C'è tutto un mondo laico o post comunista che riscopre oggi figure straordinarie del passato dissenso nell'ex Est Europa (peraltro ignorate nel passato). Come i dissidenti Sinjavskij o Daniel, raccontati ora da un entusiasta Ezio Mauro con gli applausi di Battista. Noi li abbiamo difesi, inneggiati e sostenuti 50 anni fa, quando certuni tacevano, complici, o ci accusavano. Ben arrivati, comunque.
Pierluigi Battista (da Huffington post)
La persecuzione di Sinjavskij e Daniel, i "senza nome" raccontati
da Ezio Mauro
Il libro di
Ezio Mauro, “Lo scrittore senza nome” pubblicato da Feltrinelli, è la
formidabile ricostruzione di un “processo al dissenso, nel 1966, con i libri
come imputati-ombra”, in Unione Sovietica. Anzi, gli scrittori “senza nome”
erano due, Andrej Sinjavskij e Julij Daniel’, che per poter semplicemente
pubblicare i loro libri e i loro saggi, dovettero farli arrivare
clandestinamente in Occidente, con due pseudonimi, rispettivamente Abram Terz e
Nikolaj Arzak.
La loro
epopea viene raccontata nei minimi dettagli storici, psicologici ed
esistenziali da Ezio Mauro, che scrive di essere ossessionato da oltre
trent’anni da questa storia di “disperazione e dignità, dal fondo dell’abisso
totalitario sovietico”. Ed è una storia impressionante di persecuzione e di
coraggio, di umiliazione e di fierezza, dove la scrittura di un libro e
l’elementare desiderio di pubblicarlo potevano procurare a due dissidenti
trattati come criminali la condanna rispettivamente a sette e cinque anni di
lavori forzati in un lager, con il supplemento atroce di un altro periodo di
confino e di segregazione arbitrariamente stabilita di un’autorità politica che
tratta i cittadini come sudditi in balia di un potere dispotico.
Se non
fosse storia veritiera conficcata nella carne delle vittime di questo potere,
il libro di Mauro, così denso di documentazione e di testimonianze (c’è anche
una foto sgranata di Siniavskij e Daniel’ che sorreggono la bara di Pasternak
nella semi-clandestina cerimonia funebre di Peredelkino), potrebbe essere letto
come un romanzo, di cui ha la qualità letteraria e il pathos, che restituisce
una storia di ordinaria e feroce repressione, oramai sommersa e quasi
dimenticata.
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Il respiro di Sinjavskij (e il nostro)
Il Sussidiario 10.03.2014 - Pierluigi Colognesi
Finalmente sono tornati in libreria i “Pensieri
improvvisi” di Andrej Sinjavskij (1925-1997). Erano usciti per la prima volta, sempre editi da Jaca Book, nel 1966
e subito avevano commosso i lettori, che si sono trovati di fronte alla
freschezza di riflessioni acute, umanissime, profondamente religiose,
provenienti inaspettatamente dal gelo dell’oltre cortina sovietico.
Ci si sorprese che simili fiori di saggezza semplice
sbocciassero proprio là dove il potere totalitario tentava di imporre la
rigidità del pensiero unico e grigio. Sinjavskij aveva già pubblicato in
occidente sotto lo pseudonimo di Abram Terz e proprio per tale attività
«sovversiva» era stato arrestato, insieme all’amico Julij Daniel’ e sottoposto
ad un processo che fece molto scalpore e svelò ancora una volta – almeno a chi
non era obnubilato da un pesante paraocchi ideologico – il carattere illiberale
dell’URSS. I Pensieri improvvisi, scrisse Sinjavskij in una lettera all’editore
italiano nel 1976 quando, espulso dall’URSS, si trovava nella sua nuova patria
di elezione, Parigi, «si riferiscono al periodo in cui aspettavo l’arresto».
In quella stessa lettera Sinjavskij offre la chiave per comprendere come mai la sua opera è così avvincente ancora oggi, anche per chi non conosce bene la storia dell’Urss e non sa nulla del dissenso. Scrive, dunque, l’autore: «Rileggendo ora i Pensieri improvvisi trovo che prima di ogni altra cosa essi siano una ricerca spasmodica dell’aria per respirare». E certamente il bisogno di aria non è meno pressante oggi nell’occidente nichilista di quanto lo fosse cinquant’anni fa nell’Unione Sovietica.
L’operazione di far «respirare» non avviene, nei Pensieri improvvisi, perché l’autore vi offra le conclusioni di un suo ragionamento, le sue pillole di buon senso o i suoi consigli per ben vivere, come hanno sempre fatto i moralisti di tutti i secoli. La dinamica è tutta diversa e sta nell’aggettivo «improvvisi», che – come nota il curatore della recente edizione, Sergio Rapetti – ha in sé il senso di «inaspettati», di qualcosa che viene di «sorpresa».
Come se lo scrittore fosse un pescatore che sta seduto lungo il fiume e pazientemente attende che «qualcosa», che egli stesso non conosce prima, si attacchi al suo amo e lo sorprenda. Lo dice bene il primo pensiero: «Tu vivi da scemo, ma qualche volta ti vengono in mente idee eccellenti». Quello «scemo» non vuol dire disattento, superficiale, svagato; indica che non ci sono precondizioni intellettuali o tanto meno morali che siamo necessarie perché da ciò che scorre nel fiume della vita si possano tirar su pesci buoni. Che siano tali lo si vede dal fatto che, pur partendo quasi sempre da aspetti banali, toccano le grandi questioni della vita, le sole che fanno «respirare».
Qualche esempio. «Quando sarà svelato ogni mistero – ogni mistero, capite? – bella figura faremo!».
«Perché girandosi fa paura vedere le proprie tracce sulla neve fresca?».
«I pensieri intorno a Dio sono inesauribili e grandi come il mare- Ti travolgono, ci affoghi dentro con la testa e le braccia senza toccare il fondo».
«Un tempo l’uomo nella sua cerchia familiare era legato alla vita universale – storica e cosmica – in un modo assai più ampio e saldo di oggi. […] Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro»; cioè respirava.
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