TRASCRIZIONE DELLA PRIMA PARTE
DELL’INCONTRO DEL CROCEVIA DEL 4 NOVEMBRE 2021
RODOLFO CASADEI INTERVISTA DANIELE FORTI
Perché la congiuntura economica che stiamo vivendo è così diversa da quelle del passato? Dobbiamo spaventarci per gli aumenti dei prezzi e la scarsità delle merci? Qual è l’origine di tutto questo? Per chiarirci un po’ le idee abbiamo intervistato l’economista Daniele Forti, dirigente di Trevi Finanziaria Industriale.
Il boom dei prezzi delle materie prime è
diventato boom dei prezzi al dettaglio: ormai i rincari vanno dai prezzi del
metano, del Gpl e della benzina a quelli del pane e della pasta, dall’importo
della bolletta elettrica al prezzo dei prodotti ortofrutticoli. Quali sono le
cause di questo fenomeno?
In un comunicato stampa diffuso nei
giorni scorsi l’Istat evidenzia che l’indice generale dei prezzi di beni e
servizi a settembre 2021 è aumentato del 2,5% rispetto a un anno prima, ma con
grandi differenze per le singole voci; luce, gas e altri beni energetici
regolamentati segnano +34,3%; acqua potabile, medicinali e altri beni
regolamentati +0,8%; il canone TV, trasporti locali, Tari e altri servizi i cui
prezzi sono fissati da autorità +0,9%; la maggior parte dei servizi +1,3%. In
base a stime preliminari, nel corso del mese di ottobre l’indice dei prezzi al
consumo ha registrato un ulteriore aumento dello 0,6% su base mensile e del
2,9% su base annua.
Eppure “l’inflazione di fondo” al netto dei soli beni energetici rimane a
+1,1%! Se ne conclude che la crisi dei prezzi si manifesta oggi principalmente
come crisi sui mercati dell’energia e delle materie prime. La spinta sui prezzi
proviene indubbiamente dalla risalita dall’abisso in cui era precipitato il Pil
nel secondo trimestre 2020. Tale recupero era iniziato per l’industria già nel
terzo trimestre 2020; molto più tardi era seguito quello dei servizi. Secondo
dati pubblicati a fine ottobre, nei paesi dell’Eurozona la crescita del Pil è
stata del 2,2% (su base annua) nel terzo trimestre dell’anno in corso. Ciò
significa che il Pil della zona euro si trova di uno 0,9 per cento al di sotto
di quello dell’ultimo trimestre del 2019, cioè di prima dell’inizio della
pandemia. Francia e Italia hanno sperimentato i più alti tassi di crescita nel
terzo trimestre: 3% e 2,6% rispettivamente; la Germania ha rallentato dall’1,9
all’1,8%, a causa dei colli di bottiglia che colpiscono la sua industria
automobilistica e degli alti prezzi dell’energia.
Le cause di questo caos nell’andamento dei prezzi sono tante: le gelate del
febbraio scorso negli Usa coi conseguenti blackout che hanno paralizzato
l’industria petrolchimica; il blocco del Canale di Suez a marzo per un
incidente a una nave portacontainer; le ondate di siccità; gli hackers
informatici.
Ma il problema numero uno della “supply chain
disruption” si chiama Cina. La politica cinese di “zero Covid” ha
come effetto il lockdown di intere città e delle relative infrastrutture
portuali non appena si registrano pochi casi di coronavirus. Quando una nave
giunge in un qualsiasi porto del mondo – in base a procedure ormai
generalizzate – vengono eseguiti dei test sanitari sull’equipaggio e sulle
merci che richiedono alcuni giorni. Ciò crea enormi ritardi nei tempi di sbarco
delle merci e l’aumento dei costi del trasporto marittimo. I container vengono
spesso abbandonati nei porti, perché le navi non aspettano che siano svuotati
per caricarli e ripartono al più presto senza aspettarli. Vi è quindi una enorme
scarsità di container e il loro prezzo è spesso il 70/80% in più di quello
prima della pandemia.
Se dovessimo stilare una classifica
dell’importanza di ogni singola causa, quali sarebbero ai primi posti?
La causa
primaria è la delocalizzazione produttiva, con la quale troppe aziende hanno
cercato negli ultimi decenni di diminuire il costo del lavoro incorporato nei
loro prodotti, trasferendo gran parte dei loro processi produttivi in paesi
esteri a basso costo di mano d’opera, soprattutto in estremo oriente e
segnatamente in Cina. Questo paese è
sembrato diventare la fabbrica del mondo non solo di beni di largo consumo, ma
anche di componentistica strategica. Molti governi si sono accorti troppo tardi
di aver legato le sorti del proprio paese alle decisioni di Pechino. Prendiamo
il caso dell’acciaio: Pechino sussidiava le esportazioni di acciaio. Questi
sussidi sono stati tolti per favorire il mercato nazionale, e la conseguenza è
che i prezzi sono schizzati verso l’alto. Nella Ue ci si difende tuttora da
queste importazioni di acciaio cinese con un sistema di quote trimestrali di
importazione che è rimasto incredibilmente in vigore e penalizza in questo
momento chi deve acquistarlo. Al secondo posto c’è la ripresa della domanda
globale (che, è bene sottolinearlo, non ha ancora raggiunto i livelli
pre-pandemici) che ha rimesso in moto il ciclo delle scorte. Quando un sistema
economico si contrae perché entra in una recessione, le aziende cercano di
ridurre i loro investimenti in Capitale Circolante e innanzi tutto in scorte di
magazzino di materie prime, semilavorati, componentistica e prodotti finiti.
Per effetto di questo processo decisionale, le scorte si riducono al minimo. Lo
scopo ultimo è quello di tutelare la liquidità aziendale e non rischiare il fallimento.
Quando il ciclo economico vede profilarsi la fase di ripresa si cerca di
ricostituire le scorte di sicurezza per portare avanti il processo produttivo
senza rischiare dei fermi delle fabbriche. Se tutte le aziende fanno questo
contemporaneamente, e le famiglie riprendono a consumare, si assiste ad una
deflagrazione della domanda, che è più violenta se esistono dubbi sulla
possibilità di approvvigionarsi. Questa potrebbe essere in parte destinata ad
affievolirsi non appena le scorte sono state ricostituite. Ecco perché
l’inflazione in atto potrebbe essere in parte temporanea. Ho detto in parte,
perché, quando si verificano crisi internazionali in seguito a guerre o
pandemie, gli equilibri economici non si ricostituiscono mai con un semplice
ritorno al passato pre-crisi.
Questa crisi fatta di aumenti dei
prezzi, penuria di materie prime e di prodotti, scarsità delle scorte
comporterà una radicale messa in discussione della globalizzazione economica,
con le sue supply chain troppo lunghe e troppo fragili, oppure la
globalizzazione economica è una strada senza ritorno, l’autosufficienza e
l’autonomia delle economie nazionali o regionali è un mito
nazionalista/sovranista, e si può soltanto immaginare una riorganizzazione
della globalizzazione, nella quale la situazione dell’Europa diventerà sempre
più precaria?
Sicuramente la tutela degli interessi
nazionali è diventato e diventerà sempre più un tema all’ordine del giorno.
Avevano iniziato gli Usa durante la presidenza Trump a lottare contro le
delocalizzazioni delle aziende americane che ledevano gli interessi strategici
del suo paese, a contrastare la politica delle aziende cinesi di fare
acquisizioni strategiche, a impedire a Pechino di diventar leader nella
telefonia mondiale, a difendere i porti e le infrastrutture da acquisizioni
estere. Oggi c’è chi pensa che aver permesso alla Cina l’ingresso immediato
senza condizioni nel Wto (l’Organizzazione del commercio mondiale) sia stato un
errore.
La Ue appare priva di strategia, e nel recente passato si è limitata ad
assecondare gli interessi immediati mercantilistici della Germania. Ora sta
cercando di favorire l’attività estrattiva dei metalli presenti nel territorio
europeo, secondariamente di potenziare l’attività di riciclo dei metalli
pregiati, e in terzo luogo di costruire una politica estera e industriale
comune per ottenere le concessioni dei minerali che non abbiamo.
A marzo cesseranno gli acquisti massicci
di titoli del debito pubblico da parte della Bce, il cosiddetto Pepp, Programma
di acquisto per l’emergenza pandemica. Già ora vediamo allargarsi lo spread fra
il tasso dei titoli italiani e di altri paesi europei fortemente indebitati, e
il tasso dei titoli tedeschi. Cosa succederà alla nostra economia quando gli
acquisti di debito del Programma cesseranno? L’inflazione compirà un altro
balzo, come se non bastasse quello che sta succedendo?
Al termine dell’ultimo meeting del suo
Consiglio il 28 ottobre scorso, la Bce ha dichiarato di giudicare che
condizioni favorevoli di finanziamento possono essere mantenute, con un
moderato rallentamento degli acquisti netti di attivi in base al programma Pepp
rispetto al secondo e terzo trimestre di questo anno, fino almeno alla fine di
marzo 2022 e in ogni caso fino a quando giudicherà terminata la fase di crisi
originata dalla pandemia.
A mio avviso la Bce ha consentito ai governi di finanziarsi in questo periodo
senza grandi limiti e a bassi tassi. È stata molto più problematica la
trasmissione all’economia reale degli stimoli monetari. Le banche centrali hanno
finito piuttosto con l’alimentare una bolla finanziaria, che ha determinato
l’aumento dei corsi azionari. I rigidi controlli sulle banche non sono
diminuiti, anzi la Eba ha esercitato forti pressioni sulle banche perché
selezionassero attentamente la clientela in base al rischio di credito. Le
banche sono state invitate più volte a cedere ad agenzie specializzate i loro
crediti non performanti. È una buona notizia che l’entrata in vigore
dell’accordo detto di Basilea III sia stata rinviata fino al 2025. Vedremo le
conseguenze di questa decisione, che è comunque da salutare positivamente.
Tuttavia l’atteggiamento della Ue non accenna a diventare pro crescita. Le
decisioni della Bce riguarderanno principalmente i governi e il finanziamento
del debito pubblico. Se sarà confermata la proposta della Commissione di
rimettere in vigore il “fiscal compact”, con l’unica variazione di aumentare la
percentuale ammessa del debito pubblico sul Pil dal 60 al 100%, ci saranno
problemi. Ecco perché è aumentato lo spread. Tuttavia le agenzie di rating
hanno rivisto positivamente il loro giudizio sul nostro paese, e ciò aiuterà.
Alla Cop 26 di Glasgow si è molto parlato di transizione
ecologica e di energie alternative agli idrocarburi. Che effetto avrà
sull’economia la decarbonizzazione? Tutti temiamo che il costo dell’energia
aumenti ancora di più, e con esso i prezzi di tutto il resto.
Il 26
ottobre dieci paesi della Ue hanno firmato un appello alla Presidente della
Commissione Ursula von der Leyen a favore del nucleare e del gas “verdi”
(Francia, Polonia, Finlandia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria,
Romania, Slovacchia e Slovenia). I Paesi Bassi e la Svezia hanno assicurato il
loro sostegno per il nucleare. L’Italia è rimasta in silenzio, nonostante il
ministro Cingolani si sia esposto più volte con interviste sui giornali a
favore della ripresa della ricerca sull’energia nucleare. Il governo Draghi
tace per le divisioni che ci sono fra le sue componenti. Alcuni quotidiani
hanno riportato che a Bruxelles circola la bozza di un documento con cui la
Commissione si appresterebbe a dichiarare che abbiamo bisogno del nucleare e,
durante la transizione, anche del gas. La Francia ha già 58 reattori nucleari
che provvedono al suo fabbisogno energetico, e ogni anno noi italiani compriamo
elettricità prodotta dai reattori francesi per 15 miliardi di euro!
Le energie rinnovabili sono una illusione. Lo dico partendo anche dalla mia
esperienza di lavoro in una grande azienda italiana che per circa 15 anni si è
prodigata a cercare soluzioni per possibili campi eolici in mare, progettando
anche nuove pale eoliche. Per quanto riguarda l’energia solare, il presidente
di Nomisma energia Davide Tabarelli ha recentemente dichiarato in una
intervista al quotidiano La Verità che per avere la stessa
energia contenuta in un litro di benzina, «dovremmo avere un pannello
fotovoltaico di 10 metri quadrati illuminato ininterrottamente per 10 ore.
Quanto territorio dovremmo coprire per fare a meno della benzina?». Prima della
pandemia consumavamo circa 100 milioni di barili di petrolio al giorno. Ora
siamo a 96 (cinquant’anni fa erano 60). «Avverto la responsabilità etica –
conclude Tabarelli – di dire che senza i combustibili fossili non possiamo
andare avanti».
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