi di fare degli sfracelli. È quello che è successo con la rivoluzione, ma è anche quello che Bulgakov ci suggerisce con altre due opere famose, Cuore di cane e Uova fatali, due racconti satirici o fantascientifici che in realtà sono molto di più: in Cuore di cane la pretesa del professor Preobraženskij è quella di trasformare un cane in un essere umano ma l’esito è totalmente e ridicolmente fallimentare. A questo proposito, siccome niente avviene senza una ragione o senza un motivo, va ricordato il nome del dottore, che richiama la festa della Trasfigurazione nella quale i corpi e le cose materiali vengono trasformate in luce o in corpi gloriosi, mentre qui invece abbiamo l’esatto contrario: neppure una semplice trasformazione ma addirittura una deformazione, perché il dottor Preobraženskij riesce soltanto a trasformare un simpatico cagnetto, che aveva pensieri e sentimenti umani, in un’insopportabile carogna che si comporta come un animale. Questo succede quando la realtà non ci desta più stupore ma solo pretesa di dominio, quando non si rispetta più la realtà e, per dominarla, le si preferiscono le nostre idee, o addirittura si cerca di creare una nuova realtà, modellata sulle nostre idee; è quanto succede in Uova fatali, dove l’uomo pretende di creare la vita e di sostituirsi in questo modo a Dio.

E anche qui, per capire quanto Bulgakov si diverta a farci vedere come può essere interessante la realtà se appena si cerca di andare al di là delle apparenze, varrà la pena di ricordare che il professor Persikov, scopritore del raggio rosso della vita che trasforma delle semplici lucertole in enormi mostri antidiluviani, è nato il 16 aprile 1870, cioè nello stesso anno di Lenin e nello stesso giorno in cui Lenin è tornato in Russia dal suo esilio svizzero dopo la rivoluzione di febbraio, e porta (anche lui come il professor Preobraženskij) un nome inventato ma che richiama quello reale di Abrikosov, cioè il nome del medico che eseguì l’esame autoptico sul cadavere di Lenin. Davvero tante cose succedono per caso, ma a questo punto è difficile pensare che succedano senza una ragione, anche perché, dopo aver consegnato il testo del racconto, tornato a casa, Bulgakov disse alla moglie: «Ho consegnato la mia condanna morte».

Ma se «è duro a morire lo spirito canino», come dice il cane dai sentimenti umani di Cuore di cane, che vorrebbe sfuggire al suo carnefice, altrettanto dura e «testarda» è la realtà, a dispetto di tutti i tentativi che l’uomo fa per sostituirla con le sue idee, a dispetto di tutti i tentativi che l’uomo fa per cancellare Dio come ultimo baluardo della realtà. E così arriviamo al Maestro e Margherita, con il suo inizio nel quale due scrittori, atei e comunisti, cercano disperatamente e vanamente di convincere il diavolo che Gesù non è mai esistito. In effetti, la prima idea del romanzo molto probabilmente venne a Bulgakov proprio dopo aver visto nel gennaio del 1923, in occasione del Natale ortodosso, una manifestazione nella quale veniva portato un cartello con la scritta: «Fino al 1922 Maria partoriva Gesù, nel 1923 ha partorito il giovane comunista». Ma adesso che sappiamo quanto può essere complesso, ricco di significati nascosti e sorprendente un testo di Bulgakov andiamo per gradi, tenendo presente che dopo questa prima idea passarono ancora alcuni anni prima che nel 1928 Bulgakov cominciasse effettivamente a scrivere quello che poi sarebbe stato il suo lavoro principale fino alla morte, avvenuta il 10 marzo 1940.

La prima cosa
che balza agli occhi è la complessità del testo, che è costruito attorno a tre nuclei narrativi; il primo di questi nuclei è costituito dalle avventure del diavolo e dei suoi assistenti nella Mosca atea degli anni Trenta, nella quale proprio ai diavoli tocca tra l’altro di richiamare il fatto dell’esistenza di Dio e del mistero. Il secondo nucleo, quasi in contrapposizione diretta a questa violenza che non si accontentava di bestemmiare Dio ma voleva cancellarlo dalla storia, è appunto la storia di Ponzio Pilato con il processo di Cristo e la sua passione, una storia sulla quale il Maestro sta scrivendo un romanzo e che in certi momenti sembra raccontata come una cronaca da un testimone oculare d’eccezione, il diavolo stesso. Il terzo nucleo è la vicenda dell’amore di Margherita per il Maestro, uno scrittore che è stato ostracizzato proprio per aver cominciato a scrivere questo romanzo su Pilato e Gesù con le caratteristiche di un romanzo storico, cioè di qualcosa che pur in forma romanzata è realmente avvenuto; gli attacchi che ha ricevuto hanno portato il Maestro fin quasi a impazzire ed egli è arrivato addirittura a bruciare quanto aveva scritto sino ad allora (...)

Tutto dunque sembra molto casuale, sembra costruito in maniera molto casuale, ma ormai sappiamo per certo che in Bulgakov quanto più si manifesta una casualità tanto più dietro di essa si cela una ragione. Così alla fine scopriamo che davvero tutto è profondamente legato: il diavolo è venuto a Mosca per una ragione precisa, permettere al Maestro, che aveva bruciato il suo romanzo, di ritrovarlo e di terminarlo; ma grazie alla continua intercessione di Margherita, anche Pilato ha una nuova vita, dopo che da duemila anni si tormenta per aver lasciato condannare Cristo e per aver rinunciato in questo modo a continuare ad ascoltare quel personaggio misterioso, colui che alla sua domanda su cosa fosse la verità non aveva risposto con un discorso ma anzi lo aveva fatto uscire dal piano dei discorsi e lo aveva riportato alla realtà, «la verità è che ti fa male la testa», gli aveva detto, e in questo modo, rivelandogli la realtà come nessun altro, aveva destato in lui uno stupore che nulla avrebbe mai più potuto cancellare.

Ma a questa conclusione, a questo stupore di fronte alla realtà e alla sua irriducibilità siamo portati per gradi, attraverso dei segni che sono disseminati in tutto il testo, per come è costruito e per quello che dice. Innanzitutto vediamo come è costruito il testo; infatti, trattandosi di un’opera d’arte, la forma è decisiva per capire il contenuto: il modo in cui viene costruito il testo, il modo in cui vengono dette le cose ci mette nelle condizioni di capire cosa viene detto. Lo stupore, il senso del mistero, la coscienza che il reale è irriducibile a quello che noi pretendiamo di sapere si fa strada sin dalle prime righe del romanzo, quando si cerca di capire in che anno si svolga; per certi versi è tutto chiarissimo, siamo in una settimana di Pasqua che cade agli inizi di maggio, il che in base al calendario ci fa dire che può trattarsi solo del 1929: anno perfettamente scelto, siamo agli inizi della «grande svolta», quando il percorso di distruzione della realtà da parte del regime prende una via sempre più violenta, quando il movimento dei Senza Dio che aveva organizzato la processione blasfema di cui parlavamo prima si era ribattezzato Lega dei senza Dio militanti.

In realtà le cose si presentano in maniera molto più complessa e, a dispetto del calendario, Bulgakov fa in maniera che quella data possa essere contemporaneamente un’altra data. Così, nel romanzo non è stata ancora distrutta la chiesa di Cristo Salvatore (fatta abbattere da Stalin nel 1931), ma sono già stati introdotti i passaporti (cosa che avvenne solo nel 1932), si circola già in filobus (il che si verificò solo a partire dal 1934) e sono già state abolite le tessere annonarie (soppresse in realtà solo nel 1935). E la stessa indeterminatezza riguarda anche i luoghi, poiché nel terzo capitolo si vede un tram correre lungo strade (il vicolo Ermolaevskij e la via Bron­naja), descritte minuziosamente, e che Bulgakov conosceva benissimo, ma per le quali non era mai passato nessun tram. A questo punto si può pensare che siano particolari che il lettore normale non nota e che comunque può trattarsi di semplici errori. Sulla prima osservazione diciamo che forse oggi il semplice lettore queste cose non le sa, ma le sapevano benissimo quelli per cui Bulgakov scriveva. Sulla questione degli errori diciamo invece che sembra difficile che uno che si documentava sulla questione del significato dei numeri con una meticolosità incredibile caschi poi su delle cose così banali. È più credibile che lo faccia apposta proprio per non permetterci di essere sicuri, per farci riconoscere che la realtà è sempre «questo» e «non questo».

In base a che cosa posso permettermi di dire che questa ipotesi è più attendibile? Lo dico con attendibile certezza perché risulta dai fatti: in una delle prime versioni noi eravamo ancor più sicuri che la data fosse il 1929 perché ad un certo punto si diceva che Kant era morto 125 anni prima dello svolgimento dei fatti (1804 + 125 = 1929); poi questa cifra così esatta era stata cambiata con un più vago «oltre cento anni»: a questo punto il lettore non avrebbe più potuto fare conti esatti e tra calendario, passaporti, tessere e tutto il resto noi siamo costretti a dire che davvero era quell’anno ma forse non lo era: ci resta solo la curiosità e lo stupore. Non si creda mai dunque di possedere la realtà; dopo avercelo suggerito con la forma del testo, Bulgakov può dircelo anche esplicitamente.

Proprio nel primo capitolo del romanzo abbiamo i due scrittori atei e comunisti che cercano di convincere uno sconosciuto (che poi si rivelerà essere il diavolo) che Dio non esiste; a questo punto è il diavolo a prendere le difese di Dio ma, facendolo, non si serve mai di discorsi teorici, come le prove dell’esistenza di Dio ad esempio, e ricorre invece sempre alla realtà e all’esperienza, un’esperienza che l’uomo non può possedere sino in fondo e che quindi rimanda continuamente a qualcosa d’altro. Ma leggiamo innanzitutto il testo; dice dunque il diavolo: «Ecco la questione che più mi turba: se Dio non esiste, chi dirige dunque la vita umana e tutto l’ordine che regna sulla terra? – È l’uomo stesso a dirigerli, gli rispose il poeta. – Ma scusi, replicò gentilmente lo sconosciuto, per dirigere bisogna pur avere un piano preciso, e per un periodo di tempo ragionevole. Mi permetta di chiederle in che modo l’uomo potrebbe dirigere se non solo non è in grado di predisporre un piano qualsiasi neppure per un lasso di tempo ridicolmente breve come, diciamo, mille anni, ma non è addirittura sicuro del proprio domani... Sì, l’uomo è mortale, ma questo sarebbe un male da poco. Il peggio è che talvolta è mortale all’improvviso, ecco il punto! E non è neppure capace di prevedere quello che farà la sera. – Beh, questo poi è esagerato. So per filo e per segno cosa avverrà stasera. Certo che se in via Bronnaja mi cade una tegola sulla testa... – Una tegola, intervenne lo straniero in tono suadente, non cadrà mai così senza una ragione; nel nostro caso le assicuro che non corre questo rischio. Morirà di altra morte».

Lo scrittore ateo non crederà a questo avvertimento, crederà di sapere tutto sulla realtà e, come già sappiamo, gli mozzeranno la testa. A questo punto la prova della realtà è molto più convincente di qualsiasi discorso. Così, quando i tre si mettono a discutere delle prove dell’esistenza di Dio, il diavolo può contestarle e riderne, esattamente come gli atei, pur essendo assolutamente convinto di questa esistenza e senza rinunciare assolutamente a questa certezza; proprio per questo quando uno dei due scrittori gli dice: «Vede, professore, noi rispettiamo il suo vasto sapere, ma al proposito ci atteniamo a un punto di vista diverso», il diavolo ribatte: «Non c’è bisogno di nessun punto di vista, è esistito e basta!», e comincia a raccontare gli eventi del processo di Gesù esattamente come un testimone oculare, come uno che può dire: «io c’ero». E qui c’è l’ultimo passo che dobbiamo compiere: il fatto che non possiamo pretendere di possedere e dominare la realtà, il fatto che non possiamo pretendere di conoscere la realtà fino in fondo non significa che la verità non esista o che noi non possiamo conoscerla in nessun modo. È qui che appare l’importanza della figura di Pilato, attraverso il quale si fa strada un rapporto con la verità tutt’altro che scettico.

Se la verità
non è riducibile a una delle nostre idee sulla realtà e non è in generale un discorso, nella versione che Bulgakov dà della tradizionale domanda scettica di Pilato, rimasta senza risposta, si fa strada qualcosa di diverso; come ho già detto, Gesù non risponde con un discorso, ma con un dato reale che nessuno oltre a Pilato può conoscere: «La verità è che ti fa male la testa». Questa risposta sorprendente e del tutto imprevedibile, ma che corrisponde perfettamente all’esperienza di Pilato, apre nel cuore del procuratore, come nel cuore di ogni uomo, lo spazio di una domanda e di un desiderio, quello di continuare a parlare, di riprendere a camminare, con quell’essere eccezionale attraverso il quale la realtà viene svelata in maniera altrimenti impossibile e restituita all’uomo secondo una pienezza che non pretende di chiudere il discorso o di interrompere il cammino, ma anzi esige di continuarli per l’eternità.

EMMANUEL EXITU: al diavolo la Pasqua
Il triduo fantastico del “Maestro e Margherita” di Bulgakov e la certezza che “un fatto è la cosa più testarda del mondo”
ll fatto di Cristo è un problema storico, dice il Diavolo. Non riguarda la coscienza, o il punto di vista, o il sentimento. Riguarda la storia, e la ragione: il fatto del Dio che diventa uomo per camminare sulla terra e distruggere la morte, è l’ennesimo ricalco di un mito o è accaduto? “Il Maestro e Margherita” si fonda su tale problema storico, posto con buonumore indistruttibile a due intellettuali proprio dal Diavolo, in visita a Mosca nella sera del mercoledì santo del 1929.
Bulgakov cominciò il romanzo nel 1928 e passò ogni istante del suo tempo “libero” – gli anni Trenta, i più orribili del terrore staliniano – a scrivere e riscrivere il romanzo: nel 1930, sconvolto da un giro di vite della censura, arrivò persino a bruciare il manoscritto, ma quello che aveva in cuore era il suo Roveto Ardente, che brucia senza consumare, e così ricominciò, portò a termine la seconda stesura nel ’31, la terza nel ’37 e la quarta nel ’40, a quattro settimane dalla morte. Anna Achmatova lesse il romanzo nel 1939 e scrisse: “Geniale!”. Il mondo aspettò quasi trent’anni per gridare la stessa cosa: con cancellazioni mutilanti e correzioni narcotiche il romanzo fu pubblicato sulla rivista Moskva tra il novembre del ’66 e il gennaio del ’67, poi nel corso dello stesso anno la versione integrale apparve in samizdat, che fu subito tradotta e pubblicata da Einaudi. Un successo immediato e mondiale. Perché?
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Queste pagine bruciano anche quando finiscono, il fuoco passa dalla carta al cuore e incenerisce i nostri giorni vuoti di memoria, pensieri, parole, opere, per lasciarci fiamme d’attesa, dolore, vita. Sono pagine a dimensioni iperboliche, quasi bibliche. La prima dimensione si può ironicamente definire larghezza: è l’Unione Sovietica, la società-scatoletta dei “nemici di tutti i misteri” che tentò invano di comprimere Santa Madre Russia, la società dove ciò che non si può spiegare non esiste e dove, in contrappasso perfetto, l’agire più diffuso – inganno, ipocrisia, imbroglio, sfruttamento, simulazione, cortigianeria, tradimento – nasce dall’impossibilità di essere se stessi (siccome l’io è tra le cose che non si possono spiegare, l’io non può esistere: e, seguendo Dostoievskij, se l’io non esiste allora tutto è permesso, tranne essere se stessi).

Dentro questo “bunker senza finestre (copyright Benedetto XVI) in tutto simile al nostro mondo, un indomabile superstizioso come Bulgakov soffia il vento roventissimo delle sue fiabe popolari, regno del possibile e quindi regno dell’educazione alla categoria del possibile. In verità, si può parlare di genere fantastico solo a patto d’intenderlo non irreale, ma più reale, come avviene per esempio nell’occhio e nel pennello di Marc Chagall, altro russo dal simile modo di guardare la vita: a nessuno può venire il dubbio che i suoi innamorati volanti non esistano, perché in effetti gli innamorati volano, come scopre chiunque s’innamori. Del resto, così lavora ogni opera d’arte, di qualunque genere sia: fa scoprire più realtà (il “realismo quasi crudele” accusato da Montale a proposito di queste pagine ha molto in comune con tale esperienza dolorosa: lasciare che l’arte forzi la nostra percezione solita, per allargarla). Così racconta gli anni di Stalin con uno spirito a metà tra le fiabe di magia piene di “alti ideali” e di “tensione verso qualcosa di elevato” e le fiabe di costume in cui scenari e personaggi sono reali, ma azioni e storie sono “insolite, inaudite, su tutto l’impossibile” (strategia narrativa sigillata dal clichè della ripetuta dichiarazione, a effetto umoristico, della veridicità della storia: cfr. V. Propp, “La fiaba russa”). Nel cozzo tra fantastico e reale sfavilla il suo grandioso stile comico, spesso incrementato da un’atmosfera diffusa che sembra tolta di peso dal comico involontario dei verbali di polizia dei mondi totalitari.
E’ in quest’inferno che arriva Satana, alla vigilia di un torrido Triduo pasquale, per scatenare parole e opere che metteranno sistematicamente in ridicolo l’uomo rifatto ex novo dal progresso comunista. Si presenta come professor Theodor (“dono di Dio”) Woland (uno dei nomi germanici del Diavolo, il dio fabbro dell’antica mitologia nordica), esperto di magia nera, con biglietto da visita in caratteri non cirillici ma latini, che pronunciati alla russa suonano faland, stessa radice di falsità (anche in tedesco e russo), e vale notare che la sua iniziale W è il rovesciamento dell’iniziale M dei protagonisti. Ma qui tutto brulica di tali ramificazioni di senso, che prolificano di continuo, come nelle icone, dilatando il nostro sguardo e il nostro essere. Chiunque avrà a che fare con Woland perderà la testa: tema insistente sia in senso letterale d’esser decapitati, che in senso figurato d’impazzire.
(E’ uno strano diavolo, però. Porta caos e fuoco e disorientamento, ma lo fa smascherando il male e l’ipocrisia… non è un’operazione che di solito spetta alla Verità? E’ un enigma insolubile, come l’epigrafe del romanzo tratta dal Faust di Goethe: “Dunque tu chi sei?”. “Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”. Da quale mondo viene veramente questo Straniero?).
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Il comico s’infrange quando entra la dimensione dell’altezza, la storia di Pilato che per viltà abbandonò l’Innocente, un quasiGesù (così come Satana è un quasiSatana: il simbolismo è sempre ambivalente, sfalsato, sfuggente, mai sovrapponibile – per fortuna? no – all’ortodossia, è appoggiato sul più generico manicheismo tipo “buoni vs. cattivi”, il dio della luce contro il dio della tenebra, ma è un appoggio funzionale al racconto, non fondante – essenziale è il metodo di cui parlerà più avanti, il metodo!, inconfondibilmente ortodosso-cattolico, cioè umano e razionale). C’è una violenta incandescenza di stile verso il tragico, oppressivo come l’Impero romano che vive solo d’intrigo e tradimento, soffocante come l’immensa nube scura dai contorni giallastri che affoga Gerusalemme mentre muore quell’Uomo, tormentoso come il vuoto che strangola Pilato quando capisce che “quel mattino s’era lasciato irreparabilmente sfuggire qualcosa”. (A proposito: Pilato è devastato da mal di testa crudeli e immedicabili, e solo nei brevi istanti di dialogo con Gesù sarà guarito tanto che nella sua vita e nella sua eternità penserà sempre a lui come al “medico”).
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La dimensione della profondità è Margherita, l’unica che tiene testa a Satana non perché buona, ma perché ama: anche lei vive di falsità e leggerezza, ma è trasfigurata dall’amore che la proietta fuori di sé, liberata dalla smania di possesso e potere, persino di vanità. Anche qui lo stile vira brutalmente, e affila ogni lama quand’entra in scena lei: bella, intelligente, ricca, trentenne sposa di un bel giovane di successo, onesto, innamorato. “Insomma… era una donna felice? No, nemmeno per un minuto”. La felicità comincia incontrando un uomo senz’altro nome che il Maestro, autore del libro su Pilato fatto a pezzi dalla critica letteraria (ma lui respinge con odio l’etichetta di letterato: lui, dice, è uno storico – un’orgogliosa precisazione, che conferma la tesi del Diavolo: il problema è innanzitutto storico, e come tale lo tratta); la felicità finisce quando lui brucia il manoscritto – come fece Bulgakov – e scompare nel nulla, facendosi chiudere in manicomio. Quando l’amore colpisce in pieno, comico e tragico si sfaldano rivelando un nucleo d’umanità che assimila tutto e reclama un cambio di tono. Non serve il tragico, non serve il comico, ora serve il drammatico – che li include perché lei ha uno scopo chiaro, si potrebbe quasi dire un compito: ritrovare il suo amore, liberarlo e salvarlo. La sua occasione viene dal Diavolo: avvicinata da un suo messaggero, accetta d’essere la regina al gran ballo di Satana in cui i più orribili criminali della storia sfileranno per baciarle mano e ginocchio, ovviamente con proporzionata ricompensa: in cambio, riavrà il Maestro. Il messaggero le dona una crema e scompare. La sera, mettendosi nuda, Margherita spalma il suo corpo e rifiorisce di colpo, sfolgorando di bellezza – sarà sempre nuda fino alla fine della notte, e quasi non sembra, per il modo con cui la tratta Bulgakov: il suo fascino è assoluto, non c’è posto per la semplice concupiscenza (ci vuole molto di più per tenerla vicino, ci vuole amore). E’ una scena di felicità selvaggia, trionfo carnale di forza e giovinezza, eppure ha un fondo inatteso, la perla nascosta di una lacrima di commozione: dopo un brivido di sorpresa e vanità nel vedersi trasfigurata, Margherita capisce che la sua bellezza sarà l’arma per liberare il Maestro, e allora niente la fermerà. La controprova è la reazione della domestica Natasa che usa il fondo del vasetto buttato dalla padrona. Con la bellezza Natasa imporrà i suoi capricci, e opprime; con la bellezza Margherita imporrà il suo amore, e libera: quando alla fine del gran ballo, Satana chiede cosa vuole in cambio, Margherita si lascia travolgere dalla pietà ed esige che Frida, una delle partecipanti al ballo, non sia più tormentata dal fazzoletto col quale soffocò il figlio appena nato. A norma di accordo, perde la possibilità di salvare il Maestro, ma il Diavolo ha un’ironica reazione: “Non vogliamo lucrare sul gesto di una persona poco pratica, in una notte di festa” e concede alla donna un altro desiderio.
Margherita non è solo una donna, è duemila volte donna perché innamorata. Riuscirà, più letale di un Navy Seal, perché con una donna innamorata non ci si può disperare, e nemmeno scherzare: dove non ti porta il Diavolo ti porta la donna, dice un proverbio russo (e nella vita la donna che seppe tener testa a ogni diavolo fu Elena, sua terza moglie, fedele nella povertà e nella malattia: a lei Bulgakov, consumato dalla sclerosi a placche e cieco, dettò l’ultima riscrittura del romanzo).
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Ma è una vittoria? In nessun modo. Non per caso la tonalità tragica torna nell’ultimo capitolo, traboccando dalla dimensione dell’Uomo per inondare le profondità di Margherita: nella notte del Sabato Santo, “la notte che smaschera gli inganni”, Satana e i suoi aiutanti manifestano la propria intimissima, sfiancante tristezza; i due amanti sono premiati con la morte e l’eterno rifugio di un limbo imperturbabile che non ha nulla di paradisiaco, una “casa eterna” che Margherita descrive con esaltazione sospetta, forzata (quando la vide per la prima volta percepì come “un non so che di morto e di così triste, che veniva voglia d’impiccarsi […] Che posto infernale per una persona viva!”); Pilato, da duemila anni chiuso in un limbo di rocce, è perdonato per la bellezza del libro del Maestro, libero di raggiungere l’Uomo “in ciò che ormai è finito” nel miraggio di una Gerusalemme che sparisce. L’epilogo bellissimo, condotto sul registro comico, indica poi dove son finiti tutti i personaggi, ma è solo un coperchio posticcio del tutto incapace di chiudere il pentolone del romanzo in cui ribolle ogni vita – ma nessuna sorpresa: è noto che il Diavolo con i coperchi non ci sa fare.
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Il bunker è stato sfondato, ma fuori non c’è nessuno: non è un happy end, e “l’inestinguibile aspirazione nostalgica” dell’umano (copyright cardinale Joseph Ratzinger) non smette di tendersi, molto oltre il romanzo. Ogni personaggio trova il proprio scioglimento narrativo, ma ogni tensione rimane – per fortuna? sì – inesaurita, per colpire chi legge a cuore aperto con il dolce peso di un’attesa senza fine, dal nucleo irriducibile, sempre più incandescente.
Da qualche parte, in quella desolazione, brucia ancora qualcosa, qualcuno. E il cuore con lui.
Bulgakov è strapotente e credibile nelle sue invenzioni perché è esattamente come si definiva, uno “scrittore mistico”, nel senso proprio del termine di “colui che vede la realtà in pienezza”. Il suo occhio vuole e cerca senza sosta il fondo della realtà: più che ancorato a essa per scelta ideologica, sembra ininterrottamente risucchiato dal Mistero della sua attrattiva. Sembra continuamente rispondere a uno dei refrain dei fratelli Karamazov: Veniamo al fatto. […] I fatti parlano! Gridano!” La prova è l’incipit: il direttore di una rivista è insoddisfatto del poema antireligioso che ha commissionato, perché è un errore gravissimo creare un Gesù a tinte fosche, tetro, ma del tutto vivo: “l’importante non era la bontà o meno di Gesù, ma il fatto che Gesù in quanto persona non era mai esistito. […] Da quello che hai scritto, sembra che sia nato per davvero!”. Bisogna invece mostrare che “i cristiani, senza inventare nulla di nuovo, crearono il loro Gesù, che in realtà non è mai esistito”. E’ qui che Satana-Woland entra nella storia contraddicendolo con certezza assoluta per il semplice fatto che c’era, è costretto dal suo ruolo a dare testimonianza: “Tengano presente che Gesù è esistito […] Ho assistito personalmente a tutto”. E comincia a raccontare: “E’ tutto molto semplice. Nel primo mattino del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan, avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura da cavaliere, nel porticato tra le due ali del palazzo di Erode il Grande entrò il procuratore della Giudea Ponzio Pilato…”.
***
Questo è il fatto. E il fatto è la cosa più testarda del mondo”. Il fatto è l’innesco perfetto del cuore, e suo carburante divino, che non lascerà mai pace, ma solo fuoco. Dal cuore si può sempre fuggire – e perdersi – ma nessuno può impedire che bruci, perché il cuore è fatto per bruciare. Il cuore brucia e non si spegne: così avvenne la domenica di Pasqua del 1929, così avverrà tutti i giorni fino alla fine del mondo. Così avviene adesso. E’ vero o no?
(Non solum in memoriam sed in intentionem: Lucii Dallae, bononiensis)
di Emmanuel Exitu

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