La posizione polemica
è fatta propria dagli strati disagiati
della società contro il nuovo, contro la
modernità
Dalla
Spagna alla Polonia, dalla Svezia alla Germania all’Ungheria, la destra
antiliberale è in ascesa dappertutto in Europa.
Miete successi elettorali che mettono sempre più in difficoltà i partiti di
centro, partecipa al governo di regioni e Stati del continente, i suoi temi
tendono a dominare la discussione pubblica e, come accaduto l’altro giorno a
Varsavia, è in grado d’inscenare manifestazioni di piazza che raccolgono folle
imponenti.
Ma non si
tratta di un ritorno del fascismo. Del fascismo novecentesco, infatti, mancano
alla destra antiliberale di oggi due tratti essenziali — l’organizzazione paramilitare e l’impiego della violenza contro gli
avversari politici — senza i quali il fascismo stesso non sarebbe mai
giunto al potere negli anni ’20-‘30 del secolo corso. Infatti, anche laddove
come nella Germania di Weimar la sua conquista del potere ebbe come premessa
una serie di notevoli successi elettorali, tali successi, però, furono
consentiti per una parte decisiva da un attacco fisico, spesso a mano armata,
portato preliminarmente contro comizi, partiti, associazioni, giornali,
sindacati avversari.
Nulla di
tutto ciò accade oggi. Oggi la destra antiliberale gioca le sue fortune sul
terreno elettorale, e la violenza, quando c’è, è opera di gruppuscoli tutto
sommato insignificanti. Oggi l’obiettivo
non è quello di intimidire e ridurre al silenzio gli avversari, è quello di
vincere democraticamente le elezioni. Il che è possibile grazie a due
fattori nuovi presenti sulla scena europea. Innanzi tutto, per la prima volta
dal 1945 è presente nel continente una grande potenza reazionaria che si pone
come punto di riferimento per tutta la destra antiliberale. È la Russia di
Putin, la quale non nasconde i propri disegni egemonici a spese del resto
d’Europa e che è verosimilmente disposta a impiegare a tal fine tutti i potenti
strumenti d’influenza di cui dispone, dalla violenza occulta, ai fiumi di
denaro, all’hackeraggio elettronico. Con lo scopo, per l’appunto, di indebolire
lo schieramento democratico e di affermare il proprio predominio in Europa: in
ciò favorita dal contemporaneo ritiro suicida dal continente degli Stati Uniti,
che fino a qualche tempo fa costituivano invece il punto di riferimento dello
schieramento democratico.
Ma il
fattore cruciale dell’ascesa della destra antiliberale è il nazionalismo. È il nazionalismo, non il fascismo, il suo vero orizzonte. È il
nazionalismo il «punto di raccolta dell’ira» – per usare l’espressione che fa
da leitmotiv dell’importante libro di Peter Sloterdijk «Ira e tempo» appena
uscito da Marsilio – con cui la destra anima la sua propaganda e la sua
influenza nell’opinione pubblica. È un nazionalismo, tuttavia, che ha perso
completamente il carattere centrale che fu suo nella storia del Novecento, e
che consistette essenzialmente nell’espansionismo, nella competizione
aggressiva sul terreno della politica estera.
È un nazionalismo nuovo, per così dire: tutto introflesso e difensivo quanto l’altro, invece, era
estroflesso e offensivo. Oggi la nazione, insomma, non è più il luogo dove
«armare la prora e salpare verso il mondo». È un rifugio dal mondo. La sua
invocata sovranità un’arma di difesa, una protezione. E proprio per questo la nazione è un valore sempre più sentito e
apprezzato specialmente da chi di protezione ha costituzionalmente bisogno,
cioè dalle classi popolari, in genere dai settori più sfavoriti della
popolazione, inclusi all’occasione anche settori impoveriti del ceto medio.
Oggi la
nazione è invocata come un rifugio dalle novità che sottratte a ogni nostro controllo e contro ogni nostra volontà fioriscono e impazzano nel mondo «là fuori»,
finendoci poi rovinosamente addosso.
Novità economiche, innanzi tutto. Un rifugio quindi principalmente dagli effetti negativi della
globalizzazione: dalla chiusura incomprensibile di fabbriche che ancora ieri
sembravano andare bene; dal brutale ridimensionamento dell’organico
impiegatizio per l’arrivo dei computer; un rifugio dall’improvviso venir meno,
deciso in una lontana capitale europea, di quella spesa pubblica che poteva
permettere a un Comune di aggiustare una scuola o di assumere qualcuno; una
difesa dal passaggio in mani straniere di aziende che erano tutt’uno con i
luoghi e ora invece si trovano a dipendere da chi di quei luoghi fino a ieri
non conosceva neppure il nome.
Ma il
nazionalismo odierno serve soprattutto come un rifugio culturale. Serviva a questo anche un tempo, ma mai nella misura attuale, così
radicale e coinvolgente sul piano emotivo. Il che accade perché radicale e
capillare è stato il mutamento intervenuto nei modi di vivere e di sentire
delle società occidentali negli ultimi decenni. In pratica si è dissolto quasi
del tutto un modello culturale che per più aspetti durava da secoli. Proprio
ciò ha prodotto e sta producendo nel corpo sociale una frattura assai più
profonda di quanto si creda. La frattura
tra una parte, dotata di maggiori risorse, in stretto rapporto con la
modernità e i suoi linguaggi, orientata al nuovo, familiare con la più ampia
diversità degli stili di vita, impregnata di individualismo permissivo,
insofferente di ogni vincolo, passabilmente anglofona, insomma psicologicamente
e culturalmente cittadina del mondo; e
un’altra parte, invece, perlopiù dotata di assai minori risorse, maggiormente legata a una dimensione comunitaria,
a un modo di pensare tradizionale e a un rapporto con il passato; ancora
convinta – pur se tutt’altro che osservante – della propria identità cristiana,
della bontà delle regole da sempre a presidio della riproduzione e dei rapporti
tra i sessi e tra le generazioni, aderente al significato tramandato della
gerarchia e dei ruoli sociali.
È per
l’appunto questa parte della società orientata culturalmente al passato la quale, di fronte alla perdita di presentabilità sociale che
colpisce il suo modo di pensare, di fronte alla critica sovente sommaria quando
non duramente censoria a cui questo viene sottoposto specie dai media, di
fronte alla scomparsa pressoché dovunque del cattolicesimo politico che in
qualche modo rappresentava in precedenza i suoi valori, ha cominciato da tempo a vedere nella nazione, nell’ovvia radice antica
dell’identità nazionale, un utile scudo protettivo contro una modernità
percepita come qualcosa di ostile e distruttivo che giunge da «fuori».
Il
cuore del nazionalismo attuale, insomma, è costituito in tutti i sensi da una posizione polemica,
perlopiù fatta propria dagli strati disagiati della società, contro il nuovo,
contro la modernità.
E allora si
capisce la radice della difficoltà che ha la sinistra a farci i conti. Dimentica
del Manifesto di Marx ed Engels, la sinistra, infatti, nel corso della sua
lunga vicenda si è sempre più andata rafforzando nell’idea che a opporsi al
nuovo, al cammino della storia (sempre infallibilmente positivo) non potessero
essere che i grandi interessi, le classi dominanti, conservatrici per
definizione, mai le classi inferiori. E che quindi il proprio posto non potesse
che essere sempre dall’altra parte, a favore di ogni innovazione, comunque
nelle schiere della modernità. Un calcolo sbagliato che rischia di esserle
fatale.
Corriere della sera
14 novembre
2019
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