L’intervento di monsignor Massimo Camisasca al convegno sul fondatore di Comunione e Liberazione in occasione del centenario della nascita
Don Giussani, so che sei qua. Non
solo attraverso il bellissimo quadro di Fosco Bertani, non solo perché sono
convinto che la morte non recida il legame con il presente. Sei presente
attraverso di noi, di tutti noi che, in un modo o in un altro, siamo qui ancora
per imparare da te, per camminare traendo insegnamento da quello che tu hai
vissuto.
E allora voglio dirti, don Giussani, alcuni grazie. E li
dico, non per fare una celebrazione di te, che non ne hai bisogno e neppure
semplicemente per evocare il passato, ma per dire ciò di cui abbiamo bisogno
oggi, oggi più che mai.
Il primo grazie: tu negli anni ‘50 hai lasciato Venegono, il seminario, dove
insegnavi teologia e dove avresti avuto un futuro brillante. Hai saputo
tagliare. Ma per cosa? Per chi?
Per i ragazzi.
Sapevi benissimo, come anche noi dovremmo sapere, che l’albero si rinnova
continuamente dal basso, dalle radici. Se noi non abbiamo a cuore i ragazzi non
possiamo neppure più riconoscere noi stessi. Credevi veramente che in ogni
generazione ci fosse un dono. Anche i ragazzi di oggi hanno un dono. Non
dobbiamo guardare alle difficoltà di relazione con loro come a un muro, ma come
ad una prova per la nostra vita di adulti. I ragazzi ci mettono alla prova,
magari senza saperlo. Come possiamo trasmettere loro una ragione per vivere, se
non crediamo neppure in ciò che diciamo?
Grazie Giussani per avere avuto il coraggio di tagliare,
di venire in un’altra città, Milano. Una città grande, una città difficile, una
città in cui tu hai voluto cominciare a parlare ai ragazzi in un liceo. Perché
non solo amavi i ragazzi, ma amavi ancor di più ciò che tu avevi incontrato, da
ragazzo e poi da giovane, e poi da uomo. E volevi che questo fosse un incontro
fra loro e te, o meglio, fra loro e ciò che viveva in te e che ti faceva
vivere. Ma sapevi che questo non poteva passare attraverso una predica, o delle
Messe celebrate ogni tanto, neppure attraverso dei libri, e neppure, in fondo
(sto dicendo qui qualcosa di ardito e apparentemente contraddittorio),
attraverso le tue lezioni, che pure sono state decisive. Ma innanzitutto
attraverso il tempo che tu davi a questi ragazzi.
Se ci fosse stato solo un tuo insegnamento (io ne sono stato uno dei fortunati
ascoltatori e quell’insegnamento mi ha sconvolto la vita, vi assicuro) se non
ci fosse stata Gs, una comunità, nata da quelle parole, quell’insegnamento
sarebbe diventato il ricordo struggente di una cosa impossibile. Hai deciso di
dare del tempo. Dare del tempo vuole dire dare se stessi.
La prima evidenza della crisi che vive la generazione adulta nei confronti dei
piccoli è che non hanno più tempo per loro. Perché preme altro: il lavoro, il
successo, l’essere apprezzati. Non si sa più riconoscere che il tesoro di una
famiglia sono i figli, e che, come ogni tesoro, è impegnativo. Gesù dice nel
Vangelo: colui che ha trovato un tesoro ha dato tutto
per prendere quel campo (cfr. Mt 13,44). Quando uno scopre nei
ragazzi un tesoro, vende tutto. Non c’è cosa più importante di loro.
Loro ci guardano. Ci guardano anche quando si ribellano perché si attendono
tanto da noi. Non guardiamo a questa generazione di ragazzi semplicemente dal
punto di vista della difficoltà. Guardiamoli come un’opportunità.
Foto di Elio Ciol |
La nostra generazione ha avuto l’enorme difficoltà delle ideologie in cui eravamo immersi. Oggi la difficoltà è la confusione, è l’esaltazione della fuggevolezza dei sentimenti, è il ripiegamento su se stessi. Noi possiamo essere la mano che prende i ragazzi per accompagnarli ad attraversare la nebbia. Ma per arrivare ai ragazzi occorre tempo, tempo per stare con loro.
Lo dico innanzitutto ai papà e alle mamme: un bambino che non ha mai avuto la gioia di rotolarsi nel prato con suo papà, un bambino o una bambina che non hanno mai sentito la mamma alla sera leggere o raccontare qualcosa perché c’è la televisione, c’è da rispondere al cellulare…
Il tempo è il sacramento più importante di Dio. Se noi non diamo del tempo, non creiamo relazioni. Non ci sono relazioni al di fuori del tempo. È una delle ragioni fondamentali per cui le famiglie vanno in crisi. L’uomo non ha più tempo per la donna e la donna non ha più tempo per l’uomo. Non si incontrano, non si incrociano, non c’è più la gioia delle giornate passate assieme, perché tutto preme, tutto è più importante. Non si sa fare la gerarchia delle cose che contano. Quanto è, invece, importante tale gerarchia.
Nei prossimi mesi entreremo probabilmente in un tempo di povertà, in cui sarà necessario operare un discernimento sulle cose che contano: è più importante che mio figlio abbia cinque paia di scarpe o che abbia i soldi per poter studiare in una scuola dove vivere esperienze e relazioni positive? È più importante che abbia più piumini per andare nella neve o è più importante l’opportunità di incontrare altri ragazzi? Dobbiamo educare i nostri ragazzi all’essenzialità.
Ti ringrazio don Giussani, perché oltre al coraggio di
lasciare l’insegnamento di teologia per trovare noi, hai avuto l’intelligenza
di capire la passione che ci muoveva.
Quale passione ci muove? Penso che questa sia una domanda fondamentale per chi
è papà e mamma, o per chi è insegnante, o comunque per chi è educatore o pensa
di esserlo: che passione ti muove? “Passione” è una parola importante, avendo
dentro anche il significato di “sofferenza”. La passione è un fuoco. Senza
fuoco non si trasmette nulla. Per questo il mito del fuoco rubato agli dèi è un
mito così importante, alle origini della storia dell’uomo. Non si vive senza
fuoco. All’inizio, quando non c’era nulla se non Dio, non c’era il ghiaccio,
c’era il fuoco. C’erano tre persone che si amavano.
Questa frase di san Giovanni buttata quasi lì: Dio è
carità (cfr. 1 Gv 8) è una spada. Dio è carità vuole dire che, quando non c’era
niente, c’era una relazione, c’era il Padre che diceva al Figlio “quanto sei
bello” – e lo sappiamo perché ha continuato a dirglielo: Questo è il mio figlio prediletto dove ho posto tutta la mia gioia (cfr.
Mc 9,7; Mt 17,7; Lc 9,35) – e un Figlio che rispondeva al padre: “Quanto sei
grande!”. È lui che ce lo ha riferito: Il padre è più grande di me (cfr.
Gv 14,28).
Questo loro amore non era il narcisismo di chi si specchia l’uno nell’altro, ma
una terza persona.
Ogni amore vero non è mai un ripiegamento su se stesso o sull’altro, ma è
sempre generazione, fecondità.
Tu don Giussani hai scoperto di avere un fuoco. Questo
fuoco era il Fatto che ti era stato comunicato, che tu avevi intravisto nella
poesia, nella musica, nella letteratura, come grido dell’uomo, come attesa
dell’uomo. Avevi scoperto che l’atteso era diventato carne, era uno tra noi,
era uno di noi. L’unico desiderio allora diventava cercare dove abitava
quest’uomo, per poter stare con lui, per diventare come lui, cioè pienamente
uomo. Ci dicevi: “Nessuno era uomo come lui”.
Ti ringrazio di questo fuoco che hai messo dentro di noi e che non si è mai
spento, che si è riacceso ogni volta che incontravamo un altro. Per quanto io
sia un pover’uomo, e lo sono veramente, da quando ho incontrato quest’uomo di
Desio, non ho mai incontrato un altro uomo senza sentire il desiderio di
trasmettere questo fuoco.
«Parva favilla gran fiamma seconda» dice Dante (cfr. Paradiso I, 34); basta
anche un piccolissimo lume di un cerino per suscitare un incendio, un incendio
che non distrugge ma rigenera.
Io sono nato settimino alla fine della Guerra, gemello, ho avuto tutte le
malattie del mondo. Fino ad undici anni non potevo correre, non potevo andare
in bicicletta, non potevo giocare a pallone. Quando ho incontro don Giussani a
quattordici anni, ho capito che lui mi restituiva la vita, apriva la mia
persona all’orizzonte del mondo. Tutto questo non è mai finito. Ho sentito ogni
uomo o donna del mondo come parte della mia vita. Non c’è niente di umano, come
diceva l’antico poeta latino, che io ritenga estraneo a me. È questo
innanzitutto ciò che Giussani mi ha comunicato: il suo fuoco.
Cosa ci può essere di più grande dell’essere insegnante? Solo essere padre e
madre. Sono tanti anni che non insegno, quindi chiedo scusa agli insegnanti
perché forse oggi avrei chissà quante difficoltà… Posso farvi una confidenza?
Ho sentito tutti gli incarichi pastorali che man mano sono piovuti sulla mia
testa come un grande furto. Mi rubavano la possibilità di entrare in una
classe. Ho cercato di farlo fino al 1996, poi tutto si è chiuso. Cosa c’è di
più bello che entrare in una classe? È una fatica enorme. Tu oggi esci dicendo
“che bello, hanno veramente capito” e domani entri ed è tutto da capo. Ma non è
così nella vita? Non è così con gli amici? Non è così con la moglie? Non è così
con i figli? Non possiamo vivere di ieri, dobbiamo rincominciare oggi.
Grazie don Giussani perché hai dato alla mia vita la
capacità di giudicare. La passione senza giudizio porta al baratro.
Posso appassionarmi di moto, di automobili, di donne, di cinema, di teatro, di
libri, ma senza giudizio, cioè senza sapere veramente quali sono le mie
responsabilità di fronte alla vita. Un fuoco con giudizio è un fuoco che si
spende per ciò che vale la pena.
Giussani mi ha trasmesso questa capacità di giudizio, non riempiendo la mia
testa di giudizi, ma attraverso degli esempi, come faceva Gesù: “Guardate i
gigli del campo, non tessono, non filano, eppure li Padre loro si occupa della
loro bellezza; guardate gli uccelli del cielo…” (cfr. Mt 6,24-34).
Giussani ci ha immedesimati con lo sguardo che Gesù aveva sulle cose. “Oggi è
caduta una torre”, dicevano i giornali che non c’erano, “la torre di Siloe,
sono morte tante persone”. «Voi che cosa pensate? Che siano morti per i loro
peccati? Se non vi convertirete morirete tutti allo stesso modo» (cfr. Lc
13,1-9).
Gesù faceva nascere un giudizio, parlando delle cose del giorno. Guardando in
faccia gli apostoli, sentendo i loro commenti. Quando va da lui la mamma di
Giacomo e Giovanni, quei due “hippie” che erano
andati dalla Galilea giù in Giudea, fino ad incontrare il Battista, e dice: “Io
voglio per i miei figli il ministero degli esteri e dell’interno”, Gesù
risponde: “Sanno cosa stai chiedendo?”. Legge nella mente della madre queste
parole: “So io il valore dei miei figli, io sono la mamma”. “E va bene”, dice
Gesù, “quello che chiedete non posso darvelo, però dovrete soffrire per
diventare voi stessi”.
Da don Giussani ho imparato l’amore per il giudizio, non per il giudizio sugli
altri, non per il giudizio escludente, ma per il giudizio che indica la strada.
Questo giudizio matura in noi ascoltando una canzone, guardando un quadro, un
tramonto, giudicando ciò che accade, aiutati da un maestro. Con molta pazienza,
perché l’educazione ha dei tempi che non sono i nostri. Bisogna sapere quando
parlare e quando tacere. La correzione è l’arte più difficile che esista, e
vuol dire “cum-regere”, portare insieme, entrare nelle ragioni dello sbaglio
dell’altro. Entrare nelle ragioni dello sbaglio dell’altro. Non sempre sono
giuste, però sono una ferita e hanno bisogno di accoglienza e ascolto. Dio ha
pazienza, perché non devi averla tu? Pazienza vuole dire offrire all’altro
sempre nuove opportunità, non tenere mai la porta chiusa.
Grazie don Giussani perché ci hai indicato un metodo per
vivere. Una passione non vive senza un metodo. Qual è il prima e qual è il poi?
Perché l’arte dell’educazione è tutta qui, nel prima e nel poi. Gesù non è ha
detto ai primi: “Se volete seguirmi dovete conoscere le persone della Trinità,
i Sette Sacramenti, i Dieci Comandamenti, …”. L’educazione è l’arte del sapere
che cosa posso chiedere oggi e che cosa chiederò domani. È l’arte
dell’implicito. Giussani è stato un grande maestro dell’implicito. Non devi
innanzitutto spiegare qualcosa, ma vivere con gli altri, portarli a vivere con
te ciò che tu vivi.
Ad ogni generazione Dio dà una possibilità di scoperta.
Se siamo genitori o insegnanti, ricordiamoci che il primo passo è rinnovare in
noi questa ipotesi positiva sui ragazzi che abbiamo davanti. C’è un Altro che
agisce in loro, insieme a me e attraverso di me. Io forse potrò fare poco o
nulla, ma quello che semino non resterà senza frutto. Purtroppo, viviamo in un
momento di grandi difficoltà: la famiglia è in crisi, i social sembrano
sostituirla. Ma, soprattutto, non sappiamo più che cos’è l’umano. Non sappiamo
più che la dipendenza è una condizione e non l’avversario della libertà.
Libertà significa sapere chi sei. Se io non so che sono una creatura, e penso
di essere Dio, non sarò mai libero. Riconoscere la mia creaturalità, i miei
limiti, le mie rughe, accettarmi, è l’inizio della resurrezione. Tutte le
patologie psichiche e spirituali derivano dalla non accettazione di sé. L’uomo
nuovo nasce non dalla negazione dei propri limiti, ma dal riconoscimento di
essi.
Certo, per riconoscere i propri limiti occorre che uno sia al mio fianco e mi
dica: “Ti perdono”. Se non c’è più Dio, se non c’è più la Chiesa, l’umile
confessione dei propri peccati davanti a un prete, la nostra umanità si perde.
Le pesanti catene che tengono fermo l’uomo sono l’assenza di perdono che mi
lega al passato e l’assenza di speranza che mi nega il futuro.
Desidero trasmettere ai ragazzi ciò che io ho ricevuto e accendere in loro
qualcosa di proprio; non devo creare degli emuli, devo accendere in loro
qualcosa che già è dentro e che aspetta di divampare. Il fuoco di Dio non si spegne
mai negli uomini. L’uomo è immagine e somiglianza di Dio e per quanto vada
lontano nella più terribile delle lontananze, c’è sempre in lui questa fiamma,
devo farla divampare, perché Dio l’ha già accesa.
Discorso pronunciato da monsignor Massimo Camisasca al convegno
“Educazione: comunicazione di sé: testimonianze e dialogo” tenutosi a Desio in
occasione del centenario della nascita di monsignor Luigi Giussani, 7 ottobre
2022
Nessun commento:
Posta un commento