martedì 25 febbraio 2014

RIPARTIAMO DAI MAESTRI

 Che cosa abbiamo imparato da Don Giussani, a proposito di presenza e missione. 

PUR SE POSER IL S'OPPOSE

Di fronte a varie riletture del compito dei cristiani nel mondo, e di alcune iniziative che hanno coinvolto laici e cattolici, ecco il grande suggerimento che ci viene dal magistero di quel grande educatore che è stato don Giussani.
Allora forse questi giudizi vanno corretti
·        "Ecco perché non firmo l'appello di Ferrara al Papa
·         "L'amore ha vita breve
·         "Quei finti "laici" che chiedono al Papa di fare politica



Così scrive don Giussani nel testo «Ciò che abbiamo di più caro»:

a) La nostra vita, impostata secondo la sua essenzialità, secondo la sua verità, ha una nota (nel senso delle note della Chiesa) caratteristica, inconfondibile e insostituibile, che è la letizia: un’amicizia, la capacità di un’amicizia lieta (non lieta perché si fanno bagordi per tre ore o per sei). È questa letizia - che caratterizza una trama di rapporti, che caratterizza la persona dentro la trama di rapporti vissuta come sequela - che porta Cristo al mondo. Il mondo è colpito dalla letizia, perché non ne è capace. (Come il buon Manzoni parlava della «Pace, che il mondo irride, / Ma che rapir non può».) Comunque, guardate che «pace» vuole dire letizia. Ognuno di voi lo può rilevare da se stesso: è solo se l’esperienza della vita cristiana gli dà letizia che verifica la sua consistenza. La verità sta nella letizia. Badate che questa letizia è una connotazione che può stare mentre uno muore, può stare col più grande dolore, perché non è qualcosa che raggrinza i muscoli, gli zigomi, non c’entra con i muscoli della faccia; c’entra con la faccia, questo sì, c’entra con gli occhi.
b) In secondo luogo, la caratteristica della vita nuova nella vita di comunità è la missionarietà, come è stato detto così perfettamente dal professore di filosofia stamattina: «Epifania di una identità». La missione non è fare e agitarsi, è l’essere, è il manifestarsi e il comunicarsi, il contagiarsi, il contagio, che nasce dalla propria identità: l’epifania dell’identità.
c) In terzo luogo, corollario della missionarietà è una personalità che sfida, capace di sfida, come diceva il professor Lazzati alla prima tre giorni (eravamo in quindici, erano quindici e io prete), su a Gressoney Saint-Jean: Pour se poser il s’oppose per porsi, per affermarsi, si oppone. La sfida! Tra noi è una sfida continua, una bella sfida! Comunque, questa sfida è la caratteristica propria dell’amore, è la caratteristica bellica dell’amore. Una personalità che sfida è una personalità che non ha paura, che ha forza, che è consapevole, che ha strategia, che guarda tutte le cose con uno sguardo unitario (perché se tu parti lancia in resta contro l’avversario e hai dietro il nemico che ti infila alle spalle...).

d) Quarto. Ripeto le vostre parole, ma sono proprio giuste, dovete avere la pazienza di capirle come ho cercato di capirle io. La quarta caratteristica (quindi la terza è la personalità come sfida, perciò come animosità, come vitalità, come “bordata”, come capace di rapporto, che getta ponti con qualsiasi cosa) è il passaggio dalla capacità relativamente facile di definire tutto, vale a dire il passaggio dal discorso (tutti sono capaci di discorso, e poi ripetere continuamente il discorso «è noioso»; è soltanto chi ha fatto questo passaggio che sto per dire che, quanto più ripete il discorso, tanto più se ne innamora; chi invece non ha fatto questo passaggio, ripetendo il discorso si annoia, il discorso ripetuto lo annoia) alla «lieta inquietudine» della domanda. Dove «inquietudine» vuole dire che è una letizia che non dorme, non è quieta; è inquieta nel senso di vibrante, mossa, tesa. Il passaggio dal discorso alla lieta inquietudine della domanda o, come ha detto un altro, alla «capacità di chiedere». Il passaggio dal discorso «alla capacità di chiedere a ciò che c’è che sia risposta». Chiedere a Ciò - con la C maiuscola - che c’è che diventi risposta a te, cioè a me.
La quarta caratteristica, allora, è la domanda, quella domanda che è «fare spazio al Mistero perché si manifesti». Per questo il minimo della domanda è l’Innominato del Manzoni: «Dio, se ci sei, rivelati a me!». È una domanda di chi ancora non crede, ma è una disponibilità. La domanda è fare spazio al Mistero perché si manifesti. E, infatti, ve l’ho già detto, alla fine della storia dell’umanità la Bibbia termina con questa domanda: «Vieni, Signore Gesù», «Vieni, Signore». La domanda fa spazio al Mistero perché si manifesti. Ma si è manifestato in tanti millenni! No, no, no, è il Mistero, perciò insondabile e incommensurabile.
Perciò all’imperatore che non sa che farsene della grande Presenza noi opponiamo - è questa la vera opposizione, per cui la prepotenza della mentalità comune non ci disfa o, come abbiamo detto, non ci devasta - la domanda della grande Presenza. E la domanda l’incontro con il Mistero presente; l’inizio dell’incontro è la domanda, perché la domanda è già rompere gli argini. A differenza del desiderio, che può rimanere velleità, la domanda è un gesto. E così rileggiamo ancora una volta la frase in un libro su Tarkovskij: «Da tempo l’uomo occidentale ha bruciato la bisaccia e il bastone del viandante, con la sua commovente attitudine alla domanda». Il potere ha devastato l’uomo occidentale, lo ha bruciato, distruggendo la bisaccia e il bastone e soprattutto distruggendone la via, l’impeto e l’energia della via: ha distrutto la commovente attitudine alla domanda. Da qui noi ricominciamo. Altrimenti la dimora dell’uomo non diventa più l’orizzonte, siamo bloccati nel nascondiglio, dove non si incontra veramente nessuno - sei solo -, e dove perciò l’uomo incomincia a dubitare della sua stessa esistenza (impressionante è in questo senso la testimonianza di Sartre e di Moravia).

Da «Ciò che abbiamo di più caro»



Don Gabriele Mangiarotti

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