Intervista Di Sergio Quinzio
La Stampa 20 settembre 1989
Ho incontrato don Luigi Giussani — il fondatore, vent'anni fa, di Comunione e Liberazione — nel suo modesto appartamento alla periferìa Sud di Milano. Si avverte subito, avvicinando per la prima volta quest'uomo più vicino ormai ai settanta che ai sessant'anni, un'intensa sensibilità, che si manifesta da principioin una specie di timidezza, di disagio di fronte all'interlocutore,di dichiarato timore di non esprimersi adeguatamente.
Per questo non dà volentieri
interviste. Ma se il colloquio vuol essere anzitutto un confronto rispettoso e
sincero tra le posizioni diverse di chi condivide la stessa fede, don Giussani
si apre a una calorosa e spontanea comunicazione.
Allora trova subito il tono con
il quale parla — non solo in Italia ormai, ma in diversi Paesi del mondo — ai
«suoi» giovani e ai meno
giovani che da tanti anni lo seguono con entusiasmo
come una guida indiscussa. I suoi convincimenti sono
forti, netti, precisi, e vengono partecipati con un carisma che è quello della serena e commossa certezza
inferiore, e di una contagiosa «passione per
l'uomo». Quella passione che lo portò già
negli anni Sessanta, quand'era professore al liceo Berchet
di Milano, a sentire e a patire la condizione d'incertezza, di solitudine, di vuoto di molti giovani.
Don Giussani, so di due studentesse della Cattolica, e le faccio i nomi, che fra il 1958 e il 1960 aderivano al primo movimento da lei promosso: GS, «Gioventù Studentesca». Vivevano la loro fede con ammirevole impegno e con grande dedizione per il prossimo. Mi colpiva soprattutto il ruolo che aveva per loro il «gruppo»: pregavano insieme, andavano in gita insieme, facevano tutto insieme. Ho ritrovato una delle due giovani, L.L., a Milano, una decina d'anni fa. Sposata, con due figli, faceva la psicologa. La sua dedizione al prossimo, presso un centro d'assistenza, era immutata: ma aveva totalmente cancellato il cristianesimo, ostentava anzi il senso di liberazione con il quale aveva finalmente abbandonato quella che adesso considerava un'infantile infatuazione. Anche la morale tradizionale era stata abbandonata, tutto; per lei, si giocava ormai sull'avvento della scienza. Questa conversione alla rovescia è soltanto un caso?
La mia tematica è educativa e pastorale, nasce dall'esperienza fatta in mezzo ai giovani. Trovo una corrispondenza stretta fra le motivazioni che animano la nostra azione e le tesi di un libro di MacIntyre, Dopo la virtù, dove si sostiene che la nostra situazione storica corrisponde a quella del declino dell'impero romano: ora come allora, ciò che conta è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. Difendo perciò un aggregarsi che, esprimendo e cercando di soddisfare le esigenze umane, cerchi le ragioni che rendono, o possono rendere, fondate e stabili l'amicizia e la convivenza umana con chiunque. Ma, come in ogni scalata, c'è sempre chi, non seguendo la guida, può perdere la strada.
Se devo stare a quanto mi dicono alcuni amici, anche oggi non è irrilevante il fenomeno di militanti «ciellini» che, dopo alcuni anni, lasciano CL e, per esempio, aderiscono alle ACLI. La mia, e non soltanto mia, impressione è che ciò accada perché non pochi giovani, assumendo responsabilità familiari e professionali, finiscono per non trovare più una motivazione sufficiente nel caldo senso di identificazione con il gruppo che li aveva aiutati negli anni precedenti. E come se, divenuta impraticabile la piena «comunione» di vita emergesse una inadeguatezza nella formazione personale, il mancato conseguimento di una autentica «liberazione».
Non si tratta di questo. A parte il fatto che CL è in crescita in Italia e nel mondo, la parola che sento di dover utilizzare di più è «ragione», secondo l'insegnamento dell'apostolo Pietro, che in una sua lettera c'invita a rendere ragione della speranza che è in noi. Io seguo Cristo perché trovo lì la risposta alla domanda costitutiva del mio io, la quale è una stessa cosa con la «ragione», o «coscienza», o anche, biblicamente, con il «cuore». È questo il luogo in cui la natura, nell'uomo, prende coscienza della realtà nella totalità dei suoi fattori. Ma poiché la conoscenza esauriente è impossibile all'interno della comune esperienza umana, è la natura stessa che mi costringe, per essere coerente con se stessa, ad aprirmi all'Altro, all'Assoluto, al Mistero, alla Totalità. E nel dono del Dio che si è fatto carne scopro così la bellezza, la certezza, la bontà, l'amore, la fecondità della vita.
Lei parla di «ragione» in termini lontani
dalla consapevolezza contemporanea
della molteplicità, e persino contraddittorietà,
dette sue forme, dette sue diverse figure. A una «ragione strumentale» che è quella che anima il progresso della
tecnica si contrappone per esempio la «ragione
critica», quella che la scuola di
Francoforte ha chiamato «ragione negativa».
Tutto quello che l'uomo è spinto a ricercare e quindi ad affermare è espressione di un'esigenza di totalità. Tutto bene, purché non ci si arresti, purché non si blocchi cinicamente la categoria della possibilità. La natura umana, per essere coerente, deve riconoscere che il mistero c'è, ma non sa dove sia, e dunque dove cercarlo. Nella realtà ci sono segni che alludono, che incitano a questo.
L'attuale presidente delle ACLI, Giovanni Bianchi, ha più volte pubblicamente dichiarato che la sua coscienza di credente è lacerata fra il dovere, il bisogno, della lineare coerenza cristiana e i «compromessi» inseparabili dal suo ruolo di responsabile di un'associazione che ha rilevanza sociale e politica. È un'esperienza che lei condivide?
No, Bianchi ha torto. La politica è l'arte del compromesso, anche il cardinale Ratzinger ha recentemente affermato che la politica implica il compromesso. Certo, il fine non giustifica i mezzi, che non possono mai essere intrinsecamente cattivi. Non posso uccidere qualcuno per dare lavoro ai giovani; ma se per conseguire questo fine devo dare voti a una corrente politica piuttosto che a un'altra... In questo caso non si commette nulla di illecito, è una questione di opinioni.
Le confesso che mi è difficile
condividere questa sua convinzione. A mio parere, la prassi che ne consegue
porta automaticamente a inclinare dalla testimonianza religiosa e dall'impegno culturale
al gioco degli interessi di parte. Ho notato con dispiacere che «Il Sabato»,
mentre qualche tempo fa pubblicava per esempio dei buoni servizi culturali su
Kafka, su Leopardi, su Solov'èv, su Michel de Certeau, ora è riempito da aggressivi
articoli di polemica politica che invadono persino le copertine...
Vede, il punto per
me centrale non è mai stato il politico, ma l'incremento dell'educazione della
persona e di ciò che la favorisce. Di lì in poi si va avanti seguendo la prudenza, che
percepisce l'utile e il giusto. Se si tien conto di tutti i fattori, non si
cade nella partigianeria. Per quel che riguarda «Il Sabato» deve tener presente
che si tratta di un settimanale di punta, fatto da giovani, e che le sue
posizioni non possono essere sempre identificate con quelle della nostra
Fraternità. Valutare CL dalla realtà del «Sabato» è un'operazione voluta e non
disinteressata. Circa tante modalità sono d'accordo che «Il Sabato» deve correggere
modi, tanti modi, e proporzionare meglio i contenuti.
Mi è rincresciuto moltissimo che abbiano reso pubblico quell'ormai famoso «libro bianco», di cui non condivido certi toni alterati, proprio nella settimana del Meeting di Rimini, che è una festa di fraternità e di gioia, con iniziative anche culturalmente importanti.
Ma, a parte la valutazione dei
«modi» usati, resta il fatto in sé che una cristiana «Fraternità di Comunione e
Liberazione» assume, in quanto proiettata nel «Movimento Popolare», una funzione,
ai miei occhi un po' ibrida, di censura morale e religiosa e insieme di
corrente politica e partitica, con drastiche scelte e condanne di persone
contrapposte ad altre persone.
Circa le persone, bisognerebbe vedere bene le cose come stanno, io non le so, la mia missione non è questa. Non parlo mai di politica, e del resto intervengo pochissimo in tutto quello che fanno i membri della Fraternità: facciano loro, sono grandi... CL ha uno scopo educativo, vuol rendere l'uomo sensibile alle necessità umane, alla propria responsabilità sociale, perché poi ciascuno agisca autonomamente, secondo le sue competenze e senza presunzione. CL e MP non sono sovrapponibili. Approvo che i miei amici chiedano alla DC due cose: democrazia interna e sostegno alle opere che nascono dalla base. De Mita in questo può aver sbagliato; semplicemente è accaduto che il suo atteggiamento, non solo politico, ma per così dire antropologico, per esempio il suo orientamento tecnocratico, non è stato condiviso. Il sostegno dato ad Andreotti, d'altra parte, non è una canonizzazione, è il sostegno a un uomo che riconosce la validità dell'azione del Movimento Popolare e della Compagnia delle Opere.
Ma l'aiuto alle opere perché viene dato? Non
potrebbe essere dato proprio per ricevere voti, per puro calcolo politico, in funzione
dell'interesse di una corrente di partito senza nessuna condivisione di ragioni
morali? L'incremento di potere così ottenuto potrebbe poi servire per fini
magari pessimi.
Giudicherà Iddio. Potremmo anche sbagliare. E tuttavia la figura di Andreotti s'impone
a tutti per autorevolezza e prestigio anche sul piano internazionale. Può darsi
che domani ci si accorga che il giudizio doveva essere diverso: ma siamo
all'oggi.
I rapporti di CL con la gerarchia ecclesiastica variano molto a seconda delle diverse diocesi. Negli ultimi cinque o sei anni di pontificato, Paolo VI era favorevolissimo a CL. Quanto a Giovanni Paolo II le sue simpatie per i giovani del Movimento sono ben note. Il giorno stesso in cui apparve quella nota sull'«Osservatore Romano» scrissi al Papa, dicendo la nostra pena e le mie perplessità e difficoltà: che cosa avrei dovuto dire ai «miei» giovani, e in particolare ai cinquecento preti legati alla Fraternità, che proprio in quei giorni erano riuniti in un incontro a Collevalenza, in Umbria, e ai quali avrei dovuto parlare? Mi fu dato modo di rassicurarli immediatamente con il suo saluto e la sua benedizione.
Forse la successione di questi
recenti episodi potrebbe far pensare piuttosto a una cauta ed equilibrata
gestione «politica», da parte dei vertici ecclesiastici, della questione. Ma
vorrei porle ancora una domanda, o piuttosto esprimerle un mio timore, un mio
sospetto. In che cosa consiste, in che cosa deve e può consistere la
testimonianza della fede cristiana nel mondo?
Non c'è forse un fatale rischio
nel potere, e dunque anche nel fatto che la testimonianza cristiana si sia in
passato incarnata o s'incarni o intenda incarnarsi oggi in forti strutture
organizzative, politiche, economiche? La testimonianza della fede non è forse
la testimonianza della Croce, della debolezza nella storia del Dio che ha
voluto farsi carne, e carne crocifìssa, per amore degli uomini?
La mia certezza di fede non può essere ferita dalla sua domanda. Croce e redenzione tendono a darsi contemporaneamente. Dio dimostrerà pienamente una presenza che è già in atto e percepibile, malgrado le pecche storiche di una Chiesa che del resto riconosce di essere peccatrice. Siamo all'alba di un giorno che avrà il suo meriggio.
Don Giussani, lei ritiene che
possa storicamente ritornare la cristianità, e cioè una società culturalmente e
civilmente unita compattamente intorno al riconoscimento della verità cristiana?
È certamente possibile, ovviamente in una forma sempre nuova, perché a Dio tutto è possibile.
Ma è possibile anche nel senso
che è umanamente prevedibile come futuro storico?
Tutta la nostra
azione vorrebbe tendere a questo.
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