Kobe Bryant aveva un difetto: tifava Milan. Per me,
interista, un peccato grave. Ma, tutto sommato, gliel’avevo perdonato. D’altra
parte, quando uno gioca a basket così bene, come si fa a non perdonargli tutto?
Il tifo per il Milan era uno dei retaggi della sua
italianità. Siccome il papà di Kobe, Joe, giocò diversi anni da noi, in serie
A2 e A1, Kobe, al seguito della famiglia, visse in Italia dal 1984 al 1991,
cioè dai sei a tredici anni, e proprio qui imparò benissimo l’italiano e anche
a diventare un vero giocatore di pallacanestro, come lui stesso raccontava.
Siccome era molto alto, spiegava, in America lo avrebbero messo sotto canestro,
per giocare da “lungo”; qui invece gli fecero fare un po’ di tutto, anche il
playmaker, e fu così che acquisì una formidabile visione di gioco, che in campo
gli permetteva di intuire in anticipo come si sarebbe sviluppata l’azione.
Ricordo di aver visto giocare papà Joe nelle squadre
di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Non era niente male. E poi
si portava appresso quel bimbetto che, nell’intervallo, suscitava gli applausi
del pubblico mettendosi a palleggiare e a tirare a canestro.
Famiglia cattolica, quella dei Bryant, come Kobe non
ha mai nascosto. E matrimonio cattolico quello di Kobe con Vanessa, nella
chiesa di St. Edward a Dana Point, California del Sud, nel 2001.
Una storia d’amore che però, a un certo punto, sembra
naufragare. Nel 2003 per Kobe arriva la terribile accusa di aver stuprato una
donna nel Colorado, dove il giocatore si trovava per farsi curare un ginocchio.
Kobe ammette il rapporto sessuale, ma nega lo stupro. Sono momenti drammatici.
Tutto sembra crollare. Gli sponsor abbandonano Kobe, ma soprattutto è la
famiglia a rischiare di andare in pezzi.
È allora che Kobe incontra un bravo prete. Incontro
provvidenziale, come racconterà più volte. Il sacerdote gli raccomanda di mettersi
nelle mani del Signore. Se Dio ti mette alla prova, ti dà anche la forza di
superarla.
Kobe si scusa pubblicamente e ammette l’infedeltà. Poi
l’accusa di stupro cade. Ma la tenuta della famiglia è a forte rischio. Nel
2011, forse a causa dello stress, Vanessa perde il bambino che sta aspettando.
La crisi sembra irreparabile, c’è la separazione, si arriva sull’orlo del
divorzio. Tuttavia la fede e la voglia di ricominciare sono più forti. E la
frattura è ricomposta.
Dal matrimonio nascono quattro figlie: Natalia
Diamante, Gianna Maria, Bianka Bella e Capri Kobe, nata nel giugno dell’anno
scorso.
Gianna Maria, tredici anni, detta GiGi, morta con papà
con Kobe sull’elicottero precipitato, era già una promessa del basket e sognava
di giocare un giorno per l’Università del Connecticut.
Due delle bambine, Bianka e Capri, sono nate dopo la
crisi familiare. E in occasione dell’ultima festa della mamma Kobe volle
ringraziare così Vanessa: “Ti vogliamo bene e ti ringraziamo per tutto quello
che fai per la nostra famiglia. Tu sei il fondamento di tutto. Ti amo, regina”.
Quanto ha contato la fede cattolica per Kobe?
Tantissimo. Kobe e Vanessa non hanno mai smesso di frequentare la parrocchia a
Orange County, in California. E Kobe diceva: “Sono cattolico, sono cresciuto
come cattolico, i miei figli sono cattolici. Durante il processo, l’unica cosa
che mi ha aiutato davvero è stato parlare con quel sacerdote”.
Dopo la riconciliazione, Kobe e la moglie fondarono la
Kobe and Vanessa Bryant Family Foundation (KVBFF), che assiste i senzatetto e
aiuta giovani in difficoltà, soprattutto attraverso la pratica sportiva.
Negli ultimi anni di attività il campione spiegava:
“La mia carriera sta rallentando. Alla fine non voglio guardare indietro e dire
solo: ‘Beh, ho avuto una carriera di successo perché ho vinto tanti campionati
e segnato tanti punti’. C’è qualcos’altro da fare”. Pensando alle persone senza
casa, diceva: “Nella vita, tutti commettiamo degli errori, e rimanere indietro
e permettere a qualcuno di vivere in quel modo lavandosene le mani non è
giusto”.
Nella sua ultima partita, il 13 aprile 2016, Kobe,
all’età di trentasette anni, segnò la bellezza di sessanta punti per i suoi Los
Angeles Lakers contro gli Utah Jazz. Qualcosa di stratosferico, la ciliegina su
una torta fatta di record: cinque volte campione NBA (National Basketball
Association, la principale lega professionistica di basket negli Usa), due
volte campione olimpico, diciotto volte membro della squadra All Star, terzo
miglior realizzatore nella storia dell’NBA.
Record che tuttavia appaiono ben poca cosa rispetto
alla partita giocata in famiglia e vinta grazie alla forza della fede,
dell’amore e del perdono.
“Non dirò che il nostro matrimonio è perfetto”,
dichiarò Kobe in un’intervista del 2015. “Combattiamo ancora, come ogni coppia
di sposi. Ma sai, la mia reputazione di atleta è che sono estremamente
determinato e che lavorerò sodo. Come potrei farlo nella mia vita professionale
se non fosse così nella mia vita personale, quando ciò colpisce le mie figlie? Non
avrebbe alcun senso”.
Aldo Maria Valli
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