martedì 29 novembre 2022

L’INCOMBENZA DELLA SUA VENUTA

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in occasione del ritiro d’Avvento dei Memores Domini, 28 novembre 1971

La prima domenica di Avvento ci fa iniziare la nuova vita della Chiesa, un nuovo anno. Un anno ha una importanza grande nella vita, perché nella vita di anni ce ne sono ottanta, novanta (ottanta nel migliore dei casi e novanta se si è eccezionalmente fortunati1). Di questi ottanta o novanta, quindici, se non venti, sono persi inutilmente, o pressappoco, sono incoscienti (per chi ha incontrato la comunità cristiana, invece di venti facciamo diciassette!). Perciò, un anno ha una importanza grande nella vita. E anche se, da un certo punto di vista, può sembrare artificioso il dividere il tempo in questo modo, il dare importanza a questa divisione io credo che sia molto più intelligente che artificioso. La Chiesa aumenta di molto questa certezza, perché, con l’anno liturgico, seguendo - almeno per noi del mondo occidentale - i ritmi della natura e paragonando ai ritmi della natura i ritmi dell’esistenza cristiana (dell’esistenza cristiana come storia e dell’esistenza cristiana come persona), ritmando così il suo anno sui tempi della natura, che così immediatamente simboleggiano e segnano i tempi dell’esistenza personale e i tempi dell’esistenza storica, veramente la Chiesa fa un’opera pedagogica non indifferente.

Credo che sia molto importante, realmente, questo momento. È importante, una volta che lo si richiami, molto di più per l’avvenimento d’una coscienza in noi, d’una vigilanza in noi, che neanche per le parole che possiamo sentire su di esso. Qualche parola, però, può aiutare la nostra coscienza. Ma tutto il problema sta nella nostra coscienza.

1. L’incombenza della Sua venuta

La liturgia della prima domenica2 mi pare decisiva al riguardo. Dal libro del profeta Isaia, capitolo secondo, versetti 1-5: «Visione che ebbe Isaia, figlio di Amoz, su Giuda e su Gerusalemme [«visione», perciò intuizione del progetto divino, «su Giuda e su Gerusalemme», sul popolo che è stato scelto e sul suo insediamento, che, a differenza di ogni insediamento umano, ha un significato imperituro, perché l’insediamento del popolo di Dio costituisce il segno, il sacramento, dell’ultimo insediamento umano, che è il paradiso]. Avverrà che alla fine dei giorni si ergerà il monte del tempio del Signore sulla cima dei monti, si innalzerà sui colli; verso di esso affluiranno le genti. Verranno tanti popoli, dicendo: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci ammaestri sulle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge, e la parola del Signore da Gerusalemme. Egli giudicherà tra le genti e deciderà tra tanti popoli. Forgeranno le spade in vomeri, le lance in falci; un popolo non alzerà la spada contro un altro popolo, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore»3.
Wiligelmo, duomo di Modena Storie della Genesi

 La prima parola che il testo di Isaia ci suggerisce è una parola che immediatamente deve determinare la coscienza della definitività. La coscienza della definitività è come la coscienza di noi stessi: è permanente. Potrebbe essere già un esame di coscienza o un contenuto di contrizione per la messa di oggi, per questa giornata e per il suo sacrificio. La coscienza della definitività deve accompagnarci come l’autocoscienza di noi stessi, come la coscienza di noi stessi, come un’autocoscienza. Infatti, l’autocoscienza è consapevolezza di qualche cosa di definitivo, perché il nostro io è definitivo. Ma ancora più definitivo è il significato del nostro io. E il significato del nostro io è Gesù Cristo e il Suo mistero; perciò la definitività riguarda la nostra adesione a Lui, la nostra adesione secondo la formula che Lui ha deciso per la nostra vita (perché non c’è un’altra formula; c’è soltanto, per aderirGli, la formula che Lui ha deciso per la nostra vita). La coscienza della definitività è come il sintomo più esatto della vera autocoscienza cristiana, dell’autocoscienza che ci fa percepire la vita come vocazione.


C’è una parola che immediatamente rende viva la coscienza della nostra definitività: senza questa parola, la definitività non è viva, può essere un automatismo già instaurato. Guardate, per favore, che non intendo fare osservazioni astratte: dico, rilevando la posizione di taluni tra voi, che la definitività è vissuta come un automatismo. Ed è tentazione di tutti noi, per tutti noi, il vivere la definitività come automatismo. Senza la parola che stiamo per dire, la definitività è automatismo. Perciò, come ogni automatismo, applicato alla vita cosciente, alla vita intelligente, alla vita della sensibilità, alla vita della libertà e della volontà, fa diventare rigidi. È una rigidezza che sembra non morderci la coscienza, quando non permette peccati mortali; ma è una tale rigidezza che non porta nessun segno di Cristo in giro per il mondo e tanto meno in «casa»4. Oppure, l’automatismo provoca una rigidezza che, in vario modo, ci rende farisei, vale a dire tende a fare del nostro atteggiamento il paradigma per gli altri: la misura della nostra esigenza, che diventa perciò pretesa, è la misura della bontà degli altri, del valore degli altri, della utilità della casa o della utilità dei rapporti. Oppure porta a un farisaismo che in fondo - di fronte alle nostre licenze, di fronte alle libertà che ci prendiamo e che scandalizzano la casa o che scandalizzano i rapporti o che ci isolano dai rapporti, ci rendono inutili, futili, vani, senza produttività nei rapporti - ci fa dire: «Beh, cosa c’è di male?», o: «Io, cosa ci devo fare; in fondo, cosa ci devo fare?»; che, se non è un modo per giustificarsi teorico, è un modo per giustificarsi di fronte a se stessi, quasi una scocciatura al pensiero che altri possano eccepire sul nostro comportamento.

È un automatismo che rende rigido tutto e senza gusto il vivere spirituale, senza nessun sàpere, senza nessun sapore, la vita del nostro spirito; oppure è un automatismo farisaico, che fa della nostra pretesa la misura della convivenza (quando abbiamo voglia di parlare, gli altri devono parlare, e quando abbiamo voglia di “tenerci” per noi, non devono pretendere niente; abbiamo il diritto di tacere e di parlare quando e come vogliamo, con stagnante in fondo all’animo quella caratteristica pretesa, quel senso di pretesa che, anche se non osiamo esplicitarcelo, gli altri sentono sensibilmente, come quando ci toccano dentro col gomito e ci vedono la faccia); oppure è il farisaismo che giustifica, se non teoricamente, almeno ad usum delphini, per noi stessi, il nostro comportamento. La nostra definitività scade inevitabilmente in tutto questo che ho detto - perché sto descrivendovi, sto descrivendoci -, senza la parola che il profeta Isaia, per primo, ci ha dettato. E la parola è che Cristo, la Sua venuta, è incombente: l’incombenza della Sua venuta.

Come gioca il vocabolario! Perché «incombenza» vuol dire due cose: vuol dire un dovere e vuol dire una cosa che ti sovrasta, imminente. Incombenza vuol dire dovere e vuol dire imminenza. Io voglio sottolineare anzitutto il secondo aspetto, perché il primo è evidente che ne deriva: una incombenza, una imminenza, se non è uguale a zero, diventa un dovere, suscita e impone un dovere.

L’imminenza della Sua venuta, l’incombenza della Sua venuta. «Fratelli - dice san Paolo nella Lettera ai Romani -, consapevoli del momento che volge, è tempo che vi destiate dal sonno ormai. Perché la salvezza ci è molto più vicina ora di quando siamo venuti alla fede. La notte è avanzata, il giorno è vicino»5, è tempo che vi destiate dal sonno. Dice il Vangelo di Matteo: «Come in quei giorni non si avvidero di nulla finché venne il diluvio e li distrusse tutti, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Vigilate, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà. Questo sappiate: se il padrone di casa conoscesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe rompere la casa. Anche voi perciò state pronti, perché nell’ora in cui non lo pensate, il Figlio dell’uomo verrà»6. È una incombenza, è una imminenza che ha come significato privilegiato, come significato supremo, quello letterale: l’incombenza e l’imminenza della morte; perché la morte è il Figlio dell’uomo che viene, secondo tutta quanta l’ampiezza del significato. Ma questo non sapere quando la morte viene, questo dovere di stare all’erta, questa fine dei giorni in cui il Signore «ergerà il monte del tempio suo», il fatto di non sapere il momento in cui il Signore viene, rende molto più chiaro, anzi, è l’unico modo per rendere la consapevolezza, la coscienza delle nostre azioni, tutta quanta protesa o determinata dal significato finale.

Ogni nostra azione, ogni momento è un passo verso il Signore che viene. Perciò ogni azione e ogni momento è il Signore che viene, esattamente come ogni azione, ogni momento può essere l’ultimo. Se la paura fosse dominata dal desiderio, se il timore fosse dominato dall’attesa! Questo è vivere l’imminenza del Signore che viene, questo è vivere l’incombenza di Cristo, della venuta di Cristo. Letteralmente ogni azione ha il suo significato nella venuta Sua, nel senso ristretto della parola, che è la morte.

2. Vigilanza e contrizione

Quando Egli verrà, giudicherà. È il secondo momento della nostra riflessione, il secondo spunto della nostra meditazione. Quando Egli verrà, giudicherà. Allora, come dice il Vangelo di san Matteo, «due saranno nel campo: uno verrà preso e uno lasciato; due donne stanno a macinare alla mola: una viene presa e una viene lasciata»7. Quando il Signore verrà, giudicherà. Come è bella la canzone Cantate al Signore8, che termina il suo grido gioioso col pensiero che il Signore viene a giudicare tutta la terra. Questa è l’attesa e il desiderio che dominano e che governano il timore e la paura. La paura e il timore eliminano insensibilmente, in noi, il pensiero che è il più razionale pensiero che possiamo avere: non esiste nessun pensiero, che sia razionale, se non è consapevolezza del fine; non è razionale un’azione, se non nella misura in cui essa è carica della consapevolezza del fine. Nessun pensiero è più razionale di quello che ci rende pieno l’animo della Sua incombenza, della Sua imminenza, dell’imminenza della Sua venuta. Ma la paura e il timore eliminano questo, salvo riprodurlo in qualche momento, in cui - se non operano, come la dinamite opera un passaggio, l’attesa e il desiderio - caricano la vita cristiana di quella rigidezza per cui non diviene più testimonianza a nessuno e diventa soltanto un giogo senza la soavità promessa9.
Wiligelmo, duomo di Modena Storie della Genesi

Sono l’attesa e il desiderio che devono determinare e dominare la paura e il timore. La paura e il timore permangono, ma permangono come attesa e desiderio; sono travolti, perciò, dall’amore. Perché nell’amore rimane il timore, e il «santo timor di Dio» indica tutt’e due queste componenti della nostra coscienza di rapporto con Cristo, della coscienza del 

lunedì 28 novembre 2022

BULLISMO: L’UTILITÀ DI UNA PUNIZIONE PUBBLICA E LA FATICA DI DIVENTARE ADULTI

 Il Ministro dell’istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, rispondendo a Milano a una domanda sul bullismo, ha proposto come esempio positivo il modo con cui il Preside di un Istituto tecnico di Gallarate ha trattato il caso di un ragazzo colpevole di aver preso a pugni una docente.

Giuseppe Valditara

Il ragazzo è stato punito con la sospensione di un anno. Il Preside ha affrontato pubblicamente con i ragazzi il caso. Il Ministro ha elogiato il Preside quale educatore, perché, diversamente da altri dirigenti e docenti, non ha giustificato il comportamento del ragazzo, magari ricorrendo alle sue motivazioni nascoste o alla condizione sociale: colpa del liberismo selvaggio o, perché no, del mutamento climatico?

Ha poi aggiunto: “…Noi dobbiamo ripristinare non soltanto la scuola dei diritti, ma anche la scuola dei doveri. Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche… evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità! Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione”.

Il lemma “umiliazione” ha fatto scattare l’indignazione delle vedove – del Ministero – in gramaglie, dal Centro fino alla Sinistra estrema. Carlo Calenda: “Ma questi dove li hanno presi! Che vergogna!”. Si suppone che alluda ai Ministri. Furfaro, deputato PD: “… ma Valditara ha mai letto un qualsivoglia studio di psicologia e pedagogia? “. Luca Bizzarri, attore e comico, 1,6 mln di follower sul social network: “… Un Ministro dell’Istruzione che parla dell’umiliazione pubblica come strumento di crescita. La stigmatizzazione pubblica. Io sono favorevole ai lavori socialmente utili, ma credo, sommessamente, che questo sia fascismo”. Altri hanno rimproverato al Ministro di ignorare le neuroscienze e forse anche i neuroni a specchio.

Edward Hopper "Stanza d'albergo" (1931)

Ora, “umiliazione” è certamente termine metaforico inadeguato e poco formale tanto in un contesto giuridico quanto in quello relazionale-educativo. Ma l’ondata di reazioni che è venuta dal suo uso improprio è altamente istruttiva ed allarmante, perché dà la misura della malafede e dell’ignoranza, di cui soffrono parecchi politici, dirigenti scolastici, insegnanti, genitori, giornalisti, opinion leader e blogger…, su come si costruisca l’etica individuale e quella pubblica. O, detto in altro modo ancora: di quale irresponsabilità educativa, civile e politica essi siano colpevoli.

All’on. Furfaro, psico-pedagogista di complemento, si dovrebbe chiedere se abbia mai letto, lui, un libro di antropologia o semplicemente di storia. Perché scoprirebbe che i comportamenti socialmente positivi, che noi eleviamo a modelli e che, perciò, chiamiamo valori, si affermano solo attraverso un lungo e spesso doloroso apprendistato sociale, nel quale  ciò che la famiglia, il clan, la tribù, la società civile ritengono socialmente positivo viene premiato e ciò che ritengono negativo viene sanzionato pubblicamente.

Persuasione e coercizione si intrecciano, fatalmente. La punizione assume varie forme, tutte pubbliche. Perché la pubblicità dell’”umiliazione” del colpevole – di violenza, di furto, di omicidio… – serve a educare tutti, eventualmente anche il colpevole, al rispetto dei valori e delle regole condivisi. Il colpevole ha ceduto all’impulso? Tutti, lui compreso, devono sapere che sarà punito socialmente cedere agli impulsi belluini. Aveva fame? Non perciò si giustifica il furto. Se uno commette un reato, viene condannato.

Edward Hopper "Morning sun" (1952)

La condanna consiste, in primo luogo, nella stigmatizzazione pubblica della colpa oltre che, eventualmente, nella privazione della libertà individuale. La condanna è un atto pubblico pedagogico, attraverso il quale la società costringe il colpevole e tutti gli altri, che non lo sono, ma che potrebbero imitarlo, a prendere atto che quel comportamento è distruttivo dei rapporti sociali. Sì, è un’umiliazione. “Humiliare”: riportare un individuo alla terra, all”humus” appunto.

La coercizione/punizione/umiliazione è educativa? Certamente lo è per ogni individuo.

Lo è anche per il colpevole? La punizione è un incentivo a evitare di ripetere il gesto. Può anche rigenerare la sua scala di valori, per cui l’umiliazione si trasformi in occasione di redenzione e di metanoia individuale? Dipende da lui, in primo luogo, ma anche dalle modalità di somministrazione della pena. 

Se queste sono le regole sociali, non si capisce perché non debbano valere anche nell’istituzione scolastica, che è, insieme alla famiglia, uno dei luoghi nei quali l’individuo introietta i valori sociali e si forma il carattere. La famiglia e la scuola sono le fonti generative della società civile.

Non si comprende perché nella scuola e in generale nell’educazione dei ragazzi e degli adolescenti debba valere la pretesa dell’impunità, in forza della quale non si risponde pubblicamente e non si paga pubblicamente il conto delle proprie azioni. Perché debba valere l’idea sottesa che non ci si debba assumere delle responsabilità nello stare nel mondo e che non ci sia un’autorità – che rappresenta la Realtà – ben oltre la nostra coscienza soggettiva, cui si deve rispondere.

Agli educatori più avvertiti non sfugge che gli adulti, in fuga dall’educare, stanno producendo una generazione di ragazzi e di giovani che hanno paura del mondo, che non reggono le frustrazioni che la realtà infligge a ciascun individuo in tempi e modi diversi nel corso della sua vita.

Depressione e bullismo sono due virus, che si moltiplicano in questo humus di irresponsabilità, di impunitismo, di facilismo, di rapporto irrealistico con la realtà del mondo. Sì, la punizione deve essere pubblica! O si pensa che l’ammissione della colpa e la sua espiazione debbano avvenire nel complice segreto del confessionale o, come oggi si dice, in regime di privacy?

È venuta avanti una marea di battute sui “lavori socialmente utili”, cui il Ministro ha proposto di destinare eventualmente il ragazzo colpevole di bullismo. Le battute trasmettono malafede, superficialità e diserzione educativa da parte del mondo adulto. C’è un altro modo per educare all’assunzione di responsabilità, al riscatto e alla ricostruzione del Sé, se non quello di accompagnare in un ambiente, in cui si risponda a regole, a persone, a un’organizzazione collettiva? Non è questo, d’altronde, anche il senso educativo dell’alternanza scuola/lavoro? Non è la pratica il modo concreto di apprendere l’etica pubblica?

Edward Hopper, "I nottambuli" (1942)

Resterebbe da interrogarsi sull’allegra antropologia che parte della sinistra teorizza e pratica. Allan Bloom l’ha già definita nel suo libro del 1987, intitolato “La chiusura della mente americana”, “un nichilismo senza abisso”.

Un’idea della storia umana senza giudizio finale – al Liceo romano Morgani hanno deciso di non dare più i voti, ma daranno i giudizi di verità? – senza dramma, senza dolore, senza fatica. Sant’Agostino direbbe: “senza peccato originale”. Giacché, se fossimo esenti da quello, non avremmo bisogno di autorità, di educazione, di responsabilità, di pena, di espiazione.

Tutto verrebbe facile come pare accadesse nel Paradiso terrestre. Peccato che lo stiamo facendo credere anche ai nostri ragazzi. Ai quali stiamo così preparando un futuro tutt’altro che paradisiaco. Quella del peccato originale ti pare una fake news? Puoi sempre ripiegare sulla constatazione di una permanente animalità della specie sapiens. Dovrebbe bastare.

GIOVANNI COMINELLI

https://www.santalessandro.org/2022/11/26/bullismo-lutilita-di-una-punizione-pubblica-e-la-fatica-di-diventare-adulti/

 

sabato 26 novembre 2022

DON ERNESTO GIORGI: POESIA NEL CANTO


Carissimi amici, ecco il video della serata che si è svolta a Cesenatico nella chiesa parrocchiale di San Giacomo, il 27 ottobre 2022, nella ricorrenza del 50' di ordinazione sacerdotale di Mons Ernesto Giorgi dal titolo POESIA NEL CANTO con la partecipazione del Coro TERRA PROMESSA 

NEL 50° DI ORDINAZIONE SACERDOTALE DI 

DON ERNESTO GIORGI 

COL CORO TERRA PROMESSA -

NOTA: l'audio e la ripresa non sono ottimali, ma per chi ama Don Ernesto va bene anche così


venerdì 25 novembre 2022

DOMANI LA COLLETTA ALIMENTARE, RUSSI E UCRAINI INSIEME

In un supermarket di Milano anche un gruppo parrocchiale della Chiesa ortodossa partecipa domani alla raccolta del cibo per chi ha bisogno. E nel carcere minorile di Catania i detenuti offriranno la loro spesa: i volontari della Colletta saranno in pettorina arancione. Fulvio Fulvi per Avvenire.

«Quest' anno, con la Colletta alimentare, la solidarietà diventa un gesto di pace concreto. Domani a Milano, in un supermercato di via Monti, anche la comunità ortodossa parteciperà, con una ventina di persone, alla raccolta di prodotti destinati ai più bisognosi. Ucraini, moldavi, russi, saranno fianco a fianco per testimoniare che la pacifica convivenza è possibile e che la guerra è un'offesa alla dignità dell'uomo. Il gruppo sarà guidato da padre Ambrogio Makar, archimandrita del Patriarcato di Mosca, nato nel Donbass e parroco della chiesa di San Vito al Pasquirolo, zona San Babila. «Preghiamo insieme tutti i giorni, russi e ucraini, perché questo è l'unico modo per alleviare la nostra sofferenza e far crescere in tutti la speranza, e la Colletta alimentare è un'occasione ulteriore per dire che il nostro futuro deve essere insieme, due popoli in pace» afferma il sacerdote ortodosso. «Papa Francesco ha detto che viviamo una carestia di pace, una pace di cui abbiamo tanto bisogno, che si costruisce artigianalmente attraverso la condivisione - sottolinea Giovanni Bruno, presidente della Fondazione Banco Alimentare, che organizza l'iniziativa - e la partecipazione di russi e ucraini alla Colletta è un gesto concreto che va oltre la solidarietà, è il contributo a una convivenza civile pacifica, realizzata portando aiuto a tanti che hanno bisogno». 


 In tutta Italia saranno 140mila i volontari con la pettorina arancione che, distribuiti in gruppi nei circa 11mila supermercati che hanno aderito all'iniziativa, per tutta la giornata di domani inviteranno i clienti a comprare prodotti a lunga conservazione da donare a chi si è rivolto a 7.600 strutture caritative presenti sul territorio, dalle mense per i poveri alle comunità per i minori, dai banchi di solidarietà ai centri d'accoglienza. Come succede ormai da 26 anni, chi vuole potrà mettere nel sacchetto fornito all'ingresso dai volontari, verdure, tonno e carne in scatola, polpa o passata di pomodoro, olio, omogeneizzati, latte in polvere o altri alimenti non deperibili che andranno a integrare quello che il Banco Alimentare recupera tutti i giorni combattendo lo spreco di cibo. «Siamo preoccupati per la situazione che stiamo vedendo nel nostro Paese con sempre più persone e famiglie che si trovano in povertà assoluta o che rischiano di scivolarci nonostante abbiano un lavoro - commenta Bruno - è fondamentale quindi continuare a sensibilizzare tutti coloro che possono compiere un atto concreto di aiuto: partecipare a questa iniziativa significa contrastare l'indifferenza e favorire la condivisione.

 Dall'inizio dell'anno ad oggi sono state 85mila in più le richieste ricevute che hanno fatto salire a 1 milione e 750mila le persone aiutate dalla nostra Onlus».

E si ripete anche nell'edizione 2022 la colletta alimentare nelle carceri, un'esperienza che non si è fermata nemmeno durante la pandemia. In istituti di pena di Catania, Lecce, Bari, Taranto, Padova e Milano i detenuti offriranno una parte della loro spesa ai poveri, mentre a Napoli, Verona e Opera quelli autorizzati dal magistrato di sorveglianza avranno la possibilità di uscire e affiancarsi agli altri volontari nei punti vendita. «La Colletta è un gesto che arriva a tutti e i ragazzi del carcere minorile di Catania hanno dimostrato una grande sensibilità - racconta Marianna Vita, volontaria che insegna inglese nella scuola della Casa circondariale - hanno bisogno anche loro di abbracciare e di volersi bene e hanno capito quanto sia prezioso donare e donarsi. L'anno scorso, Giuseppe, uno di loro, si è presentato con due buste ricolme di brioche, cioccolate e biscotti, le uniche cose che possono ordinare i detenuti qui e ha detto: "Ecco, queste sono per chi ha più bisogno di me, io stavolta ne posso fare a meno"».

 La Fondazione Banco Alimentare è una ONLUS italiana che si occupa della raccolta di generi alimentari e del recupero delle eccedenze alimentari della produzione agricola e industriale 

https://www.bancoalimentare.it/it/comeaiutarci

mercoledì 23 novembre 2022

IL DIO PAN E' TORNATO

 Ci siamo già occupati del libro di Chantal Delsol (https://crocevia-adhoc.blogspot.com/2022/11/la-fine-della-cristianita-e-il-ritorno.html)

Riprendiamo qui una parte del libro dal blog di Sandro Magister
Il dio Pan è tornato. Riti, morale e dottrina della nuova religione della natura – Settimo Cielo - Blog - L’Espresso (repubblica.it)

L’ECOLOGIA COME RELIGIONE COMUNE

di Chantal Delsol

In questo inizio del XXI secolo, la corrente filosofica più affermata e attraente è una forma di cosmoteismo legato alla difesa della natura. I nostri contemporanei occidentali non credono più in un aldilà o in una trascendenza. Il senso della vita va trovato in questa vita stessa e non al di sopra di essa, dove non c’è nulla. Il sacro si trova qui: nei paesaggi, nella vita della terra e negli stessi esseri umani. Si è prodotta una “antropologia monista”, che si avvicina all’antico animismo. Per l’ecologismo odierno non c’è più alcuna separazione essenziale tra l’uomo e gli altri esseri viventi, né tra l’uomo e tutta la natura, che egli semplicemente abita, senza dominarla con una qualsiasi superiorità.

Per il monoteista, l’uomo si sente straniero in questo mondo immanente e aspira all’altro mondo, ed è proprio questo, ad esempio, che Nietzsche rimproverava ai cristiani. Per il cosmoteista, invece, il mondo è una dimora tutta sua, nel senso pieno del termine. Vuole abitare questo mondo come cittadino a pieno titolo, e non più come quello straniero di passaggio, quel cristiano descritto dall’anonimo autore della Lettera a Diogneto. Vuole vivere in un mondo autosufficiente che abbia in sé il suo significato, in altre parole: un mondo incantato, il cui incanto sta al suo interno e non in un aldilà angosciante e ipotetico.

L’uomo postmoderno vuole abolire le distinzioni, il suo aggettivo preferito è “inclusivo”. E il cosmoteismo gli si addice perché cancella il vecchio dualismo tipico del giudeo-cristianesimo. Sente l’esigenza di sfuggire alle contraddizioni tra il falso e il vero, tra Dio e il mondo, tra la fede e la ragione. Invece di esiliare Dio fuori del mondo, lo richiama qui e si riappropria del sacro. Per Odo Marquard, filosofo tedesco contemporaneo, il fiato corto del monoteismo offre una possibilità al politeismo di tornare al centro della scena, attraverso il ritorno di miti plurali. Il ritorno al politeismo viene da lui descritto come un’emancipazione dalla verità esclusiva, una libertà completa data al regno delle narrazioni e la fine dell’escatologia della salvezza.

L’ecologia oggi è una religione, una credenza. Non perché l’attuale problema ecologico non debba essere considerato come scientificamente dimostrato; ma perché queste certezze scientifiche sul clima e sull’ecologia producono convinzioni e certezze irrazionali, che sono in realtà credenze religiose, dotate di tutte le manifestazioni della religione.

Oggi l’ecologia è diventata una liturgia: è impossibile ometterne la celebrazione, in un modo o nell’altro, in qualsiasi discorso o frammento di discorso. È un catechismo: lo si insegna ai bambini a partire dalla scuola materna e in modo ripetitivo, per aiutarli ad acquisire le buone abitudini di pensiero e di azione. È un dogma consensuale: chi pone delle questioni al riguardo, o chi solleva il minimo dubbio, è considerato come un pazzo o un malfattore. Ma soprattutto – e questo è il chiaro segno di una credenza e non certo di una scienza razionale – la passione per la natura fa accettare tutto ciò che era rifiutato dall’onnipotente individualismo: la responsabilità personale, il debito imposto verso i discendenti, i doveri verso la comunità. È quindi in nome di questa religione immanente e pagana che reintegriamo tutte le dimensioni indispensabili dell’esistenza, che prima erano assunte e coltivate dal cristianesimo.

Al di là della necessaria tutela dell’ambiente, troppo a lungo trascurata dall’era industriale, il pensiero ecologico sviluppa una vera e propria filosofia di vita. Non rimane al livello della difesa dell’ambiente. C’è una ragione ben precisa di questo fatto. Abbiamo tutta una tradizione cristiana di difesa della natura, da san Francesco o santa Ildegarda di Bingen fino, ai giorni nostri, al “filosofo contadino” Gustave Thibon. In questa tradizione, la natura è considerata come una creatura divina e come tale protetta; la difesa della natura si inserisce all’interno della fede nella trascendenza e di un umanesimo che pone l’uomo al centro. Ma quando la cristianità svanisce, e con essa la trascendenza, è inevitabile che il sacro riappaia in una forma o nell’altra. Nel momento in cui la difesa dell’ambiente si afferma come un dovere urgente ed evidente, la natura si vede allora sacralizzata, cioè messa al riparo, stabilita al di sopra, resa inviolabile.

La nuova religione ecologica è una forma di panteismo postmoderno. La natura diventa oggetto di un culto, più o meno evidente. La madre terra diventa una specie di dea pagana, e non solo tra gli indigeni boliviani, anche tra gli europei. Tanto che papa Francesco parla oggi di “nostra madre terra”, in senso cristiano ovviamente, ma lasciando aperta l’ambiguità che permette il legame con le credenze contemporanee. I nostri contemporanei difendono in tutte le sue forme la natura snaturata dall’uomo, così come non esitano ad abbracciare gli alberi. Siamo in una fase in cui, nel vasto campo aperto dalla cancellazione del cristianesimo, nuove credenze si affacciano: e soprattutto il panteismo che traduce in religione la difesa dell’ambiente.

I cristiani di oggi, sconvolti dalla caduta della loro influenza, tendono a sostenere che ogni moralità scomparirà con la cancellazione del monoteismo. Ma ciò significa disconoscere la storia. Le morali e le religioni non nascono assieme, e non sono le religioni a generare le morali, fino all’avvento del giudeo-cristianesimo. Nei mondi antichi, politeisti, la morale viene dalla società e ha un’origine tutta umana: derivata dai costumi, dalle tradizioni. La religione è di un altro ordine. Gli dei esigono sacrifici e generano riti. Le norme morali richiedono obbedienza. Tra i popoli politeisti, è lo Stato ad essere il custode della morale. Incredibile e nuovo è lo spettacolo di Mosè che scende dal monte con le tavole della legge: qui sì per la prima volta la morale viene da Dio.

Ma all’inizio del XXI secolo la Chiesa abbandona il suo ruolo di custode delle norme morali e quest’ultimo passa di nuovo allo Stato. La molteplicità di credenze morali e religiose che abitano i nostri Paesi – ben visibili attraverso la diversità rappresentata nei comitati etici – porta necessariamente a un’amplificazione del ruolo del potere politico. Quest’ultimo, rappresentato dalle sue élite tanto consapevoli quanto attive, torna ad essere il custode della morale quale era stato prima del lungo periodo di cristianità.

Oggi gli occidentali non vogliono più che questa tutela sia assicurata dalle religioni, dai chierici. Preferiscono quella autorità neutra che è lo Stato, che sono le élite istituzionali o di influenza. Questo è il motivo per cui oggi il “mainstream” ufficiale si assume il diritto di proteggere la morale e di impedirne le deviazioni, nonché di ostracizzare i devianti. I conduttori dei talk show sono le sentinelle e talvolta i cerberi della morale comune. Non necessariamente i produttori, perché la morale proviene da molte fonti, ma le sentinelle, coloro che vigilano sulla sua esecuzione. Hanno assunto il ruolo che svolgevano i vescovi ancora mezzo secolo fa.

LA CARRIERA ALIAS E LA SOCIETA’ QUEER

CI MANCAVA SOLO LA «CARRIERA ALIAS» NEI BAGNI

Eccoli, sono tornati a manifestare. Dopo anni di letargo. Venerdì scorso è andato in scena il “No Meloni day'. Giovani cazzoni chic che hanno bisogno di alimentare il loro odio, che è poi l’unico modo per darsi un’identità. Sono caricature degli anni 70, ma quando la storia si ripete due volte, la tragedia diventa farsa. Comunque il copione è stato rispettato: fumogeni, scritti, insulti (alla premier).

La lotta  degli studenti, guidati, come tradizione da sparuti gruppi di Collettivi Studenteschi, è contro la Scuola "del merito” promessa  dal nuovo governo ma soprattutto a sostegno del “meticciato di una società queer”. Queer significa chi è sessualmente, etnicamente o socialmente eccentrico. Sintetizzando si tratta di una promozione della cultura “WOKE”, proveniente dalla parte decadente dell’America.

Con il termine woke viene indicata quella prassi che vuole criminalizzare il passato e imporre i “valori” delle minoranze alle maggioranze. In sostanza modellare la società secondo i desiderata di piccoli gruppi.

Anche in Italia paradigmatico il caso del movimento LGBTQ (Lesbiche-Gay-Bisessuali-Transessuali-Queer) che nelle nostre scuole vuole imporre la cosiddetta “carriera alias”. Si tratta di uno strumento da applicare per trattare alunni e studenti in base alla loro “identità di genere” aut0-percep1ta e non del sesso biologico maschile o femminile.

Parliamo di una percezione psichica soggettiva che si declina in varianti potenzialmente infinite ma prive di qualunque riscontro scientifico. Una casistica approssimativa comprende: agender (chi non si riconosce in un genere sessuale), bigender ( persona che si identifica in due identità di genere diverse), pangender (individuo che si identilìca in più generi), cisgender (chi è a suo agio con il proprio genere biologico), transgender (chi combina caratteristiche maschili e femminili contemporaneamente), genderfluid (colui che rifiuta di riconoscersi in un'identità di genere definita), no-binario (chi non riconosce di appartenere al genere maschile né a quello femminile).

Se una scuola approva la “carriera alias" alunni e studenti possono chiedere di essere trattati in base all'identità di genere auto-percepita e non al sesso biologico. A questo punto in registri, elenchi e documenti scolastici si sostituisce il nome anagrafico con quello scelto in base alla nuova identità di genere.

Bagni e spogliatoi saranno, quindi, utilizzati in base al genere percepito e non al sesso biologico. Questo passaggio può essere fatto senza informare i genitori e non serve alcuna diagnosi medica di distrofia di genere. Un’aberrazione che però si sta rapidamente diffondendo nelle nostre scuole: sono oltre cento trenta gli istituti scolastici che hanno introdotto la carriera alias nei loro regolamenti interni.

È stata l'associazione Pro Vita e Famiglia a lanciare l'allarme. Il portavoce Iacopo Coghe spiega: «La carriera alias non rispetta la legge perché non si possono modificare dati anagrafici senza apposita sentenza del Tribunale, non rispetta la scienza perchè ci vuole una diagnosi medica per accertare la distrofia di genere, non rispetta i giovani ei loro fisiologici  momenti di incertezza, non rispetta le famiglie che possono non essere informate della scelta e non rispetta la scuola perché i docenti devono accettare un'autodichiarazione e se non si adeguano possono essere accusati di discriminazione o transfobia».

 

FRANCO PRODI: “IL CLIMA? NESSUNA PROVA SIA COLPA DELL’UOMO. MA IO VENGO PERSEGUITATO”

 L’intervista a La Verità: “Vogliamo che le autorità considerino che colpevolizzare al 100% l’uomo per l’aumento della CO2 non è scientificamente accertato”

Intervista di Franco Prodi rilasciata a Tommaso Mattei per La Verità.

«Dire che l’uomo possa incidere sul clima al 98% è assolutamente fantasioso». Lo sostiene senza mezzi termini Franco Prodi, fisico e studioso di fisica dell’atmosfera. Eppure oggi il mondo sembra dover cambiare sulla base di questo assunto. «Questo pensiero unico ha prodotto su di me vere e proprie persecuzioni». La transizione energetica entro il 2030? «Una strada molto pericolosa». Quando chiedo il permesso di pubblicare le sue parole, il professor Prodi sorride: «Beh, le cose riportate sono sempre a rischio».

Incendi in Grecia 2021

A Sharm El-Sheikh si è appena concluso uno dei più grandi appuntamenti climatici del mondo.«Sono sempre stato molto critico nei confronti della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e anche quella di quest’anno mi sembra in linea con le precedenti. Si chiama Cop27 ma questa serie di numeri non è che abbia portato miglioramenti o suggerimenti che siano stati, poi, fedelmente seguiti».

Che cosa intende? «Io critico questo forum di contatto fra le Nazioni Unite e alcuni scienziati perché nel tempo è diventato un pensiero unico come se i documenti, i rapporti finali che escono da queste conferenze fossero il verbo della scienza del clima. Non è così».

Cosa sono, allora? «Sono forum di contatto, appunto, fra le Nazioni Unite e alcuni scienziati. Ma la scienza procede per altre strade, per altri sentieri che possono essere più tortuosi e più lunghi ma più sicuri».

Che vuole dirci? «Bisogna procedere con i lavori scientifici sulle riviste internazionali riconosciute che hanno il famoso peer review, lo strumento che permette di sottoporre queste pubblicazioni ad attente e approfondite revisioni prima di essere diffuse. Poi bisogna procedere seguendo le conferenze ufficiali ma, soprattutto, le associazioni scientifiche formali come, ad esempio, la International Union of geodesy and geophysics (Associazione internazionale di geodesia e geofisica, ndr) che è associata alla International Association of meteorology and atmospheric physics».

A proposito di conferenze e documenti, lei con altri grandi scienziati ha firmato un documento, una sorta di petizione, per discutere dei problemi climatici.«Sì, abbiamo promosso questa petizione dal titolo eloquente: “Non c’è emergenza climatica”. Ci siamo trovati d’accordo partendo dalle diverse specializzazioni scientifiche che ognuno possiede. Nel mio caso ho posto l’attenzione sulle nubi».

Perché? «Le nubi, che studio da decenni, sono il centro del sistema climatico perché incrociano ciò che arriva dalla Terra e ciò che proviene dal Sole nel bilancio di radiazione. Se prevalgono i fotoni solari la Terra si riscalda. Se prevalgono quelli terresti, essa si raffredda».

Franco Prodi

Quali altri aspetti sono stati illustrati? «Il collega professor Scafetta si è concentrato nell’osservazione inerente l’attività solare: dalla serie storica dei dati traspaiono cicli di 60 o 120 anni nei climi del passato. I colleghi geologi hanno portato reperti storici che hanno permesso l’analisi dei traccianti dei climi del passato».

La summa quale è stata? «Convergendo tutti questi dati abbiamo convenuto che fosse da arginare questo pensiero unico, formatosi nel frattempo, di un’emergenza climatica. La storia della Terra fa trasparire questi cicli. Negli ultimi 2.000 anni abbiamo visto molti segni, come il periodo caldo romano, quello medievale, la piccola glaciazione del 1600-1700, il processo di ritirata dei ghiacciai. Così abbiamo formulato questa petizione alle autorità».

Il vostro messaggio principale? «Vogliamo che le autorità considerino che colpevolizzare al 100% l’uomo per l’aumento della CO2 non è scientificamente accertato».

E come sta andando? «La petizione ha avuto subito un’eco internazionale: la Clintel, una delle associazioni più importanti sul clima con più di 1.500 scienziati, ha condiviso e diffuso la nostra cautela».

Gran parte della comunità scientifica vi accusa di essere solo dei negazionisti. «Io non nego che un cambiamento antropico ci possa essere, ovvero che in qualche misura l’uomo possa incidere sul clima, ma quantificare la responsabilità umana al 98% è assolutamente fantasioso e non basato su risultati scientifici».

Che tipo di riscontro state avendo dalla politica? «I politici in questi decenni di dialogo sono arrivati a fidarsi solo dei modelli. È vero, i modelli sono importanti quando sono in grado di formulare previsioni, come ad esempio nella meteorologia. Nessuno si sogna di fare il weekend senza consultare il meteo, ma perché sappiamo che quei modelli sono affidabili. Non è questa la condizione per il clima».

Perché? «Nell’analisi del clima convergono tante sottodiscipline. Per studiare i cambiamenti climatici bisogna tener presente molti fattori, come l’immissione della CO2, l’attività dei vulcani o il calore che proviene dall’interno della Terra. Tutti questi aspetti nei modelli correnti non vengono analizzati correttamente, tanto che si producono scenari molto diversi tra loro: le previsioni di riscaldamento della Terra in questo secolo vanno da un grado e mezzo fino a 6/7 gradi. I modelli servono al progresso della scienza, ma non sono da utilizzare in questo contesto».

Allora perché regna questo continuo allarmismo e questa colpevolizzazione dell’uomo? «È appena uscito un libro curato dal professor Alberto Prestininzi nel quale si affronta anche questo tema analizzando i retroscena mondiali. Ci sono interessi della finanza internazionale e di gruppi di pressione che vogliono cambiare la produzione industriale, per esempio le auto elettriche. Ma non voglio entrare nell’argomento, cerco il confronto scientifico attraverso la petizione di cui abbiamo parlato».

C’è stato questo confronto? «Per ora ci è stato negato. Ci sono stati negati incontri con il presidente Draghi e con il presidente Mattarella».

Greta Thunberg

Verrebbe da demoralizzarsi. «La nostra convinzione è che questa strada di aderenza al progresso della scienza del clima e il tener fede allo spirito perenne dell’università, inteso come ricerca, dev’essere indipendente dalle sollecitazioni e dai pensieri già acquisiti come pensieri unici, che vanno messi sempre in discussione. Questa è la motivazione che ci ha spinto a fare tutto questo con un atteggiamento molto sereno».

In verità, l’aria che si respira su tutto ciò non sembra tanto serena. «Devo dire che questo pensiero unico ha prodotto su di me – uso la parola che va usata – vere e proprie persecuzioni».

In che senso, professore? «Ho creato l’area di ricerca del Cnr di Bologna dal 1985 al 1993, ho diretto il maggior istituto di fisica dell’atmosfera del Paese per 20 anni. Ma oggi non posso più entrare nell’area di ricerca che ho creato, ho dovuto abbandonare i laboratori sperimentali che ho messo in piedi nel corso di una vita e che tra l’altro sono in condizione penosa».

Queste parole suonano come un monito. «Bisogna stare attenti perché anche la ricerca può essere influenzata, la cessione dei fondi può essere legata al portare risultati che convalidino questo pensiero unico. Tutto ciò può essere pericoloso per il modo stesso in cui la scienza deve procedere, ovvero in un modo assolutamente indipendente e soprattutto non a maggioranza».

Il dibattito del mondo scientifico si articola su messaggi più rassicuranti, come ad esempio che il clima si può governare. È possibile? «No. Dire che la temperatura globale si alzerà di 1,5 gradi entro il 2050 non ha senso: sarebbe possibile solo se si fosse compreso veramente il sistema climatico nella sua interezza con le sue basi fisiche. Io mi aspetto molto, non solo dal perfezionamento dei modelli, ma anche da missioni spaziali orientate alla risposta sul clima».

Che fare nel frattempo? «Suggerisco di stare attenti alla riduzione dell’inquinamento e alla tutela dell’ambiente planetario».

Così, però, sembra dar ragione al pensiero comune. «So bene che è una cosa difficile da far capire al grande pubblico. Intendo questo: non è detto che gli sforzi propagandati per ridurre il riscaldamento possono portare a una riduzione dell’inquinamento planetario».

Ovvero? «Gli sforzi devono essere fatti verso questa tutela, perché l’inquinamento è misurabile mentre sul riscaldamento si discute se abbia motivi naturali o sia colpa dell’uomo. Sull’inquinamento non ci può essere alcuna controversia perché si tratta di misure rilevate da satelliti o stazioni. Le Nazioni Unite dovrebbero preoccuparsi di questo, della tutela dell’ambiente e di un uso dell’energia compatibile con le risorse fossili esistenti».

A proposito di questo. È vero che le fonti energetiche sono in esaurimento e serve un cambio di rotta? «Il dato su quante risorse ci siano veramente nel pianeta fra gas naturale, petrolio e minerali uraniferi è nelle menti di pochissime persone. Questa, però, dovrebbe essere la base per ripartire con un accordo internazionale che abbia non più la pretesa di tenere a bada il riscaldamento globale, ma di tutelare un pianeta in cui la popolazione ha superato gli 8 miliardi di individui».

Crede sia possibile la transizione energetica che l’Europa vuole attuare entro il 2030? «Spero di no. Non sono d’accordo sulla transizione energetica perché le fonti di energia rinnovabile, escluso l’idroelettrico, hanno fortissime limitazioni. Spero davvero che l’Europa si accorga presto di aver preso una strada molto pericolosa per il lavoro e per l’economia. Bisogna stare attenti a non proporsi obiettivi irraggiungibili ma anche dannosi per l’economia».


martedì 22 novembre 2022

GRAZIE DON GIUSSANI PERCHÉ CI HAI REGALATO IL TUO TEMPO

L’intervento di monsignor Massimo Camisasca al convegno sul fondatore di Comunione e Liberazione in occasione del centenario della nascita

 


Don Giussani, so che sei qua. Non solo attraverso il bellissimo quadro di Fosco Bertani, non solo perché sono convinto che la morte non recida il legame con il presente. Sei presente attraverso di noi, di tutti noi che, in un modo o in un altro, siamo qui ancora per imparare da te, per camminare traendo insegnamento da quello che tu hai vissuto.

E allora voglio dirti, don Giussani, alcuni grazie. E li dico, non per fare una celebrazione di te, che non ne hai bisogno e neppure semplicemente per evocare il passato, ma per dire ciò di cui abbiamo bisogno oggi, oggi più che mai.
Il primo grazie: tu negli anni ‘50 hai lasciato Venegono, il seminario, dove insegnavi teologia e dove avresti avuto un futuro brillante. Hai saputo tagliare. Ma per cosa? Per chi?
Per i ragazzi.
Sapevi benissimo, come anche noi dovremmo sapere, che l’albero si rinnova continuamente dal basso, dalle radici. Se noi non abbiamo a cuore i ragazzi non possiamo neppure più riconoscere noi stessi. Credevi veramente che in ogni generazione ci fosse un dono. Anche i ragazzi di oggi hanno un dono. Non dobbiamo guardare alle difficoltà di relazione con loro come a un muro, ma come ad una prova per la nostra vita di adulti. I ragazzi ci mettono alla prova, magari senza saperlo. Come possiamo trasmettere loro una ragione per vivere, se non crediamo neppure in ciò che diciamo?

Grazie Giussani per avere avuto il coraggio di tagliare, di venire in un’altra città, Milano. Una città grande, una città difficile, una città in cui tu hai voluto cominciare a parlare ai ragazzi in un liceo. Perché non solo amavi i ragazzi, ma amavi ancor di più ciò che tu avevi incontrato, da ragazzo e poi da giovane, e poi da uomo. E volevi che questo fosse un incontro fra loro e te, o meglio, fra loro e ciò che viveva in te e che ti faceva vivere. Ma sapevi che questo non poteva passare attraverso una predica, o delle Messe celebrate ogni tanto, neppure attraverso dei libri, e neppure, in fondo (sto dicendo qui qualcosa di ardito e apparentemente contraddittorio), attraverso le tue lezioni, che pure sono state decisive. Ma innanzitutto attraverso il tempo che tu davi a questi ragazzi.
Se ci fosse stato solo un tuo insegnamento (io ne sono stato uno dei fortunati ascoltatori e quell’insegnamento mi ha sconvolto la vita, vi assicuro) se non ci fosse stata Gs, una comunità, nata da quelle parole, quell’insegnamento sarebbe diventato il ricordo struggente di una cosa impossibile. Hai deciso di dare del tempo. Dare del tempo vuole dire dare se stessi.
La prima evidenza della crisi che vive la generazione adulta nei confronti dei piccoli è che non hanno più tempo per loro. Perché preme altro: il lavoro, il successo, l’essere apprezzati. Non si sa più riconoscere che il tesoro di una famiglia sono i figli, e che, come ogni tesoro, è impegnativo. Gesù dice nel Vangelo: colui che ha trovato un tesoro ha dato tutto per prendere quel campo (cfr. Mt 13,44). Quando uno scopre nei ragazzi un tesoro, vende tutto. Non c’è cosa più importante di loro.
Loro ci guardano. Ci guardano anche quando si ribellano perché si attendono tanto da noi. Non guardiamo a questa generazione di ragazzi semplicemente dal punto di vista della difficoltà. Guardiamoli come un’opportunità.

Foto di Elio Ciol

La nostra generazione ha avuto l’enorme difficoltà delle ideologie in cui eravamo immersi. Oggi la difficoltà è la confusione, è l’esaltazione della fuggevolezza dei sentimenti, è il ripiegamento su se stessi. Noi possiamo essere la mano che prende i ragazzi per accompagnarli ad attraversare la nebbia. Ma per arrivare ai ragazzi occorre tempo, tempo per stare con loro.
Lo dico innanzitutto ai papà e alle mamme: un bambino che non ha mai avuto la gioia di rotolarsi nel prato con suo papà, un bambino o una bambina che non hanno mai sentito la mamma alla sera leggere o raccontare qualcosa perché c’è la televisione, c’è da rispondere al cellulare…
Il tempo è il sacramento più importante di Dio. Se noi non diamo del tempo, non creiamo relazioni. Non ci sono relazioni al di fuori del tempo. È una delle ragioni fondamentali per cui le famiglie vanno in crisi. L’uomo non ha più tempo per la donna e la donna non ha più tempo per l’uomo. Non si incontrano, non si incrociano, non c’è più la gioia delle giornate passate assieme, perché tutto preme, tutto è più importante. Non si sa fare la gerarchia delle cose che contano. Quanto è, invece, importante tale gerarchia.

ACS: DIFFUSO IL REPORT SUI CRISTIANI “PERSEGUITATI PIÙ CHE MAI”. CRESCE L’OPPRESSIONE NEL MONDO

Diffuso oggi il Rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) “Perseguitati più che mai”. Nel 75% dei 24 Paesi esaminati l'oppressione o la persecuzione dei cristiani è aumentata. Prossima tappa: il 20 aprile 2023 Acs presenterà la nuova edizione del Rapporto sulla Libertà religiosa

 Daniele Rocchi Agensir 17 Novembre 2022

“Perseguitati più che mai. Rapporto sui cristiani oppressi per la loro fede 2020 – 2022”: è il titolo della ottava edizione del Rapporto della Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs), diffusa oggi, e che offre un quadro della sofferenza dei cristiani oppressi per motivi di fede.

Lo studio presenta “informazioni della stessa Acs e di fonti locali, testimonianze di prima mano, raccolte di eventi di persecuzione, studi di casi e analisi nazionali” da porre all’attenzione della pubblica opinione, dei mass media e dei responsabili istituzionali. Il report esamina 24 Paesi in cui le violazioni della libertà religiosa destano particolare preoccupazione: Afghanistan, Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord, Egitto, Eritrea, Etiopia, India, Iran, Iraq, Israele e i Territori Palestinesi, Maldive, Mali, Mozambico, Myanmar, Nigeria, Pakistan, Qatar, Russia, Sri Lanka, Sudan, Siria, Turchia e Vietnam. Il periodo di riferimento va dall’ottobre 2020 al settembre 2022.

 

Africa. Secondo i contenuti di “Perseguitati più che mai”, spiega Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia, “nel 75% dei 24 Paesi esaminati l’oppressione o la persecuzione dei cristiani è aumentata. L’Africa registra un forte aumento della violenza terroristica, a causa della quale oltre 7.600 cristiani nigeriani sarebbero stati assassinati tra gennaio 2021 e giugno 2022. Nel maggio di quest’anno è stato pubblicato un video che mostrava 20 cristiani nigeriani giustiziati dai terroristi islamisti di Boko Haram e della Provincia dell’Africa occidentale dello Stato Islamico (Iswap). I due raggruppamenti cercano infatti di fondare califfati nella regione del Sahel, ciascuno con il proprio wali (governatore) e la propria struttura governativa. In Mozambico, Al-Shabab ha intensificato la sua campagna di terrore, uccidendo i cristiani, attaccando i loro villaggi e appiccando il fuoco alle chiese. Il gruppo, affiliato allo Stato Islamico (Isis), ha provocato la fuga di oltre 800.000 persone e la morte di altre 4.000”.

Medio Oriente. Dal Rapporto emerge che “in Medio Oriente la crisi migratoria minaccia la sopravvivenza di alcune delle comunità cristiane più antiche del mondo. In Siria, i cristiani sono crollati dal 10% della popolazione a meno del 2%, passando da 1,5 milioni del periodo precedente la guerra ai circa 300.000 di oggi. Nonostante il tasso di esodo in Iraq sia più basso, una comunità che contava circa 300.000 persone prima dell’invasione da parte di Daesh/Isis nel 2014, nella primavera 2022 si era ormai dimezzata”. Questa minaccia esistenziale, si legge nel Report, si estende ad Israele e Palestina: “A quasi 75 anni dalla creazione dello Stato di Israele, i cristiani in Cisgiordania sono diminuiti dal 18% a meno dell’1% attuale. Anche in questo caso, i militanti sono una delle principali preoccupazioni. Gruppi come Hamas sono visti come fattori di spinta alla migrazione dalla Cisgiordania. Sebbene il numero complessivo di cristiani in Israele sia in crescita – con un aumento dell’1,4% nel 2021 – i continui attacchi da parte di gruppi marginali di estremisti ebraici hanno portato i leader della Chiesa a parlare di “un tentativo sistematico di allontanare la comunità cristiana da Gerusalemme e da altre aree della Terra Santa” accusando le autorità di non fare nulla per proteggerla.

Rapimenti e stupri sistematici. Dallo studio di Acs emerge anche che in Paesi diversi come l’Egitto e il Pakistan le ragazze cristiane sono abitualmente soggette a rapimenti e stupri sistematici. Tra le testimonianze riportate anche quella di mons. Jude A. Arogundade, vescovo di Ondo, la cui diocesi nigeriana è stata presa di mira da uomini armati che hanno ucciso più di 40 persone durante la celebrazione della Pentecoste nel giugno scorso. Commentando la presentazione del Rapporto il presule dichiara che, “nonostante il crescente allarme per l’aumento della violenza in alcune parti del Paese, nessuno sembra prestare attenzione al genocidio in atto nella Middle Belt della Nigeria. Il mondo tace mentre gli attacchi alle chiese, al loro personale e alle istituzioni sono diventati routine. Quanti cadaveri sono necessari per attirare l’attenzione del mondo?”

Asia. In Asia, spiega il Report, “l’autoritarismo statale ha portato a un peggioramento dell’oppressione anzitutto in Corea del Nord, dove fede e pratiche religiose sono ordinariamente e sistematicamente represse. Il nazionalismo religioso ha innescato crescenti violenze contro i cristiani asiatici, basti pensare ai gruppi nazionalisti hindutva e singalesi buddisti, attivi rispettivamente in India e Sri Lanka. Le autorità hanno arrestato fedeli e interrotto le funzioni religiose. L’India ha fatto registrare 710 episodi di violenza anticristiana tra gennaio 2021 e l’inizio di giugno 2022, causati in parte dall’estremismo politico”. “Durante una manifestazione di massa in Chhattisgarh nell’ottobre 2021 – afferma il direttore Monteduro – i membri del Bharatiya Janata Party (BJP) al governo hanno applaudito il leader religioso indù di destra Swami Parmatman e hanno chiesto l’uccisione dei cristiani. In Cina le autorità hanno aumentato la pressione sugli stessi cristiani, mediante arresti indiscriminati, chiusura forzata delle chiese e uso di sistemi di sorveglianza oppressivi”.

Proseguendo nel proprio percorso di studio e di analisi delle violazioni alla libertà religiosa nel mondo, il 20 aprile 2023 Aiuto alla Chiesa che Soffre presenterà la nuova edizione del Rapporto sulla Libertà religiosa.

venerdì 18 novembre 2022

RICORDARE PER CONTINUARE IL CAMMINO

 A 100 anni dalla nascita di don Giussani Cesena ricorda l'inizio del movimento  avvenuta 60 anni fa . 

 Francesco Zanotti Direttore Corriere Cesenate 

Il canto "La strada" ha aperto, ieri sera al teatro Verdi, la serata con cui il movimento di Comunione e liberazione ha inteso avviare una serie di momenti per ricordare il fondatore don Luigi Giussani a 100 anni dalla nascita. L'evento è stato organizzato con il centro culturale "Campo della stella" e con il patrocinio del comune di Cesena. Tra i tanti ospiti anche il vescovo Douglas Regattieri che ha ricordato l'importanza del fare memoria, come avviene ogni domenica durante la Messa. "Questo vale anche per voi - ha aggiunto il presule - che celebrati i 60 del movimento a Cesena. È importante ricordare per continuare il cammino".

Il sindaco Enzo Lattuca, impossibilitato a intervenire, ha inviato un messaggio letto da Massimo Bassi, responsabile di Cl a Cesena, che ieri sera ha condotto l'incontro. Tra l'altro, Lattuca ha voluto mettere in evidenza i segni lasciati da don Giussani in città in tanti che lo hanno seguito allora e anche oggi. Una presenza significativa per tutti.

Don Ernesto Giorgi

 uno dei primi ragazzi cesenati che lo conobbe, ha ricordato gli inizi del movimento nella nostra Diocesi. "Era il 1962 - ha detto con evidente emozione -. Avevo 16 anni. Nessuno mi aveva mai parlato di un Gesù vivo e affascinante. E di una Chiesa come luogo amichevole e attraente". Poi il ricordo più intimo. "Ricordo - ha aggiunto il sacerdote, già economo diocesano e ora vicario episcopale per l'economia - che don Giussani mi battè una mano sulla spalla, eravamo a palazzo Ghini, nella sala degli angeli e me lo ricordo come se fosse adesso, e mi disse: rosso, andate avanti". Poi il giovane Ernesto Giorgi divenne il primo presidente di Gioventù studentesca a Cesena. 

Anche il docente di Filosofia morale all'università di Milano, Carmine di Martino, ha fatto memoria dei suoi primi incontri con Cl e con don Giussani e ha parlato della sua Strada, quella indicata dal canto iniziale. "Arrivai all'università - ha detto il prof - nel 1977-78 e mi imbattei nel banchetto matricoleMi accorsi subito che l'università, per quei giovani, era la loro casa. Erano seri e lieti. Ho cominciato a vivere con loro. Ricordavano spesso: perché come dice don Giussani... Allora ho cercato tutto quello che c'era di scritto di quel prete. In una settimana ho letto tutto. Certo, non era tutto quello che c'è oggi, ma mi sono cercato davvero tutto quello che allora esisteva, anche appunti, interventi, foglietti. Mi sono immerso in quella vita e in quei testi".

Carmine de Martino

Poi il tratto caratteristico, quello che fece breccia nel giovane Di Martino di allora, uno che comunque conosceva il cristianesimo. Quel don "aveva una simpatia travolgente - ha proseguito il docente - e un fuoco... e poi come parlava. Ascoltare quelle stesse parole che avevo letto dal vivo aveva una potenza particolare, senza retorica. Il suo discorso era innovativo, come ha ricordato poco fa don Ernesto. Era come se si rivolgesse direttamente a me. Ognuno di noi che lo ascoltava aveva quell'impressione, come se ci conoscesse uno a uno. C'era pertinenza con la mia vita di quella sua proposta folgorante. Al corso sul Senso religioso ci andavo anche se ero ammalato. Non mi potevo perdere quelle occasioni così preziose per me".

Lo sguardo di don Giussani, ha detto ancora Di Martino (Dima per gli amici), "arrivava alla radice del cuore. E oggi posso dire di avere fatto quell'esperienza. Era come duemila anni fa. Gesù Cristo non è fatto per l'aria , ma era un uomo incontrabile. Dio ti raggiunge con la realtà fisica di un'umanità. Si rinnovava la stessa esperienza", quella vissuta dagli apostoli in Galilea.

E l'incontro decisivo come è avvenuto e perché? Questa la domanda che aleggia sul ragionamento a cuore aperto di Dima. "Attraverso un'umanità che non ha paragoni, che segnava un punto di discontinuità con tutto il resto - ha precisato il prof -. Finalmente avevo incontrato qualcosa che corrispondeva alle esigenze profonde della mia umanità. La verità era sperimentabile. In quell'incontro con don Giussani e con le persone che lo seguivano feci esperienza dell'avvenimento cristiano. Il cristianesimo è una realtà umana con tratti distintivi rispetto al resto che corrispondeva alle domande della mia umanità. Don Gius ha tolto il cristianesimo a parole e valori rispettabili e li ha fatti diventare vita".

È come il "vieni e vedi" che si legge nel Vangelo. Questa è l'esperienza cristiana che uomini e donne di oggi possono sperimentare grazie al carisma diffuso da don Giussani. "Il cristianesimo è un fatto - ha aggiunto Di Martino - un avvenimento di cui posso saggiare la congruenza con le mie esigenze. Il mistero si rende oggetto di un'esperienza. E ciò accade ora, non è accaduto tempo fa. Ora. E riguarda tutta la persona". Poi la confidenza in pubblico. "Avevo questa domanda che mi frullava in testa - ha specificato Dima -. Io che c'entro con la resurrezione di Cristo? Sono arrivato dopo, come può valere per me? Quella domanda mi inquietava. La credibilità del cristianesimo è in quell'esperienza che ho iniziato a fare lì. Allora quella resurrezione di Cristo è per me una vita nuova, una mia rinascita. La fede, allora, introduce una novità nella vita. Ecco, di questo incontro e di questa esperienza sarò sempre grato".

Michele Brambilla
"Lavoravo al Corriere della sera - ha aggiunto il giornalista Michele Brambilla, già direttore del Qn - Il Resto del Carlino -. Era il 1996. Ero un cronista di Milano, niente di più. Un giorno mi telefonò Alberto Savorana che si occupava della comunicazione di Cl e mi disse che don Giussani mi voleva conoscere. Qualche volta avevo scritto di Cl sulla cronaca di Milano. Mi venne a prendere con una Ford Escort verde e mi portò dalle suorine, dove abitava don Giussani. Vidi da lontano un uomo curvo, lungo la strada. E quel prete che mi aspettava. Poi mi ascoltò come se fossi una persona importante, ma lui faceva sentire tutti importanti per il modo con cui ascoltava le persone".

Poi arrivò anche un confronto sul cristianesimo. "Le sembra ragionevole - chiese don Giussani al giornalista - che una chiave sbagliata possa aprire una porta? Non potrà essere vero il contrario?". Non fu una conversione per Brambilla, ma una svolta sì. "Di certo compresi - ha ammesso l'ex direttore - che la vita può avere un senso solo se il cristianesimo è vero. Non esiste nessuno che non abbia dubbi. Tutti hanno l'esigenza di avere un senso. E don Giussani proponeva un cristianesimo senza regole morali e frasi fatte. Un cristianesimo, il suo, sperimentabile". 

Poi un giudizio sul libro "Il senso religioso", un volume rivoluzionario, ha aggiunto l'opinionista. "Don Giussani ha generato un popolo, come siete voi qui questa sera, che siete qui non per noi, ma per lui, un gigante della fede sulle cui spalle noi nani tentiamo di andare avanti". 

Di Martino, in un secondo giro di interventi, ha detto che per lui il movimento di Cl ha significato e significa ancora oggi "sbattere il muso in un'umanità desiderabile. Dai frutti, dice il Vangelo, conoscerete l'albero. Questo fatto ci rende noto che in quel luogo c'è qualcosa di interessante. Si tratta di una vita cambiata, riuscita. Non un incontro e un messaggio scorporati da una faccia. Quella novità introdotta da don Giussani riaccade ancora oggi rivelandosi con irruenza".

Poi la chiusa finale, ricordando il discorso di papa Francesco il 15 ottobre scorso, a Roma. "Il Papa, con un ordine diverso, ci ha ricordato cultura, carità e missione che indicava don Giussani. Significa che la fede ha a che fare con tutti gli aspetti della vita. Ricordare e generare, questo è la consegna per noi ora". In una parola: "È l'esperienza rinnovata della freschezza originaria del carisma". 


Le foto sono di Pier Giorgio Marini