Corti: «Il fatto
che i miei libri possano aver fatto del bene è il patrimonio che potrà essermi
utile nell’aldilà»
Febbraio
6, 2014
Intervista all’autore del Cavallo rosso, scomparso martedì. La scrittura,
la fede, la guerra. «Considerando la mia vita, osservo che la visione di
partenza, quella cristiana, era giusta»
Per gentile concessione dell’autrice e di Studi cattolici, pubblichiamo un’intervista di Paola Scaglione allo scrittore Eugenio Corti,
scomparso il 4 febbraio 2014. Intitolata originariamente «Lo scrivere, il
tempo & la misericordia» è apparsa sulla rivista 521/22,
luglio/agosto 2004
Lo sguardo
azzurro trapassa il verdeggiare del giardino nell’estate briantea e si affaccia
lontano. Si posa oltre i monti che fanno da sfondo alla finestra del suo
studio: «Per la mia sorte faccio affidamento soprattutto sulla misericordia di
Dio: non vedo altra possibilità di salvezza».
Eugenio Corti
è un impasto di concretezza lombarda e fede salda come roccia. Il suo bilancio
di scrittore è lusinghiero: I più non ritornano,
diario della ritirata di Russia pubblicato nel 1947, ha raggiunto la sedicesima
edizione ed è stato tradotto in inglese e in francese, così come il romanzo
sulla guerra di liberazione in Italia, Gli ultimi soldati del re.
C’è poi la potenza di evocazione drammaturgica della tragediaProcesso e morte di Stalin, l’ampia saggistica sul comunismo
e sul mondo cattolico, la forza narrativa dei racconti per immagini, La terra dell’indio e L’isola del paradiso. E c’èIl cavallo rosso, il
romanzo maggiore, giunto in Italia alla diciottesima edizione, a poche
settimane dalla stampa della sesta traduzione, quella in giapponese.
Ma, sopra ogni
altro esito, c’è l’affetto di quanti, dopo aver letto le sue opere, gli
scrivono, chiedono di incontrarlo per attingere al tesoro della sua sapienza di
vita indicazioni sull’esistenza e sulla storia. Lui, 83 anni di pacata
eleganza, sorride e scuote il capo: la rassegna delle sue opere non fa che
radicarlo nella strada di sempre. In una prospettiva realistica confronta il
pur rilevante successo dei suoi libri e i dati di vendita di quelli sostenuti
dall’industria editoriale: «Certo, ci sono tanti che conoscono Il cavallo rosso e sono affezionati al romanzo; a
questi io sono enormemente grato, però c’è molta gente in Italia che ne ignora
l’esistenza… e ciò serve a ridimensionarmi».
È comunque un
altro traguardo a determinare la sua prospettiva: «Io sono vicino alla
conclusione della carriera non solo come scrittore, ma anche come uomo; il
pensiero del successo non mi tocca, non può toccarmi: che cosa mi porto dietro
nell’aldilà? Se mai è più importante, da questo punto di vista, il fatto che
molti testimoniano che i miei libri possono fare bel bene, che fanno loro del
bene: questo è il patrimonio che potrà essere utile anche nell’aldilà». Ma
soprattutto – ed è presenza ricorrente nelle parole di Corti – c’è la
misericordia, attesa con incrollabile certezza.
La serenità è
il tratto dominante in quest’uomo dallo spirito combattivo ed energico,
mitigato appena dalla saggezza degli anni che passano, da sempre orientati al
tempo che resta.
Nel nostro
tempo, comunque, rimane la risposta positiva dei lettori alle opere di Corti,
al Cavallo rosso, in particolare, che il cardinale di
Lione, Philippe Barbarin, in una recente intervista al settimanale francese Famille Chrétienne, ha definito «un affresco
impressionante», accostandolo alle «grandi epopee» della letteratura come I miserabili,Guerra e pace, I fratelli Karamazov, Il rosso e il nero.
Da più parti Il cavallo rosso è stato indicato come il maggior
romanzo del ventesimo secolo e Richard Brown, editor della oxfordiana Family
Publications, ha dichiarato: «Sono convinto che Il
cavallo rosso verrà considerato un giorno come un’opera
spartiacque per la comprensione del ventesimo secolo e come uno dei più grandi
lavori di letteratura cristiana».
È l’aspetto
che preme allo scrittore: «Quello che a me più interessa è che il romanzo si
ponga come una presenza significativa nella cultura, con la funzione di
mostrare quale sia stata la realtà del XX secolo».
Dunque il
valore del romanzo si collocherebbe sul piano storico prima che su quello
letterario? Corti ricorda, certo, un giudizio diffuso tra i suoi lettori e che
risuona in tutte le lingue in cui Il cavallo rosso è
stato tradotto: «È il più bel libro che abbia mai letto!». E precisa: «Stando
ai lettori, ciò che definisce il valore del romanzo è la bellezza della pagina.
La prima dote, dunque, è la bellezza; in parallelo – in contemporanea – c’è la
verità. È fondamentale che il libro sia bello, altrimenti i lettori non
procedono. Poi il fatto che sia un romanzo storico li aiuta a inquadrare
la verità sulla storia».
Il
compito della vita
Ripercorrendo il proprio percorso letterario, Corti considera: «Quando un autore si accinge a scrivere un libro, spera che questo raggiunga la massima perfezione Anch’io lo avevo sperato e, quando sono arrivato a licenziare Il cavallo rosso, ho avuto la percezione di essere giunto a quel traguardo. Lo stesso è accaduto per I più non ritornano e per Processo e morte di Stalin. Una sensazione diversa, non così totale, l’ho avuta perGli ultimi soldati del re, considerando la perfezione letteraria di certe pagine».
Proprio nel
romanzo sulla guerra di liberazione in Italia si trova il passo che lo
scrittore ama maggiormente e che riconduce tutta la sua opera nella prospettiva
del tempo che resta: «Tra tutte le mie pagine quella che mi piace di più è
quella degli Ultimi soldati del re che
riporta la riflessione sulle farfalle. Mi pare che lì si trovi il messaggio più
importante che posso lasciare: dalla bellezza e dalla felicità inconscia della
farfalla si risale alla bellezza e alla felicità che c’è in Dio, perché anche
il modo in cui è fatta una bella farfalla è sufficiente a dimostrare
l’esistenza di Dio».
È qui il senso
di tutto il suo lavoro, l’essenziale che rende completa l’esistenza. Già, la
pienezza del vivere: che cosa ha a che fare questa con il bisogno di scrivere?
È per potersi esprimere, perché la vita sia realizzata? Eugenio Corti ribadisce
con decisione che no, non si scrive per dire di sé: «A ogni uomo è assegnato da
parte del Creatore un compito: fondamentale per ciascuno è individuare il
compito al quale è chiamato. Io sono stato messo al mondo per fare lo scrittore
e devo fare lo scrittore, perché il compito che mi è stato assegnato è questo.
La pienezza di me è la realizzazione del mio compito. Certo, c’è una
soddisfazione fondamentale quando si vede che il lavoro rende e che non si sta
sprecando il tempo».
Lo scorrere
dei giorni è preoccupazione costante. E se Corti non scrive per il successo che
dà il mondo, pure l’affetto di tanti lettori che cercano la sua amicizia si
rivela un sostegno prezioso: «C’è la sensazione di non avere buttata via la
vita e che quindi vale la pena ancora di impiegare lavorando questo pezzetto di
vita che rimane. Spero che Dio mi dia il tempo per terminare ciò che ho in
mente di scrivere, anche se, con l’avanzare degli anni, non ho più le risorse
per un libro intero. Ora per me è fondamentale finire il mio terzo racconto per
immagini, quello riguardante la vita di Catone maggiore». Il timore di sprecare
il tempo lascia spazio all’entusiasmo per il progetto: «Si sta rivelando
veramente buono. Se Dio continuerà a tenermi la mano sulla testa, per la fine
di quest’anno dovrebbe essere pubblicato, anche se adesso impiego il quadruplo
del tempo rispetto a prima e riesco a lavorare molto meno. Questo è il terzo
anno che lavoro al Catone, in un’altra
epoca sarebbero bastati 6/8 mesi…».
Stirpe di
imprenditori lombardi, Corti calcola i tempi di produzione, ma il rammarico per
il tempo che vola non è mai autocommiserazione né abbattimento: ciò che conta è
adempiere al compito dell’esistenza. A chi gli chiede – con imperdonabile
ingenuità – se in oltre sessanta anni di lavoro abbia mai pensato di smettere
di scrivere, non lascia neppure lo spazio per concludere la domanda e risponde
deciso di no: «Mai! Anzi: anche adesso, che ho la sensazione che il Catone sarà il mio ultimo libro, soprattutto per i
vuoti di memoria a cui purtroppo vado incontro, ho in mente dei racconti sul
medioevo. Ce ne sono almeno due o tre che ritengo assolutamente indispensabili;
uno, in particolare, mi sembra importantissimo, perché dovrebbe essere la
conclusione di tutti i racconti».
Il fervore con
cui lo scrittore progetta giorni operosi («Perché finché si è al mondo bisogna
assolvere al proprio compito…») si fonde con un filo di autoironia: «E poi ho
la convinzione che Dio mi lascerà qui finché non ho concluso il mio lavoro,
così come durante la ritirata di Russia mi ero convinto di essere invulnerabile
perché ero destinato a scrivere, a raccontare ciò che avevo visto». Scherza un
po’, Corti, su questa totale fiducia, ma lo fa a beneficio dell’interlocutore.
In fondo è persuaso della predilezione di Dio, che lo ha preservato durante la
guerra: «Non sono mai stato ferito, anche se in almeno un paio di occasioni ero
praticamente spacciato. Certo, tutti noi siamo prediletti da Dio e prediletti
dobbiamo sentirci». È comunque convinto, così come lo era nella sacca sul
fronte russo, che non dovrà lasciare a mezzo l’opera intrapresa. Perché per lui
l’eterna questione del legame tra vivere e scrivere non esiste: non si dà
scrittura – scrittura autentica, si intende – separata dalla vita.
Per questo
anche l’incontro con i lettori non è un aspetto dell’esistenza pubblica, ma è
la vita stessa. Dagli incontri con chi ha letto le sue opere, dalle migliaia di
lettere che gli giungono da ogni parte del mondo Corti ha ricavato una
convinzione: «In quasi ogni lettera c’è una piccola scoperta che non c’è nelle
altre. Tutte le lettere sono diverse tra loro, tutte! Questo mi ha portato a
una considerazione che mi sembra rilevante: ogni essere umano è indispensabile.
Ci si spiega perché Domineddio abbia creato tanti miliardi e miliardi di esseri
umani: non ce ne sono due uguali, ciascuno è diverso dall’altro».
Lo sguardo di
Eugenio Corti è spalancato sull’eterno: là, nel tempo senza fine, il fascino
della sua sapienza narrativa trascina l’interlocutore. Prosegue, perché sia
chiaro che l’acquisizione razionale del qui-e-ora non è il fine dell’umano
pensare: «Tutto questo significa che ciascuno riflette in modo diverso Dio:
siamo fatti a Sua immagine e somiglianza e ciascuno lo riflette in modo
diverso. Questo avrà una rilevanza enorme nella realtà del mondo di là, quello
definitivo: ciascuno è diverso dagli altri, non saremo in tanti uguali a
riflettere la bellezza di Dio, ma ciascuno avrà il suo modo. Ogni essere umano
costituirà un motivo di felicità per tutti gli altri, per questa sua diversità,
che già è preziosa qui nella lettera del singolo individuo e là sarà portata a
livelli di assoluto»
Oltre
l’inferno di ghiaccio
La prospettiva radicata nel tempo che passa e, insieme, lanciata in quello che rimane è coessenziale alla materia narrata fin dalla prima opera di Corti, I più non ritornano. L’unicità del diario della ritirata di Russia nell’ampio panorama della memorialistica riguardante la guerra sul fronte orientale sta proprio nell’apertura all’eterno. Di più, nel riconoscere la Redenzione che, sola, genera speranza persino nel culmine della tragedia.
La prospettiva radicata nel tempo che passa e, insieme, lanciata in quello che rimane è coessenziale alla materia narrata fin dalla prima opera di Corti, I più non ritornano. L’unicità del diario della ritirata di Russia nell’ampio panorama della memorialistica riguardante la guerra sul fronte orientale sta proprio nell’apertura all’eterno. Di più, nel riconoscere la Redenzione che, sola, genera speranza persino nel culmine della tragedia.
Anche quando
Corti descrive momenti di meschinità o di egoismo – del proprio abbandono alla
meschinità e all’egoismo – la sua visione è inesorabilmente rivolta oltre il
limite dell’umana pochezza. L’originalità del diario I più non ritornano è l’inesauribile speranza: la
prepotente volontà di salvarsi a qualsiasi costo, la disperazione, persino il
male commesso non bastano a definire e giudicare l’uomo. Neppure la dolorosa
scoperta del proprio cedimento rimuove dall’orizzonte del resoconto cortiano la
presenza lacerante e confortante di quella misericordia che sempre offre a
ciascuno la possibilità di ricominciare.
Se, nel
dopoguerra, il successo di pubblico del diario I più non
ritornano si sarebbe potuto attribuire all’interesse per un
fatto di cronaca dall’indicibile tragicità, occorre ora chiedersi quale sia il
segreto di un libro diverso da ogni altro resoconto della ritirata e che, a 57
anni dalla pubblicazione, continua a suscitare l’attenzione crescente dei
lettori. Non a caso nel giro di poche settimane sono giunte in libreria due
diverse edizioni del diario: la settima presso Mursia e la pubblicazione nella
collana “I libri dello spirito cristiano”, della Bur. È forte la sensazione
che, in un tempo a cui fa difetto la speranza, colpisca la testimonianza di una
positiva apertura al futuro generata dalla fede anche in condizioni di estrema
tragicità.
Se la speranza
cristiana è protagonista indiscussa in ogni opera di Corti, è però un’altra la
preoccupazione che ha animato la stesura del diario: «Lo scrupolo massimo che
ho avuto è stato di riferire la verità dei fatti accaduti: è questa, a mio
parere, la caratteristica principale del testo. L’ho anche scritto: potrei
giurare sul contenuto non solo dell’insieme, ma di ogni frase. E poi c’è un
elemento, che emergeva dalla recensione che ne ha fatto nel 1947 Mario
Apollonio e che per la mia attività di scrittore è stato decisivo: quel critico
ha definito I più non ritornano “romanzo-poema-dramma-storia”.
Ecco, insieme allo scrupolo della verità, c’è l’aspetto del canto, che si
manifesta in maniera inattesa»
Un altro
elemento che per l’autore è essenziale nel suo diario è la riflessione sulle
cause e sul senso della guerra, intesa come un mancato intervento di Dio
nell’orientare alla salvezza la libertà dell’uomo. Già durante la guerra,
tuttavia, la riflessione di Corti, accoglieva l’idea di un recupero della sofferenza
degli innocenti in funzione salvifica per l’umanità: «Si tratta di una
percezione fondamentale: i morti in guerra non sono inutili».
L’errore
della guerra
Le riflessioni di Eugenio Corti restano di stringente attualità: già in quel testo l’autore segnalava che, nonostante le tragiche esperienze, gli uomini non imparano dalla guerra, ma ricadono sempre nell’errore di considerarla una soluzione praticabile. La constatazione dello scrittore è amara ma realistica: «La storia si ripete identica anche nelle guerre recenti, per esempio nella guerra dell’America in Iraq, dopo l’esperienza che gli americani avevano avuto in Vietnam… Però l’errore militare conta meno, quello che conta è la somma dei guai, delle sofferenze generate dalla guerra. L’errore è fare la guerra: dopo averla sperimentata, gli uomini dovrebbero cercare di evitarla a ogni costo, invece la rifanno di nuovo, sempre».
Le riflessioni di Eugenio Corti restano di stringente attualità: già in quel testo l’autore segnalava che, nonostante le tragiche esperienze, gli uomini non imparano dalla guerra, ma ricadono sempre nell’errore di considerarla una soluzione praticabile. La constatazione dello scrittore è amara ma realistica: «La storia si ripete identica anche nelle guerre recenti, per esempio nella guerra dell’America in Iraq, dopo l’esperienza che gli americani avevano avuto in Vietnam… Però l’errore militare conta meno, quello che conta è la somma dei guai, delle sofferenze generate dalla guerra. L’errore è fare la guerra: dopo averla sperimentata, gli uomini dovrebbero cercare di evitarla a ogni costo, invece la rifanno di nuovo, sempre».
Qual è, in
questa prospettiva, lo spazio della responsabilità umana? Il discorso è
ricondotto all’essenziale: «Certo, ci sono anche le responsabilità degli
uomini, indubbiamente, il succo però è sempre lo stesso: questa guerra, come
ogni altra, non era da iniziare».
Ma il
terrorismo, gli attentati dell’11 settembre 2001 non giustificano la necessità
di difendersi? Lui, l’ufficiale scampato al disastro del fronte russo, è deciso
nel giudizio: «No! Come ha ammonito il Papa, l’attentato alle torri gemelle non
giustifica la guerra in Iraq». Si interrompe, il ricordo rivolto lontano: «E
poi, in ogni caso, quanto dolore…».
Prosegue, indagando
le ragioni: «Occorre domandarsi se, come temo, questo non è altro che un
episodio di uno scontro molto maggiore. Gli attentati terroristici e le guerre
in risposta sono passi drammatici, che possono portare a uno scontro epocale
tra l’islam e la cristianità, come già si è verificato nella storia. Se così
fosse ne verrebbe una somma di castigo veramente terribile».
È trascorsa
una vita da quando, giovane ufficiale di artiglieria, conosceva il dramma del
secondo conflitto mondiale; il suo giudizio sulla guerra, passato al vaglio
dell’esperienza e delle riflessioni di un’intera esistenza, però, è rimasto il
medesimo di allora. E per il resto, in che cosa è cambiato Eugenio Corti dal
tempo in cui, congedato dopo cinque anni al fronte, stendeva il diario della
ritirata di Russia?
Lo scrittore
socchiude gli occhi azzurri, lo sguardo acuto da sempre avvezzo a indagare la
realtà scruta attraverso il tempo. Già, il tempo che passa: «Gli anni della
nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti…», recita il salmo 89. E
lui sa bene di essere tra i più robusti, tra i privilegiati a cui è dato di
vedere lontano e di indicare la via: «Quello che forse è caratteristico, nel
mio percorso, è che non ho mai cambiato di indirizzo. Ho fatto molte scoperte,
ho avuto modo di compiere approfondimenti notevoli, ho commesso tanti errori –
come chiunque – ma non ho mai dovuto cambiare qualcosa di fondamentale nella
visione della realtà e nel modo di vivere. Considerando la mia vita osservo che
la visione di partenza, quella cristiana, era giusta».
Il tempo
presente, vissuto con intensità e insopprimibile volontà di comprendere, si
intreccia con l’eterno che, solo, dà significato e consistenza ai giorni che
passano. Il cammino di Eugenio Corti parte dalla promessa rivolta alla Madonna
nella notte di Natale del 1942, durante la ritirata di Russia: ancora non aveva
22 anni e, attanagliato dal gelo e dalla morte, decise che avrebbe impegnato il
proprio futuro nella costruzione del Regno di Dio. E oggi, dopo che la vita ha
radicato e fatto fiorire quella promessa, che cosa vorrebbe si dicesse di lui?
Lo scrittore dalla misura narrativa ricca e vigorosa, si limita all’essenziale,
cioè a quello che conta, e risponde: «Ha combattuto per il Regno». Poi
considera: «Certo non è che ho combattuto molto bene, però tutto ciò che ho
fatto l’ho fatto per il Regno…».
E ancora, dato
che la battaglia non è conclusa, c’è la scrivania ingombra di testi di storia
romana, dei fogli corretti e ricorretti del Catone accanto
alla fila delle matite ben temperate e là, sugli scaffali del suo studio, i
progetti per quei racconti che proprio occorre scrivere…
Che cosa
attende, che cosa spera Eugenio Corti in questi giorni buoni di pacata
operosità? «Per la nostra cultura, per la vita del mondo, attendo che si attui
la seconda fase della visione di sant’Agostino, secondo cui nel mondo si
alterna la prevalenza di città terrena e città celeste. Ecco, in questa fase di
pieno prevalere della città terrena, spero che arrivi presto la prevalenza
della città celeste. Per quello che riguarda me, attendo la misericordia di
Dio».
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