FEDERICO PICHETTO
I
migranti e noi: paura o solitudine?
La tragedia di centinaia di uomini che muoiono
cercando rifugio e protezione nella vecchia Europa è l'insegna sotto la quale
si apre il nuovo anno sociale dell'Occidente.
Così, mentre le istituzioni
europee e internazionali continuano a fissare incontri e riunioni che non
affrontano il problema con la dovuta serietà, procrastinandolo all'infinito, la
Chiesa cattolica — soprattutto attraverso la voce del Papa — non cessa di
educare la coscienza civile degli uomini di tutto il mondo ad un sentimento di
fratellanza che non sgorga da una generosa filantropia, ma dalla consapevolezza
che gli esseri umani, sia quelli che scappano sia quelli che vivono sotto il
nostro stesso tetto, sono tutti figli di un unico Padre.
Fa impressione osservare come la Chiesa avverta la
profondità del "problema immigrazione": essa non lo lega ad una
"questione sociale", ma ad una posizione di fede inerente il cuore di
ciascuno di noi. I giornali e le cronache, invece, ci presentano la delicata
situazione migratoria come una scelta netta tra la politica dell'accoglienza e
quella della paura, estrapolando le decisioni da assumere da un giudizio
complessivo e autentico sulla società.
La cifra dominante il nostro vivere
comune — infatti — non è, come ci raccontano, la paura, bensì la
solitudine. Quella solitudine che assale tutti e che non nasce dal sentirsi
"soli", ma dall'essere "impotenti".
È l'impotenza ciò che avvertiamo di fronte ad un'onda
inarrestabile di uomini che si abbatte sull'Europa, ciò che sentiamo
davanti ad un tumore, ad una fatica o ad una circostanza che non è come
vorremmo noi, ciò che prima o poi ci afferra in un matrimonio o in un rapporto
che ormai avvertiamo come logoro, è l'impotenza che genera in noi solitudine,
vuoto e senso del nulla.
La solitudine è dunque il fattore che meglio fotografa
il cuore di tanti in quest'inizio d'anno, mentre la tentazione più grande che
lo attraversa è quella di "fare battaglie", di "aprire la caccia
al profugo", di stringere legami affettivi qualunque "purché ci
siano" oppure di "evadere dal presente", di scappare dal
contatto reale col mondo, per non sentire più l'urgenza e il bisogno
ultimo del nostro stesso Io. La rabbia, la paura, il gusto del
"proibito" non sono anzitutto "problemi personali", ma segni
tangibili di una ribellione ultima e definitiva ad una vita che finiamo quasi
sempre per avvertire "contro" di noi.
Questo la Chiesa lo sa. Ed è proprio per questo che
essa ci invita a non cercare in nessuna battaglia, in nessun legame o in
nessuna "distrazione" una risposta al nostro disagio: essa può
arrivare solo da Qualcos'Altro, da Qualcuno che entri nella nostra terra e la
trasformi.
Ecco la ragionevolezza del pregare, del testimoniare e
del dialogare: noi non preghiamo, o viviamo la fede, per riuscire a
fermare gli sbarchi, né per cambiare la realtà, ma perché si mostri nel
nostro presente impotente "la grande Potenza di Dio" che usa di cose
piccole e di uomini semplici per agire nel tempo e trasformare la
storia.
Narrano le cronache liguri che una certa Marinin fosse
la domestica di un importante professorone agnostico e che costui, tutti i
giorni, la canzonasse sempre per il latino scorretto con cui la donna, allo
scoccare del mezzogiorno, recitava l'Angelus. Marinin un giorno rispose
con prontezza che il punto della vita non era che quelle parole fossero capite
dagli uomini, ma che arrivassero a Dio. Il professore, colpito nel profondo,
cominciò così a incuriosirsi della donna che finì con l'abbracciare del
tutto la fede cristiana. Solo una Potenza può salvarci dalla nostra impotenza e
abbracciare tutta la nostra solitudine. Non c'è matrimonio, partito,
amicizia, battaglia, droga o piacere che possano colmare il desiderio
del nostro povero cuore. Marinin lo sapeva.
L'Europa di oggi, quando parla di profughi o di
popoli, sembra saperlo un po' meno.
E con lei tutti noi che, a forza di cercare
soluzioni e vittorie ai nostri problemi, non ci rendiamo conto che stiamo
voltando le spalle alla vera questione che conta, a quella strana solitudine
che solo un Incontro, solo una Presenza, possono davvero abbracciare e far
rifiorire.
Affinché tutto possa davvero trovare un luogo dove
poter ripartire, un'esperienza in cui anche il volto del profugo che
sbarca, o del nemico che bussa alla porta, diventi una meravigliosa
occasione per dire "Io", per vivere.
lunedì 31 agosto 2015 ILSUSSIDIARIO
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