Caravaggio,
"Adorazione dei
pastori" (particolare), 1609.
Museo Regionale di Messina
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La
lettera del Presidente della Fraternità di CL sul "Corriere della
Sera" del 24 dicembre
«Dio sceglie proprio questa situazione umana per sfidare la cultura dello
scarto con la novità di uno sguardo che esalta il valore infinito di ogni
singolo uomo». La lettera del Presidente della Fraternità di CL sul
"Corriere della Sera" del 24 dicembreJulián Carrón24.12.2019Caro
Direttore, fallimento, insuccesso, sconfitta dei propri tentativi. Non riuscita
nella vita. Quante volte è questo il criterio con cui una persona è guardata (a
livello professionale, esistenziale, affettivo). E quante volte questo diventa
lo sguardo con cui essa guarda se stessa. L’esito è quella vergogna di
sé, dietro cui si nascondono situazioni umane fatte di ferite, lacerazioni,
dolori, che ciascuno cova nell’intimo come un disagio che a volte esplode a
livello personale e sociale.
Se uno non riesce, se non è all’altezza degli standard dominanti, che impongono la riuscita come criterio del vivere, allora è da scartare. È quello che il Papa (lo ha fatto anche di recente parlando dei disabili e dei carcerati) chiama «cultura dello scarto». Purtroppo questa cultura stravince ˗ fino a diventare mentalità comune ˗ non solo fuori, ma anche dentro di noi.
Se uno non riesce, se non è all’altezza degli standard dominanti, che impongono la riuscita come criterio del vivere, allora è da scartare. È quello che il Papa (lo ha fatto anche di recente parlando dei disabili e dei carcerati) chiama «cultura dello scarto». Purtroppo questa cultura stravince ˗ fino a diventare mentalità comune ˗ non solo fuori, ma anche dentro di noi.
In mezzo a tutto questo scarto,
resta qualcosa? Sì, rimane questa nostra umanità ferita, irrequieta,
confusa: rimane e grida l’attesa di qualcosa che ci liberi da una
situazione che sembra senza via d’uscita. Dio sceglie proprio questa
situazione umana, che nessun tentativo sembra in grado di cambiare, per sfidare
la cultura dello scarto con la novità di uno sguardo che esalta il valore
infinito di ogni singolo uomo.
Davanti ai nostri fallimenti valgono anche oggi le parole del profeta
Isaia: «Esulta, o sterile» (Is 54,1), cioè tu e io, che non riusciamo mai a
raggiungere gli standard. «Non temere, perché non dovrai più arrossire; non
vergognarti, perché non sarai più disonorata» (Is 54,4). Ecco la sfida
che Dio lancia al nostro modo così accanito di guardarci secondo la
nostra misura o quella degli altri. Dio non ha vergogna di noi, della nostra
fragilità, delle nostre ferite, del nostro essere sballottati da tutte le
parti, di quel nichilismo che Galimberti descriveva sul Corriere della
Sera come «vuoto di senso» (15 settembre 2019).
Dio non ha vergogna di noi, della
nostra fragilità, delle nostre ferite, del nostro essere sballottati da tutte
le parti.
Ma come Dio lancia la sua sfida? Qual
è il gesto più potente che Egli compie nei nostri confronti? Non ci
offre una parola consolatoria, ma accade nella nostra vita. Per farci
capire quanto valiamo, il Verbo ˗ Dio, il significato, l’origine e il
destino del nostro vivere ˗ si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14).
Niente è più convincente di questo: il Signore del cielo e della terra assume
la nostra umanità. Facendosi carne, e restando presente attraverso la carne,
l’umanità reale di persone concrete, può abbracciare ogni situazione umana,
entrare in ogni disagio, in ogni ferita, in ogni attesa del cuore. Può
far riecheggiare oggi, come parole vive, quelle parole pronunciate per la prima
volta duemila anni fa e che danno l’esatta misura della grandezza di
ognuno di noi: «Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo
intero, e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?»
(Mt 16,26). Il nostro io vale più dell’universo! Don Giussani
commentava in questo modo le domande di Gesù: «Nessuna donna ha mai sentito
un’altra voce parlare di suo figlio con una tale originale tenerezza e una
indiscutibile valorizzazione del frutto del suo seno, con affermazione
totalmente positiva del suo destino; è solo la voce dell’Ebreo Gesù di Nazareth.
Ma più ancora, nessun uomo può sentire se stesso affermato con dignità di
valore assoluto, al di là di ogni sua riuscita. Nessuno al mondo ha mai potuto
parlare così!» (Generare tracce nella storia del mondo, pp. 7˗8).
Quando questo sguardo valorizzatore dell’uomo entra nella vita di una
persona, stupisce fino a lasciare senza parole, inaugura uno sguardo su se
stessi che non sarebbe altrimenti possibile. Come mi è capitato di constatare
nei giorni scorsi ricevendo la lettera di una giovane amica: «Più cammino sotto
questo sguardo, più mi diventano care anche tutte le ferite che ho, le mie
piccolezze, i miei dolori, le cose che di me non comprendo, le paure, le
meschinità, i peccati. Io so che esse sono la sola possibilità per intercettare
il Signore che passa, perché mi rendono disarmata, bisognosa, piccola. Mi
stupisco del fatto di non voler censurare più nulla di me, anzi, ostinatamente
voglio guardare tutto fino in fondo. La mia umanità mi è cara solo perché è
abbracciata così dal Signore che viene».
Mi viene in mente una pagina
indimenticabile di questo incontro con Cristo presente attraverso
l’umanità cambiata di un suo testimone. «Appena introdotto l’innominato,
Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia
aperte, come a una persona desiderata; […] “da tanto tempo, tante volte, avrei
dovuto venir da voi io”. “Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il
mio nome?”. […] “Lasciate”, disse Federigo, prendendola con amorevole violenza,
“lasciate ch’io stringa codesta mano”. […] Così dicendo, stese le braccia al
collo dell’Innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un
momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il
cardinale. […] L’Innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, […] esclamò:
“Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi
sono”» (I promessi sposi). Il punto veramente interessante è che
l’esperienza dell’Innominato che Manzoni descrive è alla portata di
tutti, la vediamo riaccadere in persone come quella giovane amica.
Il punto veramente interessante è
che l’esperienza dell’Innominato che Manzoni descrive è alla portata di tutti,
la vediamo riaccadere
È questa la «buona notizia» che ci porta
il Natale. Non solo delle parole buone, ma l’incontro con una realtà
umana, carnale, che sfida il nulla che avanza e consente di guardare
tutto se stessi ˗ così come si è
˗ senza
vergogna, perché Gesù di Nazareth non si è vergognato di entrare nella nostra
carne diventando uomo. Il Natale è quel bambino in fasce che ci dice: «Perché
non ti guardi come io ti guardo, come io guardo la tua umanità? Non ti accorgi
che sono diventato bambino proprio per mostrarti tutta la preferenza che io ho
per te?».
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