Una lunga
mistificazione
Vent'anni or sono, nel 1995, Renzo De Felice, dopo aver ricordato che la Resistenza era stato
«un grande evento storico» che nessun revisionismo sarebbe riuscito a negare,
richiamò l'attenzione sul fatto che i numeri di quanti avevano preso parte
attiva alla lotta partigiana erano ancora controversi.
Ma, quali che ne fossero le dimensioni, quel che
sembrava certo allo studioso, era il fatto che, al contrario di quanto si
sosteneva generalmente, non era
possibile «definire la Resistenza un movimento popolare di massa» se non
nelle settimane che precedettero la resa dei tedeschi e la vittoria delle
truppe alleate. Del resto anche uno dei suoi principali protagonisti, il
generale Raffaele Cadorna aveva scritto nelle sue memorie che, al momento della
liberazione, il numero dei partigiani era cresciuto «a dismisura» e aveva
aggiunto: «Un semplice fazzoletto rosso al collo bastava a tramutare un
pacifico operaio o un contadino in partigiano persuaso di avere acquistato
larghe benemerenze nella liberazione della patria». L'amara verità è che la
grande maggioranza degli italiani, ormai stanca della guerra, aveva preferito
evitare di schierarsi in maniera palese a favore della Resistenza o della
Repubblica sociale italiana. Il
sentimento collettivo era andato coagulandosi, non per opportunismo ma come
scelta di «mera necessità» e come «male minore», in una sorta di «zona grigia»
costituita essenzialmente da «quanti riuscirono a sopravvivere tra due fuochi,
impossibile da classificare socialmente, espressa trasversalmente da tutti i
ceti, dalla borghesia alla classe operaia».
La tesi di De Felice sembrò dirompente perché metteva in discussione non già la
Resistenza in quanto tale ma piuttosto il suo uso politico e ideologico, la sua
strumentalizzazione. Quello dello storico era, in realtà, un invito a rileggere e studiare la Resistenza al di
fuori del «mito» che ne era stato accreditato soprattutto ad opera dei
comunisti. Questi ultimi erano
riusciti a far prevalere l'idea non solo di una grande rivolta popolare di
massa ma anche, e soprattutto, di un fenomeno unitario a guida comunista.
Cosa che non era
affatto vera perché alla Resistenza, nelle
sue varie fasi, presero parte, oltre ai comunisti e agli azionisti con le
brigate «Garibaldi» e «Giustizia e Libertà», anche esponenti di altre forze
politiche, dai cattolici ai socialisti, dai liberali ai monarchici inquadrati
in brigate e formazioni autonome, talora in dissenso sulle scelte operative.
Per non dire, infine, del contributo alla lotta di liberazione da parte dei
militari italiani del Corpo italiano di Liberazione e di quell'altra e
coraggiosa forma di resistenza rappresentata dal rifiuto di collaborare con i
tedeschi da parte dei soldati internati nei campi di concentramento, gli Imi
dei quali fece parte anche Giovannino Guareschi.
Alle origini del processo
di mistificazione storica della Resistenza c'era un preciso disegno portato
avanti dal Partito comunista e, in via subordinata, dal Partito d'azione, quello
di accreditare che la Resistenza fosse il vero e il solo evento rivoluzionario
della storia dell'Italia unita. Il che spiega, per inciso, il motivo per il
quale le formazioni autonome, quelle cioè che facevano riferimento a forze
politiche diverse dal Pci o dal Pda, fossero guardate con diffidenza se non
addirittura con ostilità.
La Brigata Osoppo (Friuli) |
Rientra, per esempio, in questo quadro - e vi entra in
maniera emblematica delle lotte intestine all'interno del movimento partigiano
- il caso dell'eccidio della malga di
Porzûs, dove un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo di orientamento
cattolico e laico-socialista fu barbaramente liquidato da parte di partigiani
comunisti. Spiega, ancora, perché si dovesse glissare sul contributo militare,
importante ed anzi essenziale, degli Alleati alla liberazione del Paese e perché si inventasse quella dubbia
categoria interpretativa della Resistenza come «secondo Risorgimento»
giustamente criticata da un grande ed equilibrato storico come Rosario Romeo. E
spiega, infine, come, per molto tempo, la storiografia ufficiale della
Resistenza, quella che De Felice avrebbe definito la vulgata, si fosse preoccupata non soltanto di minimizzare, di
fatto sottovalutandola, la partecipazione delle componenti non comuniste
all'epopea resistenziale.
Quando, nel 1991, venne pubblicato il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra
civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza , sembrò che si
aprisse una stagione completamente nuova rispetto, per esempio, al classico
libro, la Storia della Resistenza , che uno storico militante come Roberto
Battaglia aveva scritto, quasi a caldo e sotto la guida ispiratrice di Luigi
Longo, presentando, in chiave marxista, la Resistenza come una guerra di popolo
egemonizzata e guidata dai comunisti. La novità stava, in primo luogo, nel
recupero, in ambito storiografico, della nozione di «guerra civile» prima
sdegnosamente rifiutata e utilizzata solo nella polemica politica e in talune
ricostruzioni provenienti dall'ambiente neofascista. Adesso la «guerra civile»
non era più rifiutata, ma diventava un aspetto della Resistenza accanto ad
altri due, quelli di una «guerra patriottica» e di una «guerra di classe». Ma si trattava di una novità apparente
perché, al fondo del discorso, rimaneva in piedi l'equazione che tendeva a
collegare l'idea della Resistenza con l'idea di una rivoluzione politica e
sociale. Non è un caso che la ponderosa, e pur importante, opera di Pavone
liquidasse la vicenda di Porzûs in una nota e sottovalutasse il contributo
delle componenti non comuniste o azioniste della Resistenza: come dimostra, per
esempio, il fatto che le citazioni del nome di un liberale come Edgardo Sogno
si contino sulla punta delle dita.
Il proposito comunista di accreditare l'immagine di
una Resistenza unitaria guidata dai quadri dirigenti del partito comunista e
farne il fondamento legittimante dello Stato democratico post-fascista era
funzionale al disegno di Palmiro Togliatti, e dei suoi accoliti, di conquistare il potere attraverso
l'affermazione della «democrazia progressiva».
Era un proposito di
natura «pedagogica» e politica al tempo stesso che si risolveva, però, in un
vero e proprio «tradimento» della Resistenza stessa e dei suoi valori. La storia della Resistenza raccontata dalla vulgata
comunista e azionista è contenuta in un libro ideale pieno di pagine stracciate
e cancellate che solo da poco tempo alcuni volenterosi ricercatori stanno
tentando di restaurare o ricostruire. È la storia di una «Resistenza rossa» che
si sarebbe affermata, come sostenne Luigi Longo durante le celebrazioni del
primo decennale, vincendo le opposizioni di cattolici e liberali e di tutti
quegli antifascisti che, troppo legalitari, ne boicottavano il carattere di
movimento popolare di massa e ne ostacolavano l'evoluzione in senso classista.
Ma è una storia falsa che ha avuto successo soltanto
grazie all'egemonia culturale
gramsci-azionista che per molto tempo, per troppo tempo, ha condizionato le
menti degli intellettuali italiani.
È ora di
riscrivere la storia vera della Resistenza, con le sue luci e le sue ombre, per
assegnarle il posto che, legittimamente, le spetta. Al di là e al di fuori del
mito. E, soprattutto, delle speculazioni politiche.
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