LEONARDO LUGARESI |
Qua nel belpaese fino all'altro giorno ci si baloccava con il “virus del
razzismo”, il “contagio della paura” ed altre acutezze del genere.
Il fatto è che ci siamo sin troppo abituati a vivere di metafore. Ciò che
conta, si sostiene, sono le rappresentazioni, anzi le narrazioni, e
così un po' tutti oramai fanno i poeti: comunichiamo “per immagini”, evochiamo
suggestioni, più che enucleare concetti; cerchiamo di emozionare più che di
argomentare, coltivando la polisemia delle espressioni a scapito della
chiarezza, ed evitando con disprezzo la precisione del linguaggio bollata come
segno di aridità e rigidezza. Definire pare brutto, chiarire inopportuno: non
solo nella comunicazione politica ma anche in quella ecclesiale, oggigiorno si
preferisce spesso la vaghezza di “parole alate” che non è educato chiedersi che
cosa di preciso vogliano dire, alla semplicità di un linguaggio che chiama le
cose col loro nome.
Ecco, il Sars-CoV-2 non è una metafora. Non è un “virus” come quello del
computer, non è un “virus” come quello del razzismo. È un virus.
Vittorio Alfieri (che Dio lo perdoni) sosteneva che «dire altamente alte
cose è un farle in gran parte». Molti oggigiorno ne paiono convinti. Ammesso e
non concesso che le cose che dicono siano effettivamente alte e che le dicano
altamente, bisogna avvertirli che quella di Alfieri era una cazzata.
Bisogna che le parole siano giuste, cioè bisogna aver cura del loro
rapporto con la realtà che denominano, e bisogna che alle giuste parole corrispondano
delle azioni conseguenti.
Quello che è cominciato per tutti noi è, forse, un (doloroso) bagno di
realtà.
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