Non barate, l’accanimento terapeutico non è
mai piaciuto alla chiesa.
SFRUTTATO FINO ALLA FINE DAI NEMICI DELLA CHIESA
. Le ultime ore terrene del cardinale
Carlo Maria Martini sono state accompagnate da molti commenti sulla sua scelta di non
sottostare ad “alcun accanimento terapeutico”. In concreto, il cardinale,
malato di morbo di Parkinson da diciassette anni e arrivato a una fase della
patologia tale da impedirgli la deglutizione, ha deciso di non farsi applicare
un sondino per la nutrizione artificiale. Lo stesso meccanismo attraverso il
quale è stata nutrita e dissetata per diciassette anni Eluana Englaro (la quale
però non aveva nessuna patologia terminale. A chiedere e a ottenere il distacco
del sondino, dopo una battaglia giudiziaria durata anni, è stato suo padre). E
anche nel caso, evocato ancor più a sproposito, di Piergiorgio Welby, a essere
contestato non era il suo diritto di rifiutare il respiratore, ma la sua
richiesta di ottenere una sedazione letale. Nulla di tutto questo, dovrebbe
essere evidente, riguarda la morte del cardinale Martini.
Eppure, va riconosciuto che non poteva che andare
così, nel caso dell’uomo di chiesa che si era distinto, soprattutto negli ultimi
anni, per certe sue aperture al limite dell’eterodosso (controcorrente e
liberali, per gli estimatori; corrive con lo spirito del tempo, per i critici)
sui temi sensibili della vita, della morte, della morale sessuale. Nel novembre
del 2008, in un famoso articolo intitolato “La vera vita”, pubblicato dalla
rivista del San Raffaele, Kos, e rilanciato dal Corriere della Sera, il
cardinale sosteneva che “non è facile stabilire quando cominci esattamente una
vita umana, soprattutto quando un essere possa essere chiamato ‘persona’ o
‘individuo’ e sia soggetto di diritti e di doveri”, e aggiungeva che “quello
del puro ‘sopravvivere’ o ‘non morire per morte violenta’ non è certo il
traguardo della vita umana: essa tende a quella ‘vitalità’ che è piena
espressione della potenza del corpo e della mente”; inoltre, sempre nello
stesso scritto, il cardinale si chiedeva: “Esistono situazioni in cui un tale
vivere diventi così insopportabile e apparentemente immodificabile che non sia
lecito portare un giudizio morale su chi vi mette fine? Certamente sarà molto
difficile affermarlo con il linguaggio delle leggi come dei princìpi astratti:
essi non riescono a cogliere la complessità degli elementi etici, valoriali e
affettivi che entrano in ogni singolo caso particolare, ognuno in qualche modo
diverso da ogni altro”. Prima ancora, nel 2006, in un dialogo sull’Espresso con
il chirurgo e politico Ignazio Marino, Martini aveva anche affermato, a
proposito di eutanasia, che “non si può mai approvare”, ma che non si sentiva
di condannare “le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una
persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo”.
E allora non potevano che essere brandite da chi appiattisce il
rifiuto dell’accanimento terapeutico sull’eutanasia, il sacrosanto e pienamente
cattolico e legittimo rifiuto del vecchio cardinale morente di non sottoporsi a
interventi da lui ritenuti, nella sua condizione, inutili e invasivi.
“Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è
lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che
procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita poiché vi
è grande differenza etica tra ‘procurare la morte e ‘permettere la morte’: il
primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale
compimento di essa”: è scritto nel documento della Pontificia accademia per la
vita sul “Rispetto della dignità del morente” (2000) ed è la migliore
descrizione della scelta del cardinale Martini.
da ilfoglio.it
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