«IlPapa non è populista, è un grande uomo di fede. Ma non va
strumentalizzato ideologicamente — dice al Corriere il cardinale e arcivescovo
di Milano Angelo Scola , ribadendo il suo no alla comunione per i
divorziati e alle unioni di fatto —; ma se due omosessuali vivono insieme in
modo casto la Chiesa non ha nulla da dire. Il punto è che a tutti i livelli si
pensa poco sulle grandi questioni, dal matrimonio all’immigrazione».
Cardinale Scola, domenica prossima si apre il Sinodo conclusivo sulla
famiglia. Un anno fa lei disse al «Corriere»: niente comunione ai divorziati
risposati; il Papa non potrà fare altrimenti. Conferma?
«Avevo
espresso un auspicio, vedremo come andrà a finire. Se mi si vuol far dire
che personalmente non ho trovato ragioni adeguate per accettare la proposta del
cardinale Kasper, va bene, fate pure i vostri grafici distinguendo “chi sta con
il Papa”, “chi non sta con il Papa”... Però la mia preoccupazione è di natura
completamente diversa. Ho l’impressione che si stia “pensando” poco. A tutti i
livelli».
Si è passati dall’intellettuale Ratzinger al populista Bergoglio?
«No, Ratzinger è un “umile servitore della
vigna” e Francesco non è per nulla un
populista. È un grande uomo di fede che, fin dal primo giorno, ha innovato
in due direzioni. Ha capito che se non ci si coinvolge di persona non si
risulta autorevoli; per questo papa Francesco dà grande importanza ai gesti. E
la sua idea della povertà teologica è fondamentale».
Povertà teologica?
«Sì. Il Papa dice: se, seguendo il Vangelo, osserviamo la realtà partendo dalla periferia,
dall’esperienza concreta dei poveri, lo vedremo secondo una visuale più
completa che facendo il contrario, partendo dal centro e andando verso la
periferia. Le due cose dimostrano che ha un fortissimo senso del popolo, un
carisma straordinario di coinvolgimento con tutta quanta la realtà. Ed esprime
una visione teologica e culturale efficace. Che abbia potuto imparare questa
attitudine in un Paese come l’Argentina, dove il popolo ha avuto un peso storico
rilevante, senza cadere in facili cortocircuiti — peronismo o non peronismo —,
questo è pure un dato importante. Non a
caso Bergoglio ha contribuito a far evolvere la teologia della liberazione in
una teologia di popolo, liberandola dal rischio dell’ideologia. Se mi è
permesso un paragone ardito, la gente diceva di Gesù: “è uno che parla con
autorità”. Perché era coinvolto con quello che diceva. Il Papa è così: il
populismo non c’entra niente. Semmai il problema è l’uso che si può fare di
questo papato».
Che cosa intende?
«Bisogna vigilare sulle strumentalizzazioni esterne, che potrebbero
reintrodurre nella Chiesa una logica ideologica, in un momento in cui c’è più
che mai bisogno di “mescolare le carte”, di superare le sterili dispute, di
ascoltarsi reciprocamente. Se invece si ricade nella logica degli schieramenti
contrapposti: “Ecco, avevamo ragione noi che dicevamo certe cose prima”, oppure
“No, questo non si deve neppure dire”, è finita. Questa è la sfida che tocca
alla Chiesa italiana».
A cominciare dal Sinodo. Lei aveva proposto, anziché scontrarsi sulla
comunione, di rendere più agevole la dichiarazione di nullità del matrimonio.
Finirà così?
«Resta una differenza qualitativa tra i
due problemi. Un conto è snellire la
verifica di nullità, cosa che il Santo Padre ha già fatto con il motu proprio,
un conto è riammettere alla comunione sacramentale i divorziati risposati,
perché la verifica della nullità non ha mai un esito scontato. Se si appura che il matrimonio c’era, c’è.
Il rapporto tra Cristo e la Chiesa, entro il quale i due sposi esprimono
davanti alla comunità cristiana il loro consenso, non è un modello esteriore da
imitare. È il fondamento del matrimonio che nasce. Io, sposo, non potrei mai
fondare il “per sempre”, l’indissolubilità, sulle sabbie mobili della mia
volontà. E come posso fidarmi in maniera definitiva che mia moglie mi sarà
fedele sempre? Cosa succede nel consenso reciproco espresso all’interno
dell’atto eucaristico? Che io voglio il dovere del “per sempre” e decido non
sulla base della mia fragile volontà, ma radicandomi nel rapporto nuziale tra
Cristo e la Chiesa. È questo che, attraverso il sacramento, fonda il
matrimonio».
Sta dicendo che la comunione non è un accessorio, ma un fondamento stesso
del matrimonio?
«Esattamente».
Ma legare la nullità del matrimonio alla mancanza di fede di uno degli
sposi non è un ammorbidimento del vincolo?
«È chiaro che la dimensione soggettiva della fede non è verificabile: io
non mi posso permettere di giudicare quanta fede hai o non hai tu. Però la fede
non è un fatto individualistico, è inserita organicamente nella comunione. Gesù ha detto: “Quando due o tre di voi
si riuniranno in nome mio io sono in mezzo a loro”. L’Eucaristia è il vertice
espressivo di questa natura comunionale della fede. Pertanto, rispettando fino
in fondo la coscienza di ogni singolo, si
può valutare se egli intende o meno fare ciò che la Chiesa fa quando unisce due
in matrimonio. L’urgenza
prioritaria, per me, è che il Sinodo possa suggerire al Santo Padre un
intervento magisteriale che unifichi semplificandola la dottrina sul
matrimonio. Un intervento teso a mostrare il rapporto tra l’esperienza di fede
e la natura sacramentale del matrimonio».
Don Carron dice che sulle unioni omosessuali serve il dialogo, non il muro.
Lei cosa ne pensa?
«Ho già detto che nel riconoscimento pieno
della dignità personale di quanti provano attrazione per lo stesso sesso anche
noi cristiani siamo stati un po’ lenti. Ma
la famiglia è qualcosa di unico, con una fisionomia molto specifica, legata
al rapporto fedele e aperto alla vita tra un uomo e una donna. Non reputo conveniente una legislazione
che, nei principi o anche solo nei fatti, possa produrre confusione a questo
livello. Tra l’altro non sono molto convinto che lo Stato debba occuparsi direttamente
di queste cose e sono anche un po’
seccato di fronte a questo Parlamento europeo, perché non ha il diritto di
premere sui singoli Stati in favore di una normativa in campo etico. Ho piuttosto l’impressione che, essendo
povero di poteri reali, si occupi di queste cose a sproposito, senza tener
conto delle differenze tra gli Stati. L’Italia non è certo la Svezia o
l’Olanda».
I cattolici dovrebbero far sentire di più la loro voce?
«Sì, attraverso la testimonianza, anche pubblica, del bell’amore. Bisogna distinguere bene la questione
delle unioni omosessuali dalla famiglia, essendo però estremamente attenti al
percorso che le persone con questa attrazione compiono. Qualche giorno fa ho
ricevuto esponenti di una associazione molto interessante, Courage, promossa
nel 1980 dal cardinal Cooke, allora arcivescovo di New York. Persone che si
impegnano a vivere la castità in questo tipo di attrazione...».
Se ad esempio due omosessuali vivessero insieme in modo casto, la Chiesa
non li condannerebbe?
«Certo che no. In questo campo non esiste
il bianco e il nero. Come nella situazione dei divorziati e risposati: ogni caso è personale. Tutto ciò che ha
a che fare con la dimensione sessuale dell’io è personale e può essere trattato
solo singolarmente. Non esiste la categoria degli omosessuali o la categoria
dei divorziati e risposati. Ognuno di noi, che sia omosessuale o eterosessuale,
da quando nasce a quando muore deve fare i conti con questa dimensione. È
quello che taluni psicoanalisti chiamano “il processo di sessuazione”. Allora, tutti noi dobbiamo essere
rispettosi fino in fondo del cammino sia degli omosessuali sia degli eterosessuali.
A me non piacciono le
semplificazioni esasperate, per cui tutto il Sinodo si riduce al problema
dell’ammissione dei divorziati alla comunione sacramentale, per cui quando si
parla di unioni omosessuali tutto si riduce al diritto di essere famiglie, e
non si entra mai in un pensiero forte, non si toccano mai le questioni che ci
sono dietro, le uniche in grado di promuovere la dignità di tutti e la loro
equilibrata libertà».
Per questo dice che si pensa poco?
«Certo. Guardi anche all’immigrazione».
Una famiglia di migranti in ogni parrocchia: è d’accordo?
«A Milano abbiamo iniziato da tempo a
muoverci in questa direzione. La Chiesa fa il buon Samaritano: accoglie, cura.
Ma si sta affrontando in profondità il problema? Non è più solo un’emergenza, è un fenomeno strutturale, e nei prossimi
30-40 anni diventerà imponente. Non sarà qualche commissione di tecnocrati
che a tavolino risolverà tutto. Potrà essere utile anche quella, ma c’è bisogno
di una visione politica che sappia valorizzare i dati dell’esperienza.
Preparando i “Dialoghi di vita buona” che faremo a Milano con varie voci della
società civile — rettori delle università, imprenditori, filosofi — una domanda
era ricorrente: “Siamo tutti davanti
all’evidenza che un’epoca sta finendo. E adesso?”. Stiamo entrando in una
fase in cui la discontinuità sarà un elemento ineludibile. Si incrociano
fattori dirompenti gravemente sconnessi tra di loro, dalle bioingegnerie
genetiche alle neuroscienze, alla civiltà delle reti, al meticciato, alla
mutazione antropologica, a un modo di valutare i comportamenti individuali e i
comportamenti sociali. E tuttavia non c’è mai il puro frammento. Questa inedita
discontinuità va governata riconoscendo la rottura, ma nello stesso tempo
cercando di cucire quel che può essere cucito. Altrimenti non riusciremo ad
andare oltre lo smarrimento della domanda: “E adesso cosa succede?”».
ALDO
CAZZULLO
CORRIERE
DELLA SERA
27 SETTEMBRE
2015
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