Il prete di cielle che ama Francesco e tenta di
spiegarcelo
Storia straordinaria di un cappellano ottantenne delle carceri che è anche
pastore e filosofo, e della sua passione inesauribile per la società, per i
deboli, per un cristianesimo forte: don Ciccio Ventorino
“Ho letto ai
miei detenuti le parole che il Papa aveva loro inviato attraverso i cappellani
delle carceri: ‘Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna;
Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro; il suo amore paterno
e materno arriva dappertutto’… Ho visto prima i loro occhi segnarsi di lacrime
e alla fine sono stato coinvolto nel loro applauso caloroso e grato. Quegli
uomini in quel momento hanno ritrovato il senso vero della loro dignità, quella
che nessuna colpa potrà mai cancellare. Ecco l’ospedale da campo di cui l’uomo
ha bisogno, nel quale sentire curate le proprie piaghe da una presenza
amorevole quasi fisica, da quella ‘fisicità’ che Papa Francesco concede
attraverso la sua persona a tutti”.
Da un anno don
Francesco Ventorino è cappellano del carcere di Piazza Lanza a Catania. E lui
che nella sua lunga vita di sacerdote ha fatto di tutto, il prete di periferia
e il professore, l’autore di saggi di teologia e l’iniziatore del movimento di
Comunione e liberazione in Sicilia e di cento altri inizi, quando parla della
sua esperienza in carcere l’impressione che ti investe è quella di un inizio
nuovo, di nuove vite. L’ultima avventura, o l’ultimo avvenimento di Grazia di
questa sua missione, direbbe lui, l’ha raccontato lui stesso qualche giorno fa
sull’Osservatore Romano, in prima pagina. E’ il matrimonio celebrato dietro le
sbarre di un detenuto che ha voluto “dare alla sua donna la dignità di sposa”,
e ai suoi figli “la coscienza di appartenere a una vera famiglia”.
E’ l’anno del
Sinodo della famiglia, la comunione ai divorziati e le famiglie patchwork sono
problemi concreti e di soluzione teorica non semplice per la Chiesa. Don
Ciccio, così lo chiamano tutti, racconta che basta andare in un luogo come il
carcere, per certi versi specchio fedele del mondo che sta fuori, per
accorgersi che la famiglia, il matrimonio come indissolubile sacramento e tante
altre cose – di quelle che in teoria pertengono alla vita “normale” – per la
maggior parte delle persone non sono più niente. Semplicemente non ci sono più.
E allora, don Francesco come Papa Francesco si domanda: da dove si ricomincia?
Dalla predicazione della morale? Ascoltare don Ciccio vale più di tanti
ragionamenti.
A un anno dall’elezione, il meno che si possa dire è che Papa Francesco sta riavvicinando alla Chiesa moltissime persone, attratte dalla sua grande umanità e dalla sua fede. Sta trasformando il volto della Chiesa, per alcuni forse troppo. E’ davvero “troppo”?
A un anno dall’elezione, il meno che si possa dire è che Papa Francesco sta riavvicinando alla Chiesa moltissime persone, attratte dalla sua grande umanità e dalla sua fede. Sta trasformando il volto della Chiesa, per alcuni forse troppo. E’ davvero “troppo”?
“Credo che
l’intenzione che ha mosso il nuovo Papa fin dall’inizio del suo ministero
petrino, dichiarata poi nell’intervista rilasciata al direttore della Civiltà
Cattolica, padre Antonio Spadaro, è stata quella di mostrare una Chiesa capace
di ‘riscaldare il cuore’ della gente con la sua misericordia. Nella
misericordia splende, infatti, in modo particolare l’amore di Dio: è quella
bellezza che commuove e convince, che ha la capacità di attrarci attraverso il
visibile all’invisibile. E’ il misterioso scopo e metodo dell’Incarnazione. La
bellezza – denunciava Von Balthasar – ‘non è più amata e custodita nemmeno
dalla religione. Se essa viene strappata come una maschera al suo volto, mette
allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli
uomini’. Raramente mi era capitato nella mia lunga esperienza sacerdotale di
sentire penitenti o carcerati citare il Papa. Quest’uomo è riuscito ad
avvicinarsi alla loro vita e alla loro umanità in modo talmente significativo e
determinante che, per esprimere se stessi, essi usano le sue parole nelle quali
si sentono perfettamente compresi”. E tutto questo, prosegue Ventorino, “a
causa anche di una efficacia particolare che c’è nel suo modo di comunicare:
parole chiave che sintetizzano dottrina e conseguenze etiche, immagini che si
imprimono nella mente e aiutano la memoria e soprattutto gesti, tanti gesti.
Non credo che questo vada a scapito della integrità e della radicalità della
proposta cristiana, piuttosto ne evidenzia l’essenziale. Nell’intervista citata
il Papa disse testualmente: ‘La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in
piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo
annuncio: Gesù Cristo ti ha salvato!’”.
Tenere le parole di don Ciccio staccate dalla sua storia, dal suo sguardo, dall’impeto dei suoi 82 anni, non è possibile. Riflessione e azione, testimonianza e vita sacerdotale (“il ministero della bellezza”, secondo il titolo di un suo libro dedicato proprio all’essere sacerdoti) sono state per lui un tutt’uno unico e costante. Non sorprende che, del metodo di Bergoglio, avverta come una stessa pelle quel comunicare attraverso parole e gesti un Fatto, una bellezza. Del resto è così che è iniziata l’avventura di questo giovane prete catanese, ordinato nel 1954 e che aveva studiato filosofia alla Gregoriana di Roma. Tornato a Catania, nel 1959 gli era stato affidato l’incarico di assistente della Fuci e l’insegnamento della religione in un liceo classico. La faccenda iniziò lì, da un’impasse nella capacità di comunicare la fede ai giovani, come ha raccontato lui stesso molti anni dopo, nella “Vita di don Giussani” scritta da Alberto Savorana. “Se da un canto ero convinto della verità del cristianesimo, d’altro canto non riuscivo a renderlo interessante per la vita dei miei ragazzi… Non sapevo neanche a chi porre queste questioni in un contesto ecclesiale che, per lo più, viveva soddisfatto della massiccia presenza dei cristiani nella vita del paese”. Poi un giorno tre suoi alunni gli chiedono un salone per un incontro con una ragazza venuta da Milano e che, a loro dire, “faceva religione meglio di me”.
Tenere le parole di don Ciccio staccate dalla sua storia, dal suo sguardo, dall’impeto dei suoi 82 anni, non è possibile. Riflessione e azione, testimonianza e vita sacerdotale (“il ministero della bellezza”, secondo il titolo di un suo libro dedicato proprio all’essere sacerdoti) sono state per lui un tutt’uno unico e costante. Non sorprende che, del metodo di Bergoglio, avverta come una stessa pelle quel comunicare attraverso parole e gesti un Fatto, una bellezza. Del resto è così che è iniziata l’avventura di questo giovane prete catanese, ordinato nel 1954 e che aveva studiato filosofia alla Gregoriana di Roma. Tornato a Catania, nel 1959 gli era stato affidato l’incarico di assistente della Fuci e l’insegnamento della religione in un liceo classico. La faccenda iniziò lì, da un’impasse nella capacità di comunicare la fede ai giovani, come ha raccontato lui stesso molti anni dopo, nella “Vita di don Giussani” scritta da Alberto Savorana. “Se da un canto ero convinto della verità del cristianesimo, d’altro canto non riuscivo a renderlo interessante per la vita dei miei ragazzi… Non sapevo neanche a chi porre queste questioni in un contesto ecclesiale che, per lo più, viveva soddisfatto della massiccia presenza dei cristiani nella vita del paese”. Poi un giorno tre suoi alunni gli chiedono un salone per un incontro con una ragazza venuta da Milano e che, a loro dire, “faceva religione meglio di me”.
Racconta don
Ciccio: “Una volta fui preso dalla curiosità e andai a vedere. Trovai la sala
piena di giovani che facevano quello che appresi essere il raggio con questa
ragazza che presiedeva, dava la parola a ciascuno e alla fine tentava una
sintesi. Era una ragazzina bionda e slanciata, di soli quindici anni”.
Ascoltandola, don Ventorino si rende conto di aver trovato quel che aveva
cercato invano: un metodo di vita cristiana. “Dopo l’incontro le chiesi da chi
avesse appreso le cose dette e lei cominciò a parlarmi di un certo don
Giussani, che aveva avuto come insegnante di religione solo per un anno, a
Milano”. Quell’estate del 1960 andò fino sulle Dolomiti, al Passo di
Costalunga, per incontrarlo: “Ricordo che ho partecipato solo una giornata, ma
essa mi confermò nella intuizione che avevo avuta: quell’uomo aveva il segreto
che io cercavo. A ciascuno veniva proposto di rifare l’esperienza dei primi
discepoli”. Se ne andò con le bozze di un libro, rievoca Savorana, “Tracce di
esperienza cristiana”, che sarebbe stato stampato di lì a poco: “Lo sguardo di
don Ventorino si fissa su questa frase: ‘Cristo era l’unico nelle cui parole
tutta la loro esperienza umana si sentiva compresa e i loro bisogni presi sul
serio, e portati alla luce là dove erano inconsapevoli e confusi. Le loro
esperienze, i loro bisogni, le loro esigenze sono loro stessi, quegli uomini
lì, la loro umanità stessa’”.
Da allora la
storia di don Francesco Ventorino è stata tutt’uno con la storia di Cl, che ha
contribuito a far nascere e diffondere in Sicilia e nel sud d’Italia. Quella
idea forte che il cristianesimo non si comunica, in primis, con le idee ma con
l’incontro di un’esperienza viva, credibile, (“la premessa da cui era partito
don Giussani era la constatazione che il cristianesimo non diceva più niente a
nessuno”) gli è rimasta appiccicata come la pelle. Con una passione per le
periferie esistenziali che oggi, in cattivo giornalese, si direbbe profetica.
Come quando, nel 1972, si trasferì al Villaggio Sant’Agata, un quartiere nuovo
alla periferia di Catania. “Era la famosa ‘scelta per i poveri’, che però noi
volevamo vivere secondo una logica ecclesiale, come segno della presenza della
Chiesa nel quartiere”, racconterà molti anni dopo. “Io, il parroco e don Pino
Ruggieri costruimmo a nostre spese un prefabbricato, che comprendeva chiesa e
abitazione. Una decina di giovani famiglie vennero ad abitare lì. Fino al 1975
fu un’esperienza bellissima, incontrammo tanta gente”.
Torniamo all’oggi. Eugenetica, ideologia gender, cultura gay, attacco alla famiglia sono sfide evidenti a tutti. Secondo molti, anche nella Chiesa, la risposta deve ripartire dal ribadire la dottrina tradizionale, sic et simpliciter, e da una più dura dialettica amico-nemico, anche di tipo politico-religioso. E’ giusto o no? E soprattutto, può essere sufficiente?
Torniamo all’oggi. Eugenetica, ideologia gender, cultura gay, attacco alla famiglia sono sfide evidenti a tutti. Secondo molti, anche nella Chiesa, la risposta deve ripartire dal ribadire la dottrina tradizionale, sic et simpliciter, e da una più dura dialettica amico-nemico, anche di tipo politico-religioso. E’ giusto o no? E soprattutto, può essere sufficiente?
“A parte il
fatto che non si può accusare Papa Francesco di aver taciuto sul diritto alla
vita da parte di tutti, basterebbe leggere attentamente il discorso tenuto ai
medici cattolici il 20 settembre dell’anno scorso, dove si attacca frontalmente
quella che viene definita la ‘cultura dello scarto’, ‘che oggi schiavizza i
cuori e le intelligenze di tanti’, e che ha ‘un altissimo costo’, poiché
‘richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente
più deboli’. Questo tema è stato affrontato anche nel messaggio che ha inviato
alle chiese di Gran Bretagna e Irlanda per la Giornata per la Vita 2013 dove,
nel ricordare l’insegnamento di sant’Ireneo che la gloria di Dio è visibile
nell’essere umano vivente, invita tutti ‘a lasciare che la luce di quella
gloria splenda in modo tale che tutti arrivino a riconoscere l’inestimabile
valore di ogni vita umana’. Anche i più deboli e i più vulnerabili, i malati,
gli anziani, i non nati e i poveri, – aggiunge – ‘sono capolavori della
creazione di Dio, fatti a sua immagine, destinati a vivere per sempre, e
meritevoli della massima riverenza e rispetto’”.
Di queste
affermazioni, chiarisce Ventorino, “se ne potrebbero citare tante altre che
riguardano anche la verità naturale della famiglia e della sessualità umana. Ma
credo che qui bisogna intendersi sui modi e le condizioni perché queste
riaffermazioni dottrinali siano efficaci, cioè risultino comprensibili e accettabili.
Infatti, se è vero che certi valori cristiani per la loro ragionevolezza
sarebbero riconoscibili anche da una intelligenza non credente, purché sia
lealmente aperta a quelle evidenze originarie che la propria coscienza può
suggerire a ogni uomo, è altrettanto vero che essi, pur avendo una loro
intrinseca ‘naturalezza’, sono divenuti visibili allo sguardo dell’uomo così
come storicamente è fatto e accettabili dalla sua volontà solo nel contesto
culturale aperto dal cristianesimo e rivitalizzato continuamente dalla presenza
della Chiesa. Quando questa viene meno o si affievolisce, come sta accadendo
soprattutto nella nostra vecchia Europa, si esaurisce quell’alimento essenziale
del quale i valori umanistici si sono nutriti. Papa Francesco dimostra di aver
compreso profondamente questa verità e questo nesso essenziale tra fede e
ragione e, a partire da tale presupposto, imposta le sue priorità nella
evangelizzazione. ‘Non possiamo insistere – diceva il Papa ad Antonio Spadaro –
solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi
contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose,
e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un
contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio
della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione’. E ancora: ‘Gli
insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una
pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di
una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo
missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che
appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di
Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche
l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di
perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve
essere più semplice, profonda, irradiante. E’ da questa proposta che poi
vengono le conseguenze morali’”.
Don Francesco non è solo un uomo di pastorale. Ha scritto libri di filosofia e di teologia morale (“l’Amicizia coniugale”), ha insegnato ontologia ed etica. Quando gli chiediamo perché, a suo parere, anche tra cattolici, quelle parole di Bergoglio destano perplessità, sono lette come un cedimento al mondo, parte proprio dalle cime della teologia.
Don Francesco non è solo un uomo di pastorale. Ha scritto libri di filosofia e di teologia morale (“l’Amicizia coniugale”), ha insegnato ontologia ed etica. Quando gli chiediamo perché, a suo parere, anche tra cattolici, quelle parole di Bergoglio destano perplessità, sono lette come un cedimento al mondo, parte proprio dalle cime della teologia.
“Secondo me
la questione è teologica e riguarda la vera novità portata nel mondo dal
cristianesimo. San Tommaso d’Aquino insegnava che ‘l’elemento principale della
nuova legge è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che
agisce per mezzo dell’amore’. Il cristianesimo comincia, quindi, come grazia di
un incontro attraverso il quale lo Spirito Santo ci persuade della verità di
Cristo e quindi ci ammette al dono della fede. Questa poi cambia il mondo
attraverso l’amore da noi ricevuto ed espresso nel nostro agire. La moralità
cristiana – diceva un prete che ha formato diverse generazioni alla fede, don
Luigi Giussani – è innanzitutto un’attrattiva, un’attrattiva da assecondare. E’
importante, dunque, – afferma Papa Francesco nella sua Evangelii Gaudium –
trarre le conseguenze pastorali di questo insegnamento. ‘Quando la predicazione
è fedele al Vangelo, si manifesta con chiarezza la centralità di alcune verità
e risulta chiaro che la predicazione morale cristiana non è un’etica stoica, è
più che un’ascesi, non è una mera filosofia pratica né un catalogo di peccati
ed errori. Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e
che ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da sé stessi per cercare il
bene di tutti. Quest’invito non va oscurato in nessuna circostanza! Tutte le
virtù sono al servizio di questa risposta di amore. Se tale invito non
risplende con forza e attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il
rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior
pericolo’ (n. 39). Le perplessità dei cattolici di fronte a questo proposito
dichiarato nascono dal temere che questo modo di procedere porti a un
cedimento, nel senso di una relativizzazione di tutto ciò che non è essenziale,
o che nel frattempo si affermino modi di pensare e di fare irreversibili. Ma
chi di noi sarebbe convinto da una precettistica etica (anche se alta e nobile)
scissa dall’amore a Cristo come la sorgente del significato e della speranza
della vita?”.
Torna in
mente, per chi lo conosce, un episodio di quasi vent’anni fa. Lo si ritrova
anche questo nella biografia di Savorana. Quando nel 1995, in un dialogo con
alcuni responsabili di Cl, don Ciccio parlò della “sorpresa di trovarmi di
fronte a un uomo che guarda la realtà, che ci conduce a poco a poco a guardare
le cose, a una profondità alla quale da soli non si potrebbe arrivare”. E
Giussani, di rimando: “Sguardo e non criterio. Lo sguardo è una vita che vive,
che tende, desidera, stima, in qualche modo ama. Criterio è una pura
applicazione mentale, di tecnica mentale, in cui il maestro supremo non è stato
Gesù Cristo, ma sono stati Kant e Hegel”.