martedì 16 novembre 2021

LA DECRESCITA INFELICE


 TRASCRIZIONE DELLA PRIMA PARTE

DELL’INCONTRO DEL CROCEVIA DEL 4 NOVEMBRE 2021

RODOLFO CASADEI INTERVISTA DANIELE FORTI

Perché la congiuntura economica che stiamo vivendo è così diversa da quelle del passato? Dobbiamo spaventarci per gli aumenti dei prezzi e la scarsità delle merci? Qual è l’origine di tutto questo? Per chiarirci un po’ le idee abbiamo intervistato l’economista Daniele Forti, dirigente di Trevi Finanziaria Industriale.


Il boom dei prezzi delle materie prime è diventato boom dei prezzi al dettaglio: ormai i rincari vanno dai prezzi del metano, del Gpl e della benzina a quelli del pane e della pasta, dall’importo della bolletta elettrica al prezzo dei prodotti ortofrutticoli. Quali sono le cause di questo fenomeno?

In un comunicato stampa diffuso nei giorni scorsi l’Istat evidenzia che l’indice generale dei prezzi di beni e servizi a settembre 2021 è aumentato del 2,5% rispetto a un anno prima, ma con grandi differenze per le singole voci; luce, gas e altri beni energetici regolamentati segnano +34,3%; acqua potabile, medicinali e altri beni regolamentati +0,8%; il canone TV, trasporti locali, Tari e altri servizi i cui prezzi sono fissati da autorità +0,9%; la maggior parte dei servizi +1,3%. In base a stime preliminari, nel corso del mese di ottobre l’indice dei prezzi al consumo ha registrato un ulteriore aumento dello 0,6% su base mensile e del 2,9% su base annua.
Eppure “l’inflazione di fondo” al netto dei soli beni energetici rimane a +1,1%! Se ne conclude che la crisi dei prezzi si manifesta oggi principalmente come crisi sui mercati dell’energia e delle materie prime. La spinta sui prezzi proviene indubbiamente dalla risalita dall’abisso in cui era precipitato il Pil nel secondo trimestre 2020. Tale recupero era iniziato per l’industria già nel terzo trimestre 2020; molto più tardi era seguito quello dei servizi. Secondo dati pubblicati a fine ottobre, nei paesi dell’Eurozona la crescita del Pil è stata del 2,2% (su base annua) nel terzo trimestre dell’anno in corso. Ciò significa che il Pil della zona euro si trova di uno 0,9 per cento al di sotto di quello dell’ultimo trimestre del 2019, cioè di prima dell’inizio della pandemia. Francia e Italia hanno sperimentato i più alti tassi di crescita nel terzo trimestre: 3% e 2,6% rispettivamente; la Germania ha rallentato dall’1,9 all’1,8%, a causa dei colli di bottiglia che colpiscono la sua industria automobilistica e degli alti prezzi dell’energia.
Le cause di questo caos nell’andamento dei prezzi sono tante: le gelate del febbraio scorso negli Usa coi conseguenti blackout che hanno paralizzato l’industria petrolchimica; il blocco del Canale di Suez a marzo per un incidente a una nave portacontainer; le ondate di siccità; gli hackers informatici.

 Ma il problema numero uno della “supply chain disruption” si chiama Cina. La politica cinese di “zero Covid” ha come effetto il lockdown di intere città e delle relative infrastrutture portuali non appena si registrano pochi casi di coronavirus. Quando una nave giunge in un qualsiasi porto del mondo – in base a procedure ormai generalizzate – vengono eseguiti dei test sanitari sull’equipaggio e sulle merci che richiedono alcuni giorni. Ciò crea enormi ritardi nei tempi di sbarco delle merci e l’aumento dei costi del trasporto marittimo. I container vengono spesso abbandonati nei porti, perché le navi non aspettano che siano svuotati per caricarli e ripartono al più presto senza aspettarli. Vi è quindi una enorme scarsità di container e il loro prezzo è spesso il 70/80% in più di quello prima della pandemia.

Se dovessimo stilare una classifica dell’importanza di ogni singola causa, quali sarebbero ai primi posti?

La causa primaria è la delocalizzazione produttiva, con la quale troppe aziende hanno cercato negli ultimi decenni di diminuire il costo del lavoro incorporato nei loro prodotti, trasferendo gran parte dei loro processi produttivi in paesi esteri a basso costo di mano d’opera, soprattutto in estremo oriente e segnatamente in Cina. Questo paese è sembrato diventare la fabbrica del mondo non solo di beni di largo consumo, ma anche di componentistica strategica. Molti governi si sono accorti troppo tardi di aver legato le sorti del proprio paese alle decisioni di Pechino. Prendiamo il caso dell’acciaio: Pechino sussidiava le esportazioni di acciaio. Questi sussidi sono stati tolti per favorire il mercato nazionale, e la conseguenza è che i prezzi sono schizzati verso l’alto. Nella Ue ci si difende tuttora da queste importazioni di acciaio cinese con un sistema di quote trimestrali di importazione che è rimasto incredibilmente in vigore e penalizza in questo momento chi deve acquistarlo. Al secondo posto c’è la ripresa della domanda globale (che, è bene sottolinearlo, non ha ancora raggiunto i livelli pre-pandemici) che ha rimesso in moto il ciclo delle scorte. Quando un sistema economico si contrae perché entra in una recessione, le aziende cercano di ridurre i loro investimenti in Capitale Circolante e innanzi tutto in scorte di magazzino di materie prime, semilavorati, componentistica e prodotti finiti. Per effetto di questo processo decisionale, le scorte si riducono al minimo. Lo scopo ultimo è quello di tutelare la liquidità aziendale e non rischiare il fallimento. Quando il ciclo economico vede profilarsi la fase di ripresa si cerca di ricostituire le scorte di sicurezza per portare avanti il processo produttivo senza rischiare dei fermi delle fabbriche. Se tutte le aziende fanno questo contemporaneamente, e le famiglie riprendono a consumare, si assiste ad una deflagrazione della domanda, che è più violenta se esistono dubbi sulla possibilità di approvvigionarsi. Questa potrebbe essere in parte destinata ad affievolirsi non appena le scorte sono state ricostituite. Ecco perché l’inflazione in atto potrebbe essere in parte temporanea. Ho detto in parte, perché, quando si verificano crisi internazionali in seguito a guerre o pandemie, gli equilibri economici non si ricostituiscono mai con un semplice ritorno al passato pre-crisi.

Questa crisi fatta di aumenti dei prezzi, penuria di materie prime e di prodotti, scarsità delle scorte comporterà una radicale messa in discussione della globalizzazione economica, con le sue supply chain troppo lunghe e troppo fragili, oppure la globalizzazione economica è una strada senza ritorno, l’autosufficienza e l’autonomia delle economie nazionali o regionali è un mito nazionalista/sovranista, e si può soltanto immaginare una riorganizzazione della globalizzazione, nella quale la situazione dell’Europa diventerà sempre più precaria?

Sicuramente la tutela degli interessi nazionali è diventato e diventerà sempre più un tema all’ordine del giorno. Avevano iniziato gli Usa durante la presidenza Trump a lottare contro le delocalizzazioni delle aziende americane che ledevano gli interessi strategici del suo paese, a contrastare la politica delle aziende cinesi di fare acquisizioni strategiche, a impedire a Pechino di diventar leader nella telefonia mondiale, a difendere i porti e le infrastrutture da acquisizioni estere. Oggi c’è chi pensa che aver permesso alla Cina l’ingresso immediato senza condizioni nel Wto (l’Organizzazione del commercio mondiale) sia stato un errore.
La Ue appare priva di strategia, e nel recente passato si è limitata ad assecondare gli interessi immediati mercantilistici della Germania. Ora sta cercando di favorire l’attività estrattiva dei metalli presenti nel territorio europeo, secondariamente di potenziare l’attività di riciclo dei metalli pregiati, e in terzo luogo di costruire una politica estera e industriale comune per ottenere le concessioni dei minerali che non abbiamo.

A marzo cesseranno gli acquisti massicci di titoli del debito pubblico da parte della Bce, il cosiddetto Pepp, Programma di acquisto per l’emergenza pandemica. Già ora vediamo allargarsi lo spread fra il tasso dei titoli italiani e di altri paesi europei fortemente indebitati, e il tasso dei titoli tedeschi. Cosa succederà alla nostra economia quando gli acquisti di debito del Programma cesseranno? L’inflazione compirà un altro balzo, come se non bastasse quello che sta succedendo?

Al termine dell’ultimo meeting del suo Consiglio il 28 ottobre scorso, la Bce ha dichiarato di giudicare che condizioni favorevoli di finanziamento possono essere mantenute, con un moderato rallentamento degli acquisti netti di attivi in base al programma Pepp rispetto al secondo e terzo trimestre di questo anno, fino almeno alla fine di marzo 2022 e in ogni caso fino a quando giudicherà terminata la fase di crisi originata dalla pandemia.
A mio avviso la Bce ha consentito ai governi di finanziarsi in questo periodo senza grandi limiti e a bassi tassi. È stata molto più problematica la trasmissione all’economia reale degli stimoli monetari. Le banche centrali hanno finito piuttosto con l’alimentare una bolla finanziaria, che ha determinato l’aumento dei corsi azionari. I rigidi controlli sulle banche non sono diminuiti, anzi la Eba ha esercitato forti pressioni sulle banche perché selezionassero attentamente la clientela in base al rischio di credito. Le banche sono state invitate più volte a cedere ad agenzie specializzate i loro crediti non performanti. È una buona notizia che l’entrata in vigore dell’accordo detto di Basilea III sia stata rinviata fino al 2025. Vedremo le conseguenze di questa decisione, che è comunque da salutare positivamente. Tuttavia l’atteggiamento della Ue non accenna a diventare pro crescita. Le decisioni della Bce riguarderanno principalmente i governi e il finanziamento del debito pubblico. Se sarà confermata la proposta della Commissione di rimettere in vigore il “fiscal compact”, con l’unica variazione di aumentare la percentuale ammessa del debito pubblico sul Pil dal 60 al 100%, ci saranno problemi. Ecco perché è aumentato lo spread. Tuttavia le agenzie di rating hanno rivisto positivamente il loro giudizio sul nostro paese, e ciò aiuterà.

Alla Cop 26 di Glasgow si è molto parlato di transizione ecologica e di energie alternative agli idrocarburi. Che effetto avrà sull’economia la decarbonizzazione? Tutti temiamo che il costo dell’energia aumenti ancora di più, e con esso i prezzi di tutto il resto.

Il 26 ottobre dieci paesi della Ue hanno firmato un appello alla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen a favore del nucleare e del gas “verdi” (Francia, Polonia, Finlandia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Slovacchia e Slovenia). I Paesi Bassi e la Svezia hanno assicurato il loro sostegno per il nucleare. L’Italia è rimasta in silenzio, nonostante il ministro Cingolani si sia esposto più volte con interviste sui giornali a favore della ripresa della ricerca sull’energia nucleare. Il governo Draghi tace per le divisioni che ci sono fra le sue componenti. Alcuni quotidiani hanno riportato che a Bruxelles circola la bozza di un documento con cui la Commissione si appresterebbe a dichiarare che abbiamo bisogno del nucleare e, durante la transizione, anche del gas. La Francia ha già 58 reattori nucleari che provvedono al suo fabbisogno energetico, e ogni anno noi italiani compriamo elettricità prodotta dai reattori francesi per 15 miliardi di euro!
Le energie rinnovabili sono una illusione. Lo dico partendo anche dalla mia esperienza di lavoro in una grande azienda italiana che per circa 15 anni si è prodigata a cercare soluzioni per possibili campi eolici in mare, progettando anche nuove pale eoliche. Per quanto riguarda l’energia solare, il presidente di Nomisma energia Davide Tabarelli ha recentemente dichiarato in una intervista al quotidiano La Verità che per avere la stessa energia contenuta in un litro di benzina, «dovremmo avere un pannello fotovoltaico di 10 metri quadrati illuminato ininterrottamente per 10 ore. Quanto territorio dovremmo coprire per fare a meno della benzina?». Prima della pandemia consumavamo circa 100 milioni di barili di petrolio al giorno. Ora siamo a 96 (cinquant’anni fa erano 60). «Avverto la responsabilità etica – conclude Tabarelli – di dire che senza i combustibili fossili non possiamo andare avanti».

 

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