Dalle colonne de "Il Foglio", il sociologo Sergio Belardinelli racconta di don Giussani e di quella volta che lo sentì parlare del rapporto tra l'uomo e il potere
Beato Angelico, Annunciazione Convento di San Marco Firenze |
Premetto che non ho mai fatto parte del movimento. Mi sono iscritto all’università nel 1971 e da studente credo di non aver mai conosciuto personalmente un “ciellino”. Eppure, già allora, mi piaceva soprattutto l’estraneità del movimento alla dialettica destra/sinistra e la sua coraggiosa testimonianza di una chiesa, saldamente ancorata alla centralità di Gesù Cristo, capace per questo di produrre novità culturali e politiche che, almeno io, non avevo mai visto prima. L’ammirazione crebbe ulteriormente allorché, da giovane professore, conobbi alcuni colleghi legati al movimento e incominciai a leggere gli scritti di Luigi Giussani, in particolare Il senso religioso e Il rischio educativo. Rimasi affascinato dal modo in cui Giussani parlava di Gesù Cristo, della Chiesa e del suo modo di farsi storia. Era un modo che non aveva nulla a che fare col manierismo di sinistra che colonizzava la cultura di quegli anni, compresa quella di gran parte del mondo cattolico, ma non aveva nulla a che fare nemmeno col clericalismo conservatore che cercava in qualche modo (e invano) di resistervi. La migliore teologia del Novecento, da De Lubac a Congar a Chenu fino a Balthasar e Ratzinger, si intrecciava con i migliori tentativi di comprensione filosofica della modernità, da Guardini a Del Noce a Spaemann. Rispetto a ciò cui eravamo abituati nei dibattiti culturali del nostro paese, sembrava di essere su un altro pianeta. Indimenticabile in proposito un incontro italotedesco che un gruppo di amici raccolti intorno a una rivista chiamata “La Nottola”, insieme alla Fondazione Konrad Adenauer, organizzammo a Cadenabbia nell’aprile del 1986 sul tema “La cultura europea del XX secolo, le sue crisi e oltre”. Mons. Luigi Giussani accettò di tenere la relazione principale su “La crisi dell’esperienza cristiana come trionfo del potere”; una relazione che sbalordì letteralmente l’uditorio e che conserva ancora oggi una sorprendente attualità.
Ecco in estrema sintesi il cuore del suo discorso: a) La dignità della persona è riconosciuta solo se essa non deriva integralmente dalla biologia del padre e della madre e dal loro “potere” generativo. Se l’uomo è determinato dai suoi antecedenti biologici, come molte correnti culturali oggi sembrano affermare, non può essere libero e la sua dignità corre sempre il pericolo di essere strumentalizzata. Se nell’uomo invece c’è qualche cosa che lo riconduce direttamente al mistero della sua origine e dell’origine del mondo intero, allora l’uomo ha una dignità inviolabile che trascende la sua natura biologica; b) L’uomo è libero, ma non può concepirsi libero in senso assoluto: siccome prima non c’era e adesso c’è, dipende da altro, diciamo pure “dall’Altro”. L’alternativa quindi per Giussani è semplice: o dipende da ciò che fa la realtà, cioè dal mistero, da Dio, o dipende dal potere umano. Il “paradosso” quindi è che la dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini, e aver dimenticato questo è “la mancanza terribile”, l’errore terribile della civiltà occidentale. Inebriato della propria autonomia, l’uomo occidentale finisce per essere in balia di ogni potere. Lo vediamo bene oggi, allorché una certa logica sembra condotta all’estremo. Riscoprire, testimoniare la dipendenza dell’uomo da Dio come fonte di libertà è dunque la sfida più urgente.
Come san Giovanni Paolo II mise in guardia tante volte, il pericolo più grave del nostro tempo non è la distruzione dei popoli, l’uccisione, l’assassinio, ma il tentativo da parte del potere di distruggere l’umano. E siccome l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con Dio, l’”uomo che si sente uomo” è chiamato a una “grande battaglia”: la battaglia tra la religiosità autentica e il potere. La battaglia tra la religiosità autentica e ogni forma di idolatria. Altro che destra e sinistra o liberismo.
Beato Angelico, La pala di San Marco (part) |
Specialmente per i non “ciellini” presenti all’incontro di Cadenabbia, me compreso, le parole di don Giussani suonarono come una frustata politico-culturale e ecclesiologica. Ricordo ancora il dibattito che fece seguito alla relazione, come pure la conversazione che con Nikolaus Lobkowicz, Rémi Brague, Rocco Buttiglione, Henning Ottmann, Karl Ballestrem facemmo durante e dopo cena. Era evidente che eravamo stati provocati da un pensiero forte, da una ecclesiologia affascinante, che con vigore e semplicità puntava tutto su Cristo e sulla sintesi che i cristiani, ovunque siano, debbono saper realizzare tra fede e vita. Può sembrare strano, ma proprio a quella sera mi capita spesso di ripensare, quando mi imbatto in quello che considero uno dei temi più stucchevoli che ogni tanto assorbono il dibattito pubblico del nostro paese: il rapporto tra cattolici e politica, la eventuale collocazione dei cattolici in questo o in quell’altro schieramento e magari la formazione di un nuovo partito dei cattolici. Se penso infatti alle sfide con le quali la politica deve oggi fare i conti: i nuovi scenari internazionali, la guerra nel cuore dell’Europa, il digitale e l’intelligenza artificiale, la biopolitica, la povertà, il degrado ambientale; se penso a queste sfide e le confronto con la cultura politica oggi dominante, mi pare che i cattolici abbiano oggi un compito ben più arduo che quello di scegliere da che parte collocarsi.
Beato Angelico, Gesù e Maria di Magdala |
La crisi della politica di cui oggi tanto si parla è dunque molto di più che una crisi politica; è una crisi culturale e antropologica, sulla quale don Giussani ha avuto il merito di insistere anche quando, fuori e dentro la Chiesa cattolica, erano in pochi a rendersene conto. Purtroppo non mi pare che questi pochi siano oggi cresciuti di numero.
Da Il Foglio, 3 novembre 2022
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