INTERVISTA A ETTORE GOTTI TEDESCHI
di Rino Cammilleri 10-05-2016 LANUOVABUSSOLA
Poco tempo fa il nostro ministro dell’istruzione, Stefania Giannini, ha
firmato un accordo col collega germanico, Johanna Wanka, al fine di cooperare
nel settore della formazione professionale. Il ministro italiano ha spiegato
che si tratta di un passo in direzione del modello economico tedesco.
In che cosa consiste questo modello che l’Italia farebbe bene a imitare?
Alle nostre domande risponde Ettore Gotti Tedeschi, economista, banchiere e
nostro collaboratore.
«Temo si tratti della conversione dei modelli educativi e professionali
caratteristici della cultura cattolica in quelli influenzati dalla cultura
protestante.
Quelli cattolici sono
fondati, e ancora si fondano, sul “capire il perché” delle cose.
Quelli di cultura protestante, americana
soprattutto, sul “capire come” realizzare in tempi brevi, competitivi, più
(secondo loro) efficienti.
I primi hanno alle spalle l’attitudine secolare a discernere prima di
agire. I secondi sono, per lo stesso motivo, più pragmatici. Tedeschi e
americani, in modo diverso per via della loro storia, hanno in comune questa
influenza culturale. Con una differenza significativa. L’americano vive la sua
libertà individuale molto di più del tedesco, il quale mostra maggior
propensione all’obbedienza disciplinata al capo riconosciuto… L’Italia farebbe
bene ad imitarne il modello per risolvere i suoi problemi? Ho dei dubbi. Ciò
che rende competitivo un sistema economico non è solo il modello educativo, ma
anche il contesto in cui tale modello viene applicato. Il nostro si fonda sul genio imprenditoriale nella piccola e media
impresa, su fantasia e creatività. Si dovrebbe riflettere con prudenza su
un modello diverso, concepito per grandi entità, dimensioni e struttura di
impresa».
Però, spiegando ai giornalisti, la Giannini ha detto che «dobbiamo tendere
sempre più verso un modello americano, in cui la flessibilità, che è sinonimo
di precariato, è la base di tutto il sistema economico». Ma allora,
modello tedesco o americano?
«É piuttosto un modello conseguente alla cultura protestante, diventato
fortemente competitivo negli Usa per vie delle innumerevoli «chiese» in
competizione per accaparrarsi fedeli e offerte. Il modello americano, imposto
progressivamente in tutto il mondo occidentale soprattutto dagli Anni ’60, si
fonda sul know how, diverso, come già detto, da quello (soprattutto
italiano) del know why. In quegli anni, preoccupato da tale
“invasione culturale”, J. J. Servan Schreiber (fondatore e primo direttore
dell’Express), scrisse un libro fondamentale (che influenzò De Gaulle): Le
défi américain («La sfida americana»). Un modello fondato sul “capire
come” rende più facili l’accesso al lavoro, l’apprendimento, la produttività
immediata dell’avventizio. Ma ne limita la capacita di domandarsi i “perché” . Il modello know how dà
buoni risultati in fasi economiche di crescita e sviluppo, ma molto meno in
fasi di crisi e di grandi cambiamenti, nei quali capire perché qualcosa deve
cambiare è fondamentale e conferisce un vantaggio su chi è, invece, abituato ai
modelli concepiti per “casi pratici” e appresi spesso in modo stereotipo. Il modello know how va,
sì, bene se si ha più bisogno di tecnici che di umanisti. Ma condiziona lo
sviluppo dei talenti e del genio umano. De Gaulle reagì rafforzando gli
organismi di studio e consulenza strategici, nei quali si badasse a pensare
prima di fare (fare, e magari sbagliare per poi correggere, ma spesso a costi
altissimi o troppo tardi). Gli attuali accordi mi sembrano “suggeriti” da parte
tedesca. Ascoltando la Prima Ministra teutonica quando si riferisce agli
italiani, si ha l’impressione che pensi a persone che tendono a “non
raccontarla mai giusta” … Invece, i casi Wolkswagen o Deutsche Bank, dicono
cosa diversa».
A noi cattolici interessa anche un altro aspetto del radioso futuro
prospettatoci dall’asse italo-tedesco: la famiglia. Dice la Giannini che «non
ci sarà più spazio per la famiglia come la intendiamo oggi». Infatti, il
precariato, pardon, «la flessibilità induce le persone a spostarsi
individualmente, il modello di famiglia a cui siamo abituati, che rappresenta
stabilità e certezze, non esisterà più». Ma la famiglia, è anche il luogo dei
figli. Meno famiglie, meno figli. Perciò, chi lavora?
«La distruzione della famiglia
tradizionale è coerente con il modello educativo auspicato. L’educazione
soggettiva e centrata su valori (il “sapere perché”) che solo la famiglia può
dare viene considerata come fonte di diseguaglianze, di conflitti, di
squilibri. Solo che così si realizza l’uomo-automa».
Ora, le due ministre sanno bene che i loro Paesi hanno il record mondiale
della denatalità. Ma la Wanka ha la ricetta giusta: i migranti. Insomma, la
vecchia storia che gli africani e i mediorientali ci pagheranno le pensioni è
sempre viva e vegeta, anzi. Tuttavia, il piano funzionerà se i nuovi arrivati
si faranno disciplinatamente istruire sui modi di lavoro&consumo
euro-americani e, magari, spenderanno qui anziché mandare i guadagni in altri
Continenti.
«Sul progetto “immigrazione forzata e politica” che stiamo vivendo ci sono
troppe cose da valutare e spiegare, impossibile farlo in poche parole. Dico
solo che una politica dell’immigrazione come quella che ci tocca subire
funziona soltanto se l’economia lo permette. Se gli immigrati devono riempire i
vuoti, si facciano bene i conti: in Italia avremmo bisogno di dieci milioni di
immigrati domani stesso, e probabilmente una cinquantina in Europa, ma la
soluzione dei problemi italiani ed europei non passa da questa strada. Ho il sospetto che in ballo ci sia
l’ostinazione nel voler cancellare le nostre radici cristiano-cattoliche».
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