di Joseph Ratzinger (1973)
Il Venerdì
Santo della storia negli orrori del Novecento, dalla Shoah al grido dei poveri,
«gli slums degli affamati e dei disperati». Il testo che pubblichiamo è la
prima parte del saggio di apertura del libro «Gesù di Nazaret. Scritti di
cristologia», secondo tomo del volume VI della Opera omnia di Joseph
Ratzinger-Benedetto XVI, che verrà pubblicato a novembre in traduzione italiana
dalla Libreria Editrice Vaticana. Scritto nel 1973, il testo è uscito nel 2014
in Germania presso la casa editrice Herder, che sta pubblicando le Gesammelte
Schriften di Ratzinger, a cura del cardinale Gerhard Ludwig Müller. Una
riflessione vertiginosa in risposta al grido degli ultimi: «Dove sei, Dio, se
hai potuto creare un mondo così?»
Nelle grandi
composizioni sulla Passione di Johann Sebastian Bach, che ogni anno ascoltiamo
durante la Settimana Santa con emozione sempre nuova, il terribile avvenimento
del Venerdì Santo è immerso in una trasfigurata e trasfigurante bellezza.
Certo, queste Passioni non parlano della Risurrezione - si concludono con la
sepoltura di Gesù -, ma nella loro limpida solennità vivono della certezza del
giorno di Pasqua, della certezza della speranza che non svanisce nemmeno nella
notte della morte. Oggi, questa fiduciosa serenità della fede - che non ha
nemmeno bisogno di parlare di Risurrezione, perché è in essa che la fede vive e
pensa - ci è diventata stranamente estranea. Nella Passione del compositore
polacco Krzysztof Penderecki è scomparsa la serenità quieta di una comunità di
fedeli che quotidianamente vive della Pasqua. Al suo posto risuona il grido
straziante dei perseguitati di Auschwitz, il cinismo, il brutale tono di
comando dei signori di quell’inferno, le urla zelanti dei gregari che vogliono
salvarsi così dall’orrore, il sibilo dei colpi di frusta dell’onnipresente e
anonimo potere delle tenebre, il gemito disperato dei moribondi.
È il
Venerdì Santo del XX secolo. Il
volto dell’uomo è schernito, ricoperto di sputi, percosso dall’uomo stesso. «Il
capo coperto di sangue e di ferite, pieno di dolore e di scherno» ci guarda
dalle camere a gas di Auschwitz. Ci guarda dai villaggi devastati dalla guerra
e dai volti dei bambini stremati nel Vietnam; dalle baraccopoli in India, in
Africa e in America Latina; dai campi di concentramento del mondo comunista che
Alexandr Solzhenitsyn ci ha messo davanti agli occhi con impressionante
vivezza. E ci guarda con un realismo che sbeffeggia qualsiasi trasfigurazione
estetica. Se avessero avuto ragione Kant e Hegel, l’illuminismo che avanzava
avrebbe dovuto rendere l’uomo sempre più libero, sempre più ragionevole, sempre
più giusto. Dalle profondità del suo essere salgono invece sempre più quei
demoni che con tanto zelo avevamo giudicato morti, e insegnano all’uomo ad avere
paura del suo potere e insieme della sua impotenza: del suo potere di
distruzione, della sua impotenza a trovare se stesso e a dominare la sua
disumanità.
Il
momento più tremendo del racconto della Passioneè certo quello in cui, al
culmine della sofferenza sulla croce, Gesù grida a gran voce: «Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?». Sono le parole del Salmo con le quali
Israele sofferente, maltrattato e deriso a causa della sua fede, grida in
faccia a Dio il suo bisogno d’aiuto. Ma questo grido di preghiera di un popolo,
la cui elezione e comunione con Dio sembra essere diventata addirittura una
maledizione, acquista tutta la sua tremenda grandezza solo sulle labbra di
colui che è proprio la vicinanza redentrice di Dio fra gli uomini. Se sa di
essere stato abbandonato da Dio lui, allora dove è ancora possibile trovare
Dio? Non è forse questa la vera eclissi solare della storia in cui si spegne la
luce del mondo? Oggi, tuttavia, l’eco di quel grido risuona nelle nostre
orecchie in mille modi: dall’inferno dei campi di concentramento, dai campi di
battaglia dei guerriglieri, dagli slums degli affamati e dei disperati: «Dove
sei Dio, se hai potuto creare un mondo così, se permetti impassibile che a
patire le sofferenze più terribili siano spesso proprio le più innocenti tra le
tue creature, come agnelli condotti al macello, muti, senza poter aprire
bocca?».
L’antica
domanda di Giobbe si è acuita come mai prima d’ora. A volte prende un tono piuttosto
arrogante e lascia trasparire una malvagia soddisfazione. Così, ad esempio,
quando alcuni giornali studenteschi ripetono con supponenza quel che in
precedenza era stato inculcato loro, e cioè che in un mondo che ha dovuto
imparare i nomi di Auschwitz e del Vietnam non è più possibile parlare sul
serio di un Dio «buono». In ogni caso, il tono falso che troppo spesso
l’accompagna, nulla toglie all’autenticità della domanda: nell’attuale momento
storico è come se tutti noi fossimo posti letteralmente in quel punto della
passione di Gesù in cui essa diviene grido d’aiuto al Padre: «Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?».
Cosa si
può dire? Si tratta al
fondo di una domanda che non è possibile dominare con parole e argomentazioni,
perché arriva a una profondità tale che la pura razionalità e la parola che ne
deriva non sono in grado di misurare: il fallimento degli amici di Giobbe è
l’ineludibile destino di tutti quelli che pensano di poter risolvere la
questione, in modo positivo o negativo che sia, con abili ragionamenti e
parole. È una domanda che può solo essere vissuta, patita: con colui e presso
colui che sino alla fine l’ha patita per tutti noi e con tutti noi.
Un superbo credere di poter risolvere la questione - vuoi nel senso di quei giornali studenteschi, vuoi nel senso dell’apologetica teologica - finisce per non centrare l’essenziale. Al massimo si può offrire qualche spunto.
Un superbo credere di poter risolvere la questione - vuoi nel senso di quei giornali studenteschi, vuoi nel senso dell’apologetica teologica - finisce per non centrare l’essenziale. Al massimo si può offrire qualche spunto.
Va
notato innanzitutto che Gesù non constata l’assenza di Dio, ma la trasforma in
preghiera. Se vogliamo porre il Venerdì Santo del
ventesimo secolo dentro il Venerdì Santo di Gesù, dobbiamo far coincidere il
grido d’aiuto di questo secolo con quello rivolto al Padre, trasformarlo in
preghiera al Dio comunque vicino. Si potrebbe subito proseguire la riflessione
e dire: è veramente possibile pregare con cuore sincero quando nulla si è fatto
per lavare il sangue degli oppressi e per asciugarne le lacrime? Il gesto della
Veronica non è il minimo che debba accadere perché sia lecito iniziare a
parlare di preghiera? Ma soprattutto: si può pregare solo con le labbra o non è
sempre necessario invece tutto l’uomo?
Limitiamoci a questo accenno, per considerare un secondo aspetto: Gesù ha veramente preso parte alla sofferenza dei condannati, mentre in genere noi, la maggior parte di noi, siamo solo spettatori più o meno partecipi delle atrocità di questo secolo. A questo si collega un’osservazione di un certo peso. È curioso infatti che l’affermazione che non può esserci più alcun Dio, che Dio dunque è totalmente scomparso, si levi con più insistenza dagli spettatori dell’orrore, da quelli che assistono a tali mostruosità dalle comode poltrone del proprio benessere e credono di pagare il loro tributo e tenerle lontane da sé dicendo: «Se accadono cose così, allora Dio non c’è». Per coloro che invece in quelle atrocità sono immersi, l’effetto non di rado è opposto: proprio lì riconoscono Dio. Ancora oggi, in questo mondo, le preghiere si innalzano dalle fornaci ardenti degli arsi vivi, non dagli spettatori dell’orrore.
Non è un caso che proprio quel popolo che nella storia più è stato condannato alla sofferenza, che più è stato colpito e ridotto in miseria - e non solo negli anni 1940-1945, ad «Auschwitz» -, sia divenuto il popolo della Rivelazione, il popolo che ha riconosciuto Dio e lo ha manifestato al mondo. E non è un caso che l’uomo più colpito, che l’uomo che più ha sofferto - Gesù di Nazaret - sia il Rivelatore, anzi: era ed è la Rivelazione. Non è un caso che la fede in Dio parta da un capo ricoperto di sangue e ferite, da un Crocifisso; e che invece l’ateismo abbia per padre Epicuro, il mondo dello spettatore sazio.
D’improvviso
balena l’inquietante, minacciosa serietà di quelle parole di Gesù che abbiamo
spesso accantonato perché le ritenevamo sconvenienti: è più facile che un
cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli. Ricco vuol dire uno che «sta bene»,
uno cioè che è sazio di benessere materiale e conosce la sofferenza solo dalla
televisione. Proprio di Venerdì Santo non vogliamo prendere alla leggera queste
parole che ci interpellano ammonitrici. Di sicuro non vogliamo e non dobbiamo
procurarci dolore e sofferenza da noi stessi. È Dio che infligge il Venerdì
Santo, quando e come vuole. Ma dobbiamo imparare sempre più - e non solo a
livello teorico, ma anche nella pratica della nostra vita - che tutto il buono
è un prestito che viene da Lui e ne dovremo rispondere davanti a Lui. E dobbiamo
imparare - ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare
e di agire - che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel
sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei
calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato
da noi. E, anno dopo anno, il Venerdì Santo ci esorta in modo decisivo ad
accogliere questo nuovamente in noi .
Da corriere.it
(Traduzione di Pierluca Azzaro,
©copyright Libreria Editrice Vaticana 2015)
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