di Massimo Introvigne
da lanuovabussola
L'11 febbraio 2014 cade il primo anniversario di uno degli avvenimenti più
sconvolgenti nella storia della Chiesa, l'annuncio della rinuncia al ministero
petrino da parte di Benedetto XVI. Molti giornali - in tutto il mondo -
moltiplicano le interpretazioni «complottiste», tirando in ballo i soliti
oscuri disegni di cardinali, lo IOR e i preti pedofili.
Non voglio escludere che uno o più dei temi evocati abbia influito sulla
decisione di Benedetto XVI. Ma mantengo l'interpretazione che proponevo su queste colonne un anno fa.
Da una parte, non capisco perché si debba dare per forza del bugiardo a Papa
Ratzinger quando ci ha spiegato che, in coscienza, riteneva le sue forze
fisiche non più adeguate al gravoso compito di guidare la Chiesa, ricordando
che da teologo aveva sempre sostenuto che oggi la macchina della Chiesa
Cattolica è così complessa che un Papa non più nel pieno delle forze, piuttosto
che delegarne ad altri la direzione, dovrebbe dimettersi.
Dall'altra, il gesto era oggettivamente - e credo pure che volesse essere -
tecnicamente «apocalittico»: una parola che non fa riferimento alla mania di prevedere date per la
fine del mondo, certamente estranea a Benedetto XVI, ma a una «rivelazione», a
una scossa salutare intesa a mettere i cattolici del mondo intero di fronte a
una qualità drammatica del tempo presente, a un lungo venerdì santo della
Chiesa attaccata da nemici esterni e interni. In questo senso, alla luce della
rinuncia al ministero petrino, possiamo rileggere i frequenti richiami di
Benedetto XVI a Fatima, alle profezie sulla crisi che avrebbe colpito il
sacerdozio e la buona dottrina di santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), da lui
proclamata dottore della Chiesa, e anche al carattere ultimativo e davvero «apocalittico»
della sfida dell'ideologia di genere, definita il maggiore pericolo per la
Chiesa e l'umanità nell'ultimo discorso di Natale alla Curia Romana, del 21
dicembre 2012.
A distanza di un anno, possiamo e forse dobbiamo chiederci: i cattolici - al di là delle legittime
curiosità su fatti e circostanze, che però rischiano di far perdere di vista
l'essenziale - hanno accolto questo richiamo? Sono più o sono meno consapevoli
del carattere «apocalittico» del tempo in cui viviamo? Questa domanda ha molto
a che fare con il dibattito ospitato dalla «Nuova bussola quotidiana» sulla
crisi nella Chiesa e il nuovo pontificato. Anche alla luce di quel dibattito,
si possono dare due risposte: non opposte, ma diverse. Sono due «finestre» che,
da posizioni diverse, guardano a una parte della stessa realtà.
Una prima risposta è che no, i fedeli nella loro maggioranza rispetto a un
anno fa non sono più ma
meno consapevoli della qualità «apocalittica» dell'epoca in cui stiamo vivendo.
Il nuovo Pontefice ha messo al centro del suo ministero - e lo ha detto -
l'urgenza di raggiungere quella maggioranza (in Occidente) di «lontani» che non
vanno mai in chiesa, con la predicazione commovente della misericordia e
dell'amore di Dio. E ha posto in secondo piano - o ha delegato agli episcopati
locali, con risultati molto diversi a seconda dei Paesi - la denuncia, tipica
di Benedetto XVI, dell'aggressione «apocalittica» che la Chiesa sta subendo da
parte della «dittatura del relativismo», tradotta anche in leggi ostili alla
vita e alla famiglia.
Una seconda risposta è che i fedeli - almeno quelli che non si fanno abbindolare dalle manipolazioni dei
media laicisti - sono in condizione di comprendere che l'aggressione
«apocalittica» alla Chiesa continua, anzitutto perché a ricordarlo loro ci
pensano i nemici della Chiesa, da chi propone leggi sull'omofobia o (in
Francia) sull'«abortofobia» o iscrive nel registro degli indagati (in Spagna)
cardinali che ripetono quello che insegna il «Catechismo della Chiesa
Cattolica» sugli omosessuali fino alle commissioni delle Nazioni Unite che,
prendendo spunto dalla tragedia - purtroppo reale, e nessuno più di Benedetto
XVI ce lo ha ricordato - dei preti pedofili ingiungono al Magistero di cambiare
la sua dottrina in tema di aborto, omosessualità, anticoncezionali. A proposito
della terza parte del segreto di Fatima, Benedetto XVI faceva notare che la
Madonna vi svela la figura di un Papa colpito da fucilate e da frecce. Le
fucilate vengono da lontano, e rappresentano gli attacchi dei nemici esterni
alla Chiesa. Le frecce vengono da vicino, e rappresentano i nemici interni. Chi
ha occhi e categorie per vedere non può non percepire oggi sia le fucilate, sia
le frecce: non solo la dittatura del relativismo continua ad aggredire la
Chiesa, ma interi episcopati - guidati da presuli scelti peraltro nella loro
grande maggioranza da Benedetto XVI o dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005),
non da Papa Francesco, così che la crisi non è di origine recente - avanzano
proposte sovversive in materia di morale familiare.
I fedeli vedono i tempi «apocalittici», continua questa seconda prospettiva, non solo per il carattere tecnicamente
inaudito dell'aggressione, ma anche perché - per chi lo conosce dalle fonti o
dalla «Nuova Bussola quotidiana» e non da «Repubblica» - anche il Magistero di
Papa Francesco continua a offrire loro spunti che, se sono più occasionali
rispetto a Benedetto XVI, non mancano però di espressioni forti. Basti pensare
alla denuncia di Papa Francesco della «dittatura del relativismo» nel primo
incontro con i diplomatici, del 22 marzo 2013, allo sguardo davvero
«apocalittico» sull'aborto come peccato che per la sua immane diffusione
mondiale «grida vendetta al cospetto di Dio» nell'esortazione apostolica
«Evangelii gaudium», all'evocazione in due omelie del 18 e 28 novembre del
romanzo apocalittico «Il padrone del mondo» dello scrittore inglese Robert Hugh
Benson (1871-1914), con la denuncia delle leggi oggi in vigore che organizzano
«sacrifici umani».
Certo, la grande stampa tace su questi interventi di Papa Francesco e dà invece grande rilievo agli
elementi di evidente differenza e discontinuità rispetto a Benedetto XVI: il
primato del dialogo e della misericordia annunciati e praticati anche nei
confronti di organizzatori culturali del relativismo come Eugenio Scalfari o
dei «gay» evocati in una famosa intervista in aereo, o la rinuncia a
intervenire sul tema dell'ideologia di genere e delle leggi che ne conseguono,
che sembra rubricato fra gli argomenti di cui si afferma nella «Evangelii gaudium»
che il Papa ritiene più opportuno affidarne la trattazione agli episcopati
nazionali.
Come accennavo, ogni prospettiva coglie una parte reale dello stesso
scenario. Personalmente
ritengo che proprio la convinzione di Papa Francesco della necessità di partire
dall'annuncio delle verità più elementari - la misericordia, la bontà del
Signore e della Madonna, le insidie del diavolo, persino la buona educazione in
famiglia - sia un segnale, per chi lo sa cogliere, del fatto che viviamo in
tempi di naufragio antropologico in qualche modo «finale», così che la
ricostruzione deve davvero partire da zero.
Sulle modalità della ricostruzione, è normale che anche tra cattolici
fedeli al Papa e al «Catechismo» ci siano interpretazioni diverse. Confesso di essere poco appassionato
al dibattito sui cosiddetti «normalisti». L'etichetta dovrebbe indicare coloro
che affermano che non vi è nessuna discontinuità fra Benedetto XVI e Papa
Francesco. Se è così, non conosco molti «normalisti», e di certo non faccio
parte della categoria. Deve trattarsi di persone che non conoscono la storia
della Chiesa, in cui ci sono spesso - per non dire sempre - momenti di
discontinuità. Ci fu forse perfetta continuità quando si passò dal beato Pio IX
(1792-1878) a Leone XIII (1810-1903), da san Pio X (1835-1914) a Benedetto XV
(1854-1922), o dal venerabile Pio XII (1876-1958) al beato Giovanni XXIII
(1881-1963)? Basta leggere qualche pubblicazione di quelle epoche per vedere
con quanta difficoltà e sofferenza tanti buoni cattolici percepirono allora la
discontinuità fra un pontificato nuovo e uno precedente.
Nel grande discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana Benedetto XVI
lanciò la sua proposta
di una «ermeneutica della riforma nella continuità» per leggere i documenti del
Vaticano II non «contro» ma «alla luce» del Magistero precedente. Quel discorso
fu da molti capito male, dimenticando la continuità in nome della riforma o al
contrario la riforma in nome della continuità. Non era un'interpretazione
«normalista» del Concilio, come se il Vaticano II non avesse cambiato nulla. A
leggerlo tutto, ci si trovava l'indicazione di «discontinuità» che emergono
facilmente a prima vista esaminando i testi del Concilio. Papa Ratzinger
invitava ad accogliere con lealtà gli elementi di riforma del Concilio,
sforzandosi però d'interpretarli - anche quando, e lo ammetteva, è
difficile - «in continuità», e non «in rottura», con il Magistero precedente.
Nell'enciclica «Caritas in veritate» Benedetto XVI aggiungeva che l'«ermeneutica della riforma
nella continuità» non vale solo per il Concilio. Va applicata anche al
Magistero dei Papi - l'esempio dell'enciclica era il Magistero sociale del
venerabile Paolo VI nella «Populorum progressio» rispetto alle encicliche
sociali dei suoi predecessori -, accogliendo gli elementi di riforma, che ci
sono sempre, ma leggendoli alla luce e non «contro» gli elementi precedenti.
Credo che oggi Benedetto XVI, se non avesse scelto il silenzio, ci inviterebbe ad applicare
l'«ermeneutica della riforma nella continuità» anche al rapporto fra Papa
Francesco e se stesso. Non per negare - scioccamente - gli elementi di riforma,
i quali comportano quella stessa «apparente discontinuità» che a prima vista
nel discorso del 2005 Benedetto XVI considerava evidente vedere nel Vaticano II
rispetto al Magistero precedente. Ma per sforzarsi di leggere la «riforma» di
Papa Francesco - anche quando non è facile - alla luce del Magistero di
Benedetto XVI e non «contro» questo Magistero.
In un'intervista rilasciata il 10 febbraio il teologo progressista Hans
Küng, che fu grande amico
del professor Joseph Ratzinger prima di rompere con lui dopo il Concilio per
opposte visioni della Chiesa, ha rivelato di avere ricevuto da Benedetto XVI
una lettera riservata datata 24 gennaio 2014. Il Papa Emerito - che sul piano
umano non ha mai voluto rompere con Küng, perdonando anche qualche offesa -
avrebbe scritto fra l'altro: «Io sono grato di poter essere legato da una
grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco».
Benedetto XVI è uno degli spiriti più acuti del nostro tempo, ed è abituato a pesare ogni parola,
specie scrivendo a personaggi come Küng, di cui conosce la malizia come le sue
tasche. Certamente non propone un «normalismo» ingenuo, ed è perfettamente
consapevole degli elementi di riforma e di discontinuità introdotti da Papa
Francesco. Il riferimento all'«identità di vedute» è dunque proprio l'ennesimo
richiamo all'«ermeneutica della riforma della continuità», la cui base
teologica e storica - lo spiegava Benedetto XVI - è la continuità nella storia
dell'unico soggetto-Chiesa. La Chiesa non è finita quando è arrivato Leone XIII
- da alcuni etichettato come «socialista» per la sua attenzione alla giustizia
sociale - dopo il beato Pio IX, o quando il beato Giovanni XXIII è succeduto al
venerabile Pio XII. Continua a essere la stessa anche oggi. Ma il forte
richiamo di Benedetto XVI, con il suo Magistero e con il gesto dell'11 febbraio
2013, al carattere apocalittico del tempo che la Chiesa sta vivendo non può e
non deve andare perduto.
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