Qua nel belpaese fino all'altro giorno ci si baloccava con il “virus del razzismo”, il “contagio della paura” ed altre acutezze del genere.
Il fatto è che ci siamo sin troppo abituati a vivere di metafore. Ciò che conta, si sostiene, sono le rappresentazioni, anzi le narrazioni, e così un po' tutti oramai fanno i poeti: comunichiamo “per immagini”, evochiamo suggestioni, più che enucleare concetti; cerchiamo di emozionare più che di argomentare, coltivando la polisemia delle espressioni a scapito della chiarezza, ed evitando con disprezzo la precisione del linguaggio bollata come segno di aridità e rigidezza. Definire pare brutto, chiarire inopportuno: non solo nella comunicazione politica ma anche in quella ecclesiale, oggigiorno si preferisce spesso la vaghezza di “parole alate” che non è educato chiedersi che cosa di preciso vogliano dire, alla semplicità di un linguaggio che chiama le cose col loro nome.
Ecco, il Sars-CoV-2 non è una metafora. Non è un “virus” come quello del computer, non è un “virus” come quello del razzismo. È un virus.
Vittorio Alfieri (che Dio lo perdoni) sosteneva che «dire altamente alte cose è un farle in gran parte». Molti oggigiorno ne paiono convinti. Ammesso e non concesso che le cose che dicono siano effettivamente alte e che le dicano altamente, bisogna avvertirli che quella di Alfieri era una cazzata.
Bisogna che le parole siano giuste, cioè bisogna aver cura del loro rapporto con la realtà che denominano, e bisogna che alle giuste parole corrispondano delle azioni conseguenti.
Quello che è cominciato per tutti noi è, forse, un (doloroso) bagno di realtà.