A Matteo Renzi, ultimamente, vengono rimproverate un mucchio di cose, ma
soprattutto una: la tendenza a glissare sui contenuti, sulle proposte
programmatiche, sulle cose concrete che farebbe se diventasse presidente del
Consiglio.
Cezanne I Giocatori |
Pochi giorni fa, ad esempio, sul «Corriere della Sera» Antonio Polito lo ha
invitato a prendere posizioni precise su nove punti, fra cui alcuni della
massima importanza (ad esempio: come farà a ridurre il debito pubblico di 400
miliardi in soli 3 anni?). Renzi, nella risposta, svicola con un espediente
retorico: «Se rispondo punto per punto mi accuseranno di essere rimasto fermo
al tempo in cui partecipavo ai telequiz».
Anche nel discorso di Verona, in cui annuncia la sua candidatura a premier,
liquida quasi con fastidio l’idea di doversi soffermare sui programmi, definiti
un po’ spregiativamente come «lista della spesa». E rimanda gli appassionati di
contenuti a una «bozza di programma on line», aperta alla discussione. Come
dire: se proprio volete annoiarvi, trovate tutto lì.
Finora questa reticenza di Renzi aveva lasciato perplesso anche me. Poi
però ho deciso di ascoltare tutto il suo discorso (disponibile su YouTube),
dalla prima sillaba all’ultima, e vi devo confessare che mi sono ricreduto.
Perché dentro un discorso ci possono essere passaggi che non incontrano il tuo
gusto, o giri retorici che preferiresti non sentire, però alla fine – se chi
parla sa parlare, e Renzi indubbiamente sa parlare – il senso generale del
messaggio emerge. E il senso del messaggio di Renzi è chiaro, molto chiaro.
E’ chiaro sul piano
politico, innanzitutto. Renzi sta occupando, con un coraggio e un’energia incommensurabilmente
superiore ai suoi predecessori, lo slot che – a suo tempo – hanno provato ad
occupare i rappresentanti delle correnti liberali e riformiste del Pd, i vari
Veltroni, Morando, Ichino, Letta, Chiamparino, Rossi, lo stesso Bersani quando
non giocava da segretario del Pd ma da ministro delle Liberalizzazioni, le
famose «lenzuolate». Con la fondamentale differenza che Renzi ci prova, a
sfidare la maggioranza del suo partito, mentre nessuno degli altri lo aveva
fatto finora (Veltroni perché la segreteria del Pd gli è stata gentilmente
offerta, gli altri per motivi che ignoro). La differenza di metodo è
fondamentale, perché con Renzi la posta in gioco non è di conquistare o
mantenere una piccola voce in capitolo nelle scelte del partito, ma di spostare
il Pd su posizioni di sinistra liberale. Un’impresa meritoria, ma che a mio
parere si scontra con un dato di fatto: finora la base del Pd è sempre stata
più vicina a Vendola che ad Ichino, e lo stesso Bersani è decisamente meno
radicale dei militanti che lo appoggiano.
Van Gogh Campo con i corvi |
Ma non c’è solo il
posizionamento politico, che riprende quasi tutte le idee-chiave della sinistra
liberale in campo economico: meritocrazia, meno tasse sui produttori, spending
review, semplificazioni burocratiche.
La novità fondamentale di Renzi sta, a mio parere, in due mosse che nemmeno
la sinistra liberale ha finora compiuto fino in fondo. Due mosse che non stanno
sul piano dei programmi e delle cose da fare, ma che vengono prima, e forse
spiegano perché, in questa fase di stato nascente, il racconto, la narrazione,
i temi identitari la facciano da padroni, e lascino i programmi un po’ sullo
sfondo.
La prima mossa è
nell’analisi della crisi in cui siamo tuttora immersi. Nel discorso di Verona
sono del tutto assenti gli accenti vittimistici sulla questione giovanile, e
c’è un’idea della crisi come fatto epocale, come «trasformazione definitiva del
nostro modo di vivere», che ci invita anche a cambiare i nostri comportamenti,
con una rivalutazione dei doveri, dell’impegno, del sacrificio. C’è la
gratitudine alle generazioni passate per il benessere che hanno saputo
costruire, ma c’è anche il sospetto che la «prospettiva di benessere» che le nuove
generazioni hanno ereditato sia «forse persino eccessiva». Di qui la pulce
nell’orecchio ai suoi coetanei: «Non vorrei che il troppo avere ci abbia fatto
dimenticare il nostro essere».
Ma c’è anche una seconda
mossa, che rende Renzi indigeribile non tanto alla base del suo partito, ma più
in generale alla cultura di sinistra di matrice sessantottina. Qui, nonostante
tutto, sopravvive ancora l’idea che la politica sia una missione etica, che la
sinistra rappresenti la parte migliore del Paese, che chi vota a destra possa
essere mosso solo dall’interesse o dall’ignoranza. Su questo la rottura del
sindaco di Firenze è totale e senza alcuna incertezza. L’appello di Renzi agli
elettori del Pdl, prima che una mossa politica, è la conseguenza logica della sua
analisi della società italiana e del suo atteggiamento verso gli elettori. E’ perché non pensa che gli «altri», i
cittadini di destra, siano «la parte peggiore del Paese» che Renzi può
concludere il suo discorso descrivendo la politica con parole come «leggerezza»,
«sorriso sulle labbra», «Voglia di non parlare male degli altri». Per lui è naturale, perché vede
l’elettore di destra come una persona a tutti gli effetti, e non come un’entità
malsana, da neutralizzare, combattere, o tutt’al più rieducare.
E il fatto che, sul versante di Bersani, questo passaggio sia letto in
chiave strettamente politica, come un’incapacità di Renzi di rompere senza
ambiguità con il berlusconismo, mostra solo quanto lunga sia la strada che la
sinistra deve compiere per superare il complesso di superiorità che ancora
l’affligge. Per il militante di sinistra medio è semplicemente inconcepibile
che una persona che ha votato per Berlusconi possa essere una persona per bene.
Per questo non capisce come se ne possa chiedere il voto. Per questo Renzi gli
risulta letteralmente incomprensibile. E per questo, temo, la strada di Renzi
dentro il suo partito sarà molto in salita.
Nessun commento:
Posta un commento