di Costanza Miriano
Il senso di questo proliferare di
giornate mondiali per, contro, del, è di far palare di qualcosa di cui si tace,
far emergere un aspetto in ombra, ricordare una verità dimenticata. Il senso
della giornata contro la violenza sulle donne qual è? Esiste forse qualcuno al
mondo, in questo mondo occidentale in cui si celebra, che non la condanni? Che
la giustifichi? Esiste qualcuno che passando davanti al Campidoglio illuminato
di rosa venga alfine fulminato da una sorta di agnizione e decida di non essere
più violento?
Per me è evidente che l’obiettivo vero di questa martellante, iperbolica
campagna contro la violenza sulle donne – fenomeno non in aumento ma in
flessione – sia la messa all’indice dell’uomo, del maschio bianco, occidentale,
eterosessuale. Perché se è
sacrosanto e indiscutibile condannare senza appello la violenza (e magari agire
nelle sedi consone, prima di tutto quella penale, non sui social), se, forse, è necessario ampliare lo sguardo (c’è
un’altra Asia, che è donna anche lei, e che sta in carcere da sette anni perché
cristiana), allora forse sarebbe utile guardare alla vera condizione delle
donne da queste parti.
Alle donne che conosco io, per dire, a procurare la
vera sofferenza nella stragrande maggioranza dei casi non è stata una violenza
o un abuso. Se guardo alla mia storia e a quelle reali di cui so, l’unica vera
violenza che ho subito io, per esempio, è stata quella di dover lasciare i
figli a quattro mesi di età per non perdere il giro dei contratti da
precaria. E già io sono una privilegiata, perché era per fare la giornalista.
Ci sono milioni di donne nel mondo che invece che crescere i propri figli
devono per necessità stare otto ore al giorno alla cassa di un negozio, anche quando i bambini hanno disperato
bisogno di loro perché la legge non considera un diritto della donna obbedire
alla propria carne. E’ un diritto uccidere il figlio, non è un diritto
allattarlo: a tre mesi il bambino si nutre solo così, e costringere una donna a
lavorare – prendere o lasciare – vuol dire interrompere un processo naturale.
Anche questa è violenza sulle donne.
E’ violenta la
mentalità aggressivamente emancipatoria di cui è imbevuta l’industria
dell’intrattenimento, pensata affinché da quando vedi i cartoni a tre anni tu
venga convinta che devi liberarti di chissà quali retaggi, che i figli e
gli affetti sono un peso, e che prima devi affermarti nel mondo, poi casomai
pensare al resto. Le ragazze oggi la ciucciano col biberon questa mentalità.
Poi magari a 45 anni sono infelici perché per la maggior parte di loro la vita
non è stata una scelta consapevole, ma molto, molto condizionata.
E’ violenta la disapplicazione della 194, che dovrebbe
prevedere l’aborto come extrema ratio dopo che si è tentato in ogni modo di
salvare il bambino. È violento lasciare una donna sola col suo “problema”, e
non fare una cordata intorno a lei che le dica che salvare quella vita è la
cosa più importante che una comunità possa fare. E’ violenza sulle donne aver
tolto l’obbligo di prescrizione per la contraccezione di emergenza: così oggi
si vendono 600mila confezioni all’anno di pillole del giorno dopo, o dei tre
giorni, senza ricetta (ma per l’Aulin serve): è violenza lasciare le donne a
sbrigarsela da sole, senza assistenza, senza nessuno con cui parlare.
E’ violenza usare
l’indignazione contro la violenza per incentivare una mentalità che è contro la
profonda natura e quindi contro la felicità delle donne, che poi è esattamente
la stessa tecnica che si usa per silenziare i sostenitori dell’antropologia maschio
femmina accusandoli di bullismo omofobico.
IL FOGLIO 25 novembre 2017
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