30 ANNI FA TORNAVA ALLA CASA DEL
PADRE
IL FILOSOFO AUGUSTO DEL NOCE:
L'ANTIFASCISMO
DI COMODO
INTERVENTO DI AUGUSTO DEL NOCE NELLA POLEMICA SU FASCISMO E ANTIFASCISMO
(suscitata nel 1987 dall' "INTERVISTA SUL FASCISMO"dello
storico Renzo De Felice)
La tesi di De Felice secondo cui è privo di senso pensare la situazione di oggi in termini di antagonismo tra antifascismo e fascismo ha suscitato reazioni che mi riesce difficile spiegare.
Quel che emerge è il contrasto tra due interpretazioni del fascismo; una sorta nel periodo della lotta e ben comprensibile in relazione a quel clima, ma che oggi dovrebbe essere diventata oggetto di storia, mentre invece ancora tiene il campo nella cultura ancor più che nella politica, non tanto intermini di affermazione diretta quanto nelle valutazioni che ne dipendono; l'altra per cui si tratta di render conto di un passato.
Secondo la prima ci sarebbe identità di natura tra tutti i fenomeni autoritari di destraS; il carattere che li unirebbe sarebbe un particolare tipo di violenza, quella repressiva, che sarebbe da distinguere dalla violenza rivoluzionaria, invece giustificabile come necessità, anche se può trascorrere in eccessi e colpire innocenti. Tale violenza repressiva porterebbe a identificare il fascismo con la forma che assume la reazione nel nostro secolo; i ceti che si trovano oltrepassati dal processo di modernizzazione sempre più accelerato della storia di questo secolo si raccoglierebbero in «fasci» e affiderebbero la loro guida ad avventurieri capaci di sollecitare le tendenze più basse delle masse.
Alla violenza repressiva questi movimenti sarebbero condannati dalla loro assenza di cultura («dove c'è fascismo non c'è cultura, dove c'è cultura non c'è fascismo», si è detto), dalla incapacità dunque di discussione e di dialogo. Manca loro anche quel tanto di positività culturale che sussisteva nei reazionari dell'epoca della restaurazione. Sarebbe dunque una violenza che nasce dalla barbarie intellettuale; in ragione di questa barbarie troverebbe giustificazione, almeno in linea di principio, la norma costituzionale del partito fascista. Questi movimenti si diversificherebbero in relazione alle tradizioni dei vari Paesi; ma il loro logico esito finale sarebbe il nazismo e i suoi campi di sterminio.
Ora la ricerca storica (non solo quella di De Felice, che è il maggiore storico del fascismo, ma quella di molti autorevoli studiosi del ventennio tra le due guerre), ricerca per nulla influenzata da pregiudizi favorevoli del fascismo, o anzi orientata a raggiungere una sua condanna razionale e non emotiva, ha portato a risultati che divergono da questo modo di vedere. Così, rispetto alla natura comune di fascismi, e limitiamoci al rapporto tra fascismo e nazismo, considerati oggi dalla maggior parte degli studiosi fenomeni affatto eterogenei, e questo per la diversa posizione che essi assumono rispetto al comunismo.
Secondo la giusta frase di Ernst Jünger il nazismo è «una rivoluzione contro la rivoluzione», espressione che si può intendere come designante una rivoluzione totalmente subalterna, nell'opposizione, al suo avversario comunista; una sorta di decalco naturalistico per cui alla classe sostituisce la razza. Si sarebbe portati a dire che il nazismo incarna quella «rivoluzione in senso contrario» che De Maistre additava ai controrivoluzionari della sua epoca come l'esempio che doveva essere assolutamente evitato. Invece il fascismo voleva presentarsi come la vera rivoluzione del nostro secolo, ulteriore alla marx-leninista, perché adeguata a Paesi per cultura e per civiltà più maturi della Russia.
La sua storia è certo storia di un fallimento, ma ciò non toglie che in esso non siano implicati i più alti vertici della cultura dei due decenni del nostro secolo. «Errore della cultura», come diceva Giacomo Noventa, non «errore contro la cultura».
Che qualche espressione di De Felice (p. es.: «grottesche norme») sia stata forse troppo a punta, non ho difficoltà ad ammetterlo. Ma mi chiedo quale controproposta i suoi critici possano avanzare. Forse stabilire come assioma fondamentale, principio della Costituzione, quella tale interpretazione del fascismo come pura barbarie? Ho troppo rispetto per pensarlo ma non mi riesce di vederne altra.
La tesi di De Felice secondo cui è privo di senso pensare la situazione di oggi in termini di antagonismo tra antifascismo e fascismo ha suscitato reazioni che mi riesce difficile spiegare.
Quel che emerge è il contrasto tra due interpretazioni del fascismo; una sorta nel periodo della lotta e ben comprensibile in relazione a quel clima, ma che oggi dovrebbe essere diventata oggetto di storia, mentre invece ancora tiene il campo nella cultura ancor più che nella politica, non tanto intermini di affermazione diretta quanto nelle valutazioni che ne dipendono; l'altra per cui si tratta di render conto di un passato.
Secondo la prima ci sarebbe identità di natura tra tutti i fenomeni autoritari di destraS; il carattere che li unirebbe sarebbe un particolare tipo di violenza, quella repressiva, che sarebbe da distinguere dalla violenza rivoluzionaria, invece giustificabile come necessità, anche se può trascorrere in eccessi e colpire innocenti. Tale violenza repressiva porterebbe a identificare il fascismo con la forma che assume la reazione nel nostro secolo; i ceti che si trovano oltrepassati dal processo di modernizzazione sempre più accelerato della storia di questo secolo si raccoglierebbero in «fasci» e affiderebbero la loro guida ad avventurieri capaci di sollecitare le tendenze più basse delle masse.
Alla violenza repressiva questi movimenti sarebbero condannati dalla loro assenza di cultura («dove c'è fascismo non c'è cultura, dove c'è cultura non c'è fascismo», si è detto), dalla incapacità dunque di discussione e di dialogo. Manca loro anche quel tanto di positività culturale che sussisteva nei reazionari dell'epoca della restaurazione. Sarebbe dunque una violenza che nasce dalla barbarie intellettuale; in ragione di questa barbarie troverebbe giustificazione, almeno in linea di principio, la norma costituzionale del partito fascista. Questi movimenti si diversificherebbero in relazione alle tradizioni dei vari Paesi; ma il loro logico esito finale sarebbe il nazismo e i suoi campi di sterminio.
Ora la ricerca storica (non solo quella di De Felice, che è il maggiore storico del fascismo, ma quella di molti autorevoli studiosi del ventennio tra le due guerre), ricerca per nulla influenzata da pregiudizi favorevoli del fascismo, o anzi orientata a raggiungere una sua condanna razionale e non emotiva, ha portato a risultati che divergono da questo modo di vedere. Così, rispetto alla natura comune di fascismi, e limitiamoci al rapporto tra fascismo e nazismo, considerati oggi dalla maggior parte degli studiosi fenomeni affatto eterogenei, e questo per la diversa posizione che essi assumono rispetto al comunismo.
Secondo la giusta frase di Ernst Jünger il nazismo è «una rivoluzione contro la rivoluzione», espressione che si può intendere come designante una rivoluzione totalmente subalterna, nell'opposizione, al suo avversario comunista; una sorta di decalco naturalistico per cui alla classe sostituisce la razza. Si sarebbe portati a dire che il nazismo incarna quella «rivoluzione in senso contrario» che De Maistre additava ai controrivoluzionari della sua epoca come l'esempio che doveva essere assolutamente evitato. Invece il fascismo voleva presentarsi come la vera rivoluzione del nostro secolo, ulteriore alla marx-leninista, perché adeguata a Paesi per cultura e per civiltà più maturi della Russia.
La sua storia è certo storia di un fallimento, ma ciò non toglie che in esso non siano implicati i più alti vertici della cultura dei due decenni del nostro secolo. «Errore della cultura», come diceva Giacomo Noventa, non «errore contro la cultura».
Che qualche espressione di De Felice (p. es.: «grottesche norme») sia stata forse troppo a punta, non ho difficoltà ad ammetterlo. Ma mi chiedo quale controproposta i suoi critici possano avanzare. Forse stabilire come assioma fondamentale, principio della Costituzione, quella tale interpretazione del fascismo come pura barbarie? Ho troppo rispetto per pensarlo ma non mi riesce di vederne altra.
Pericoli per la libertà, e ancor più direi per la «vita
buona» (uso questo termine nel senso in cui ne parlava quel finissimo spirito
che fu Felice Balbo, differenziandola dal «benessere»), ce ne sono in questo
scorcio di secolo ed estremamente gravi; ma non hanno origine nel fascismo, non
fosse altro perché gli strumenti di oppressione di cui esso si serviva erano,
rispetto a quelli che la tecnica di oggi può offrire, infantili.
O che vogliano
vedere in esso, e di più nel fascismo italiano, quel «male assoluto», che
purtroppo nella storia non si dà; dico purtroppo, perché in tale caso sarebbe
relativamente agevole decapitarlo, e farla finita con lui per sempre.
tratto
da: Corriere della Sera, 31.12.1987
(poi in Litterae Communionis, febbraio
1988, p. 51).