sabato 29 aprile 2023

CHE BELLO COSTRUIRE UN’EUROPA CENTRATA SULLA PERSONA UMANA E I SUOI POPOLI, DOVE VI SIANO POLITICHE EFFETTIVE PER LA NATALITÀ E LA FAMIGLIA

 PAPA FRANCESCO A BUDAPEST


Penso dunque a un’Europa che (…) non si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, (…) È questa la via nefasta delle “colonizzazioni ideologiche”, che eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà, ad esempio vantando come conquista un insensato “diritto all’aborto”, che è sempre una tragica sconfitta.

INCONTRO CON LE AUTORITÀ, CON LA SOCIETÀ CIVILE E CON IL CORPO DIPLOMATICO

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Ex Monastero Carmelitano (Budapest)
Venerdì, 28 aprile 2023

(…)

1. Città di storia. Questa capitale ha origini antiche, come testimoniano i resti di epoca celtica e romana. Il suo splendore ci riporta però alla modernità, quando fu capitale dell’Impero austro-ungarico lungo quel periodo di pace noto come belle époque, che si estese dagli anni della sua fondazione fino alla prima guerra mondiale. Sorta in tempo di pace, ha conosciuto dolorosi conflitti: non solo invasioni di tempi lontani ma, nello scorso secolo, violenze e oppressioni provocate dalle dittature nazista e comunista – come scordare il 1956? E, durante la seconda guerra mondiale, la deportazione di decine e decine di migliaia di abitanti, con la restante popolazione di origine ebraica rinchiusa nel ghetto e sottoposta a numerosi eccidi. In tale contesto ci sono stati molti giusti valorosi – penso al Nunzio Angelo Rotta, per esempio –, tanta resilienza e grande impegno nel ricostruire, così che Budapest oggi è una delle città europee con la maggior percentuale di popolazione ebraica, centro di un Paese che conosce il valore della libertà e che, dopo aver pagato un alto prezzo alle dittature, porta in sé la missione di custodire il tesoro della democrazia e il sogno della pace. (…)

2. Budapest è città di ponti. Vista dall’alto, “la perla del Danubio” mostra la sua peculiarità proprio grazie ai ponti che ne uniscono le parti, armonizzandone la configurazione a quella del grande fiume. Quest’armonia con l’ambiente mi porta a complimentarmi per la cura ecologica che questo Paese persegue con grande impegno. Ma i ponti, che congiungono realtà diverse, suggeriscono pure di riflettere sull’importanza di un’unità che non significhi uniformità. A Budapest ciò emerge dalla notevole varietà delle circoscrizioni che la compongono, più di venti. Anche l’Europa dei ventisette, costruita per creare ponti tra le nazioni, necessita del contributo di tutti senza sminuire la singolarità di alcuno. Al riguardo un padre fondatore preconizzava: «L’Europa esisterà e nulla sarà perduto di quanto fece la gloria e la felicità di ogni nazione. È proprio in una società più vasta, in un’armonia più potente, che l’individuo può affermarsi» (Intervento cit.). C’è bisogno di questa armonia: di un insieme che non appiattisca le parti e di parti che si sentano ben integrate nell’insieme, ma conservando la propria identità. È significativo in proposito quanto afferma la Costituzione ungherese: «La libertà individuale può svilupparsi solo nella collaborazione con gli altri»; e ancora: «Riteniamo che la nostra cultura nazionale sia un ricco contributo alla multicolore unità europea».

Penso dunque a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. È questa la via nefasta delle “colonizzazioni ideologiche”, che eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà, ad esempio vantando come conquista un insensato “diritto all’aborto”, che è sempre una tragica sconfitta. Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia – abbiamo Paesi in Europa con l’età media di 46-48 anni –, perseguite con attenzione in questo Paese, dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno. Il ponte più celebre di Budapest, quello delle catene, ci aiuta a immaginare un’Europa simile, formata da tanti grandi anelli diversi, che trovano la propria saldezza nel formare insieme solidi legami. In ciò la fede cristiana è di aiuto e l’Ungheria può fare da “pontiere”, avvalendosi del suo specifico carattere ecumenico: qui diverse Confessioni convivono senza antagonismi – ricordo la riunione che ho avuto con loro un anno e mezzo fa –, collaborando rispettosamente, con spirito costruttivo. Con la mente e il cuore mi dirigo all’Abbazia di Pannonhalma, uno dei grandi monumenti spirituali di questo Paese, luogo di preghiera e ponte di fraternità.

3. E questo mi porta a considerare l’ultimo aspetto: Budapest città di santi – la Signora Presidente ha parlato di Santa Elisabetta –, come ci suggerisce anche il nuovo quadro posto in questa sala. Il pensiero non può che andare a Santo Stefano, primo re d’Ungheria, vissuto in un’epoca nella quale i cristiani in Europa erano in piena comunione; la sua statua, all’interno del Castello di Buda, sovrasta e protegge la città, mentre la Basilica dedicatagli nel cuore della Capitale è, insieme con

Santo Stefano Re
quella di Esztergom, l’edificio religioso più imponente del Paese. Dunque la storia ungherese nasce segnata dalla santità, e non solo di un re, bensì di un’intera famiglia: sua moglie, la Beata Gisella, e il figlio sant’Emerico. Questi ricevette dal padre alcune raccomandazioni, che costituiscono una sorta di testamento per il popolo magiaro. Oggi mi hanno promesso di regalarmi il tomo, lo aspetto! Vi leggiamo parole molto attuali: «Ti raccomando di essere gentile non solo verso la tua famiglia e parentela, o con i potenti e i benestanti, o con il tuo prossimo e con i tuoi abitanti, ma anche con gli stranieri». Santo Stefano motiva tutto ciò con genuino spirito cristiano, scrivendo: «È la pratica dell’amore che conduce alla felicità suprema». E chiosa dicendo: «Sii mite per non combattere mai la verità» (Ammonimenti, X). In tal modo coniuga inseparabilmente verità e mitezza. È un grande insegnamento di fede: i valori cristiani non possono essere testimoniati attraverso rigidità e chiusure, perché la verità di Cristo comporta mitezza, comporta gentilezza, nello spirito delle Beatitudini. Si radica qui quella bontà popolare ungherese, rivelata da certe espressioni del parlare comune, come ad esempio: “jónak lenni jó” [è bene essere buoni] e “jobb adni mint kapni” [è meglio dare che ricevere]. (…)

Distinte Autorità, vorrei ringraziarvi per la promozione delle opere caritative ed educative ispirate da tali valori e nelle quali s’impegna la compagine cattolica locale, così come per il sostegno concreto a tanti cristiani provati nel mondo, specialmente in Siria e in Libano. È feconda una proficua collaborazione tra Stato e Chiesa che, per essere tale, necessita però di ben salvaguardare le opportune distinzioni. È importante che ogni cristiano lo ricordi, tenendo come punto di riferimento il Vangelo, per aderire alle scelte libere e liberanti di Gesù e non prestarsi a una sorta di collateralismo con le logiche del potere. Fa bene, da questo punto di vista, una sana laicità, che non scada nel laicismo diffuso, il quale si mostra allergico ad ogni aspetto sacro per poi immolarsi sugli altari del profitto. Chi si professa cristiano, accompagnato dai testimoni della fede, è chiamato principalmente a testimoniare e a camminare con tutti, coltivando un umanesimo ispirato dal Vangelo e instradato su due binari fondamentali: riconoscersi figli amati del Padre e amare ciascuno come fratello. (…)

Non è possibile citare tutti i grandi confessori della fede della Pannonia Sacra, ma vorrei almeno menzionare san Ladislao e santa Margherita, e fare riferimento a certe maestose figure del secolo scorso, come il Card. József Mindszenty, i Beati Vescovi martiri Vilmos Apor e Zoltán Meszlényi, il Beato László Batthyány-Strattmann. Sono, insieme a tanti giusti di vari credo, padri e madri della vostra Patria. A loro vorrei affidare l’avvenire di questo Paese, a me tanto caro. E mentre vi ringrazio per aver ascoltato quanto avevo in animo di condividere – vi ringrazio per la vostra pazienza –, assicuro la mia vicinanza e la mia preghiera per tutti gli ungheresi, e lo faccio con un pensiero speciale per quelli che vivono al di fuori della Patria e per quanti ho incontrato nella vita e mi hanno fatto tanto bene. Penso alla comunità religiosa ungherese che ho assistito a Buenos Aires. Isten, áldd meg a magyart! [Dio, benedici gli ungheresi!]

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https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2023/april/documents/20230428-ungheria-autorita.html


 

 

martedì 25 aprile 2023

GIORGIA MELONI: IL 25 APRILE SIA LA FESTA DELLA LIBERTÀ

FASCISMO, NOI INCOMPATIBILI CON QUALSIASI NOSTALGIA

di Giorgia Meloni

La lettera della premier al «Corriere»: «Democrazia e libertà sono scolpite nella Costituzione con un testo che aveva l’obiettivo di unire, non di dividere: occorre fare di questa ricorrenza un momento di rinnovata concordia»

Paola del Din e Giorgia Meloni
Caro direttore,
oggi l’Italia celebra l’anniversario della Liberazione. Io stessa lo farò accompagnando il presidente della Repubblica Mattarella nella tradizionale cerimonia di deposizione di una corona di alloro all’Altare della Patria, mentre i ministri del governo parteciperanno alle altre celebrazioni istituzionali previste.

Nel mio primo 25 Aprile da presidente del Consiglio, affido alle colonne del Corriere alcune riflessioni che mi auguro possano contribuire a fare di questa ricorrenza un momento di ritrovata concordia nazionale nel quale la celebrazione della nostra ritrovata libertà ci aiuti a comprendere e rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo come imprescindibile baluardo di democrazia. E lo faccio con la serenità di chi queste riflessioni le ha viste maturare compiutamente tra le fila della propria parte politica ormai 30 anni fa, senza mai discostarsene nei lunghi anni di impegno politico e istituzionale. Da molti anni infatti, e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano la destra in
Parlamento 
hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo.

Il 25 Aprile 1945 segna evidentemente uno spartiacque per l’Italia: la fine della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni anti ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la nostra comunità nazionale. Purtroppo, la stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si protrasse e divise persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio che portò a esecuzioni sommarie anche diversi mesi dopo la fine del conflitto. Così come è doveroso ricordare che, mentre quel giorno milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle loro terre. Ma il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana.

Da quel paziente negoziato volto a definire princìpi e regole della nostra nascente democrazia liberale — esito non unanimemente auspicato da tutte le componenti della Resistenza — scaturì un testo che si dava l’obiettivo di unire e non di dividere, come ha ben ricordato alcuni giorni fa su queste pagine il professor Galli della Loggia.

Nel gestire quella difficile transizione, che aveva già conosciuto un passaggio significativo con l’amnistia voluta dall’allora ministro della Giustizia Togliatti, i costituenti affidarono dunque alla forza stessa della democrazia e della sua realizzazione negli anni il compito di includere nella nuova cornice anche chi aveva combattuto tra gli sconfitti e quella maggioranza di italiani che aveva avuto verso il fascismo un atteggiamento «passivo». Specularmente, chi dal processo costituente era rimasto escluso per ovvie ragioni storiche, si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica. Una famiglia che negli anni ha saputo allargarsi, coinvolgendo tra le proprie fila anche esponenti di culture politiche, come quella cattolica o liberale, che avevano avversato il regime fascista.


È nata così una grande democrazia, solida, matura e forte, pur nelle sue tante contraddizioni, e che nel lungo Dopoguerra ha saputo resistere a minacce interne ed esterne, rendendo protagonista l’Italia nei processi di integrazione europea, occidentale e multilaterale. Una democrazia nella quale nessuno sarebbe disposto a rinunciare alle libertà guadagnate. Nella quale, cioè, libertà e democrazia sono un patrimonio per tutti, piaccia o no a chi vorrebbe che non fosse così. E questa non solo è la conquista più grande che la nostra Nazione possa vantare ma è anche l’unico, vero antidoto a qualsiasi rischio autoritario.

Per questo non comprendo le ragioni per le quali, in Italia, proprio fra coloro che si considerano i custodi di questa conquista vi sia chi ne nega allo stesso tempo l’efficacia, narrando una sorta di immaginaria divisione tra italiani compiutamente democratici e altri — presumibilmente la maggioranza a giudicare dai risultati elettorali — che pur non dichiarandolo sognerebbero in segreto un ritorno a quel passato di mancate libertà.

Capisco, invece, quale sia l’obiettivo di quanti, in preparazione di questa giornata e delle sue cerimonie, stilano la lista di chi possa e di chi non possa partecipare, secondo punteggi che nulla hanno a che fare con la storia ma molto hanno a che fare con la politica. È usare la categoria del fascismo come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico: una sorta di arma di esclusione di massa, come ha insegnato Augusto Del Noce, che per decenni ha consentito di estromettere persone, associazioni e partiti da ogni ambito di confronto, di discussione, di semplice ascolto. Un atteggiamento talmente strumentale che negli anni, durante le celebrazioni, ha portato perfino a inaccettabili episodi di intolleranza come quelli troppe volte perpetrati ai danni della Brigata ebraica da parte di gruppi estremisti. Episodi indegni ai quali ci auguriamo di non dover più assistere.

Mi domando se queste persone si rendano conto di quanto,così facendo, indeboliscono i valori che dicono di voler difendere. È probabilmente questa consapevolezza ad aver spinto Luciano Violante a individuare — nel suo memorabile discorso di insediamento da presidente della Camera quasi trent’anni fa — proprio in una certa «concezione proprietaria» della lotta di Liberazione uno dei fattori che le impedivano di diventare patrimonio condiviso da tutti gli italiani. Un concetto ripreso nel 2009 da Silvio Berlusconi (allora presidente di un Consiglio dei ministri nel quale sedevo anche io) in un altro famoso discorso, quando a Onna, celebrando l’anniversario della Liberazione sulle macerie del terremoto, invitò a fare del 25 Aprile la «Festa della Libertà», così da superare le lacerazioni del passato.

Un auspicio che non solo condivido ma che voglio, oggi, rinnovare, proprio perché a distanza di 78 anni l’amore per la democrazia e per la libertà è ancora l’unico vero antidoto contro tutti i totalitarismi. In Italia come in Europa. Una consapevolezza che ha portato il Parlamento europeo a condannare inequivocabilmente e definitivamente tutti i regimi del ‘900, senza eccezioni, con una risoluzione del settembre 2019 nella quale mi riconosco totalmente, e che il gruppo di Fratelli d’Italia, insieme a tutta la famiglia dei Conservatori europei e all’intero centrodestra, votò senza alcuna esitazione (a differenza, purtroppo, di altri). Una risoluzione che assume nell’attuale contesto un valore ancora maggiore, dinnanzi alla eroica resistenza del popolo ucraino in difesa della propria libertà e indipendenza dall’invasione russa.

In tutto il mondo le autocrazie cercano di guadagnare campo sulle democrazie e si fanno sempre più aggressive e minacciose, e il rischio di una saldatura che porti a sovvertire l’ordine internazionale che le democrazie liberali hanno indirizzato e costruito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la dissoluzione dell’Unione Sovietica è purtroppo reale. In questo nuovo bipolarismo l’Italia la sua scelta di campo l’ha fatta, ed è una scelta netta. Stiamo dalla parte della libertà e della democrazia, senza se e senza ma, e questo è il modo migliore per attualizzare il messaggio del 25 Aprile. Perché con l’invasione russa dell’Ucraina la nostra libertà è tornata concretamente in pericolo.

È, questa, una convinzione che ho rafforzato grazie all’incontro con una donna straordinaria, Paola Del Din . Durante la Resistenza combatteva con le Brigate Osoppo, le formazioni di ispirazione laica, socialista, monarchica e cattolica. Fu la prima donna italiana a paracadutarsi in tempo di guerra. Il suo coraggio le è valso una Medaglia d’oro al valor militare, che ancora oggi, quasi settant’anni dopo averla ricevuta, sfoggia sul petto con commovente orgoglio. Della Resistenza dice: «Il tempo ci ha ribattezzati Partigiani, ma noi eravamo Patrioti, io lo sono sempre stata e lo sono ancora». Nell’Italia repubblicana è stata insegnante di Lettere e, nonostante i suoi quasi cento anni, continua ad accettare gli inviti a parlare nelle scuole di Italia e del valore della Libertà.

Dedico questo giorno a lei, madre di quattro figli e nonna di altrettanti nipoti, ma anche, idealmente, di tutti gli italiani che antepongono l’amore per la propria Patria a ogni contrapposizione ideologica.

 


IL 25 APRILE LUCA RICOLFI: "PERCHÉ TEMO DI PIÙ GLI ANTIFASCISTI ESTREMI"

  

INTERVISTA A LIBERO APRILE 2023

Professore, siamo alla vigilia dell’ennesimo 25 aprile divisivo?
«Temo di sì, anche se ritengo probabile che le “sgrammaticature” arriveranno più dagli antifascisti radicali che dai rappresentati del governo. L’infortunio di La Russa, almeno a una cosa dovrebbe essere servito: d’ora in poi tutti conteranno fino a 10 prima di proferire verbo. O almeno così si spera».

I nostri padri costituenti avevano previsto che i gerarchi fascisti potessero candidarsi in Parlamento fin dagli anni ’50. Pur avendo vissuto la guerra civile erano meno antifascisti dell’attuale sinistra?
«Credo che il punto sia un altro. I padri costituenti sapevano perfettamente che l’essere stati fascisti non era la colpa di una minoranza ma il dramma di una nazione. Questo non poteva che attenuare la colpa di essere stati fascisti, anche nei confronti di chi – come i gerarchi – aveva avuto maggiori responsabilità nelle nefandezze del regime».

Non si dimentica troppo spesso che la nostra Costituzione è democratica oltre antifascista, visto che i due termini non sempre coincidono?
«L’antifascismo non è una categoria politica universale, la democrazia sì. In questo senso quel che c’è di duraturo nella Costituzione è la democrazia, non l’antifascismo.
Il problema, semmai, è che l’Italia Repubblicana non è mai stata una democrazia piena, perché c’è sempre stata una parte delegittimata o non titolata a governare. Nella prima Repubblica i comunisti e i nostalgici del fascismo, negli anni di Mani pulite gli impresentabili del Pentapartito, nella seconda Repubblica prima la destra berlusconiana, ora la destra di Giorgia Meloni. E infatti, se ci facciamo caso,
la storia del nostro sistema politico è una storia ininterrotta di esami cui una parte politica sottopone l’altra. Il PCI di Berlinguer doveva mostrare la sua indipendenza da Mosca, Berlusconi risolvere il conflitto di interessi, Giorgia Meloni ripetere in ogni occasione la condanna del fascismo. Sotto questo profilo, non siamo ancora una democrazia compiuta (un problema che condividiamo con la Francia, dove da decenni vige la conventio ad excludendum verso un partito di grande seguito elettorale, il Front National dei Le Pen, padre e figlia)».

La pacificazione nazionale fu in realtà una scusa per tutti per nascondere la polvere sotto il tappeto?
«Pacificazione fino a un certo punto, a giudicare da quel che accadde nei primissimi anni del dopoguerra, non solo nel “triangolo della morte”: un pezzo di storia affiorato all’attenzione dell’opinione pubblica solo mezzo secolo dopo, con la trilogia di Giampaolo Pansa (Il sangue dei vinti, Sconosciuto 1945, La grande bugia). Né possiamo dimenticare che pure le vicende delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata hanno dovuto attendere circa mezzo secolo per essere ammessi nella memoria collettiva e nel racconto ufficiale. In breve: la pacificazione nazionale ha sempre avuto un lato inquietante, di ablazione di porzioni della nostra storia».

Il terrorismo rosso degli anni ’70 e ’80 in realtà non fu anti-fascista ma anti-sistema: oggi sarebbe anti-fascista?
«Non lo so, però la tentazione di usare l’antifascismo come bandiera di qualsiasi battaglia politica non è mai stata forte come oggi. Forse anche per una mancanza di fantasia: mi colpisce sempre molto il fatto che, 77 anni dopo la caduta del fascismo, e 55 anni dopo il ’68,
non si riescano a inventare slogan un po’ più attuali».


Quando e perché si è rotto il clima di pacificazione nazionale e siamo ripiombati in una guerra civile a bassa intensità giocata sui media?
«Ci sono stati due grandi momenti di cesura: il 28 marzo 1994, quando l’immorale Silvio Berlusconi vince le elezioni, e il 25 settembre 2023 quando tocca alla fascista Giorgia Meloni conquistare Palazzo Chigi. Sul perché si sia rotto il clima di pacificazione io ho una mia idea, che forse non dovrei tirare fuori davanti a un giornalista: secondo me, una parte dei nostri guai derivano dalla faziosità della stampa, e più in generale dei media, che si è grandemente accentuata nella seconda Repubblica. Gli scambi di opinioni fra comuni cittadini sono molto più civili e tolleranti degli scontri cui i medesimi cittadini sono costretti ad assistere sui media. E il grave è che il trend è in peggioramento: gli spazi in cui discutere in modo informato e rispettoso si sono prosciugati quasi completamente».

La sinistra moderna, anzi l’Italia tutta, è vittima del mito del fascismo eterno concettualizzato da Umberto Eco?
«No, la gente normale è immune. Anzi, direi che è normale precisamente chi è immune da quel mito.
Il testo di Eco sul “fascismo eterno”, un discorso pronunciato negli Stati Uniti il 25 aprile del 1995, è probabilmente il più ideologico (e quindi il meno lucido) fra i suoi interventi pubblici. In quel testo Eco elencava 14 indizi di fascismo primario (o Ur-Fascismo), dal tradizionalismo al complottismo, dal pacifismo alla “paura per la differenza”, dal sincretismo all’irrazionalismo, dal populismo all’uso di una lingua semplificata, che sarebbero ancora presenti fra noi, e che sarebbe nostro preciso dovere scoprire e smascherare “ogni giorno, in ogni parte del mondo”. Credo che ben pochi abbiano mai letto e preso sul serio la lista di Eco, ma l’attitudine a vedere ovunque tracce di fascismo ha attecchito eccome».

L’estensione del concetto di fascismo ormai ha raggiunto un’ampiezza tale che è fascista tutto quello che la sinistra radicale non ritiene conforme al proprio pensiero?
«Non so se sia solo la sinistra radicale ad abusare del termine fascista. C’è anche la sciatteria di pensiero, l’incompetenza lessicale, o più semplicemente ci sono i tic del linguaggio, l’abuso di aggettivi e sostantivi. Come mai per dire che qualcosa è molto cresciuto diciamo che lo ha fatto in modo “esponenziale”? Come mai improvvisamente tutto quel che viene pubblicizzato deve essere “sostenibile”? Per molti l’aggettivo fascista è un passepartout, sinonimo di cattivo, riprovevole, inaccettabile. Viene usato come arma contundente per etichettare tutto ciò che non piace, anche quando con il fascismo ha poco o nulla a che fare».

È questo che impedisce a chi non è di sinistra di dirsi anti-fascista, il fatto di aver sostituito l’eterna diatriba italica tra guelfi e ghibellini con quella anti-fascisti-resto del mondo?
«Un po’ è così, ma c’è anche un sentimento più profondo che complica le cose, non tanto a Giorgia Meloni quanto a chiunque conservi un briciolo di indipendenza di pensiero, comprese tante persone di sinistra. Se si arriva a dare del “camerata” a una persona come Valditara, se l’aggettivo fascista viene appioppato a chiunque non piaccia ai custodi dell’ortodossia antifascista, allora abbiamo un problema. Tanti italiani sono antifascisti nel senso classico (giudicano orribile e indifendibile l’esperienza storica del fascismo), ma non ritengono fascisti la maggior parte di coloro che sono bollati come tali. La loro esitazione a proclamarsi antifascisti deriva, innanzitutto, dal cambiamento di estensione del termine fascista. È come se dicessero, parafrasando liberamente Croce (“Perché non possiamo non dirci cristiani”): se questi li considerate fascisti, allora noi “non possiamo dirci antifascisti”».

Le istruzioni della Murgia per diventare fascisti, con il relativo fascistometro, il test per scoprire quanto sei fascista, in realtà sono un codice d’appartenenza per distinguere al contrario il gruppo di ottimati che comunque, anche quando sbaglia ed è illiberale, ha ragione ed è democratico per postulato?
«Sì, forse è così, ma provi ad applicare il fascistometro e vedrà che di ottimati non fascisti ne sopravvivono pochissimi, forse solo Michela Murgia. È praticamente impossibile, come hanno testimoniato tanti progressisti doc, non sottoscrivere almeno una delle 65 affermazioni del fascistometro. In realtà il libro della Murgia è la versione ad usum delphini del testo di Eco sull’Ur- fascismo. Ne eredita la curvatura ideologica, fornendone una versione ingenua e più digeribile, in cui gli indizi di fascismo passano da 14 a 65. Io l’ho usato nel mio corso di Analisi dei dati, per spiegare agli studenti come non si costruisce un test psicometrico rigoroso. Da questo punto di vista, quel libro è prezioso».

 

venerdì 21 aprile 2023

ROCCELLA: UN GELIDO INVERNO DEMOGRAFICO

«È la maternità la grande ferita del nostro tempo, ma il destino dell’Italia non è segnato».     «Oggi le donne sono più libere di non avere figli, piuttosto che di averli. E io vorrei aiutarle col mio “ministero della vitalità”» 

Intervista alla ministra Roccella al convegnoNascere è cominciare – Donne e lavoro: quali politiche di welfare per uscire dall’inverno demografico”organizzato da Tempi

Per Eugenia Roccella «il fatto di essere donna e di stare dalla parte delle donne mi appartiene profondamente. Si può essere femminista e cattolica, femminista e di destra». La ministra per la Famiglia, Natalità e Pari opportunità è, fra tutti i componenti del governo Meloni, quella che più mette in crisi lo stereotipo dei conservatori arroccati su posizioni stantie e antimoderne. Innanzitutto per ragioni biografiche, che la stessa Roccella ha raccontato in un recente – e meraviglioso – libro: Una famiglia radicale. Cresciuta in un ambiente dove Marco Pannella era di casa, ha attraversato il Sessantotto senza perdere se stessa, rielaborando certe istanze di libertà in modo originale, adattandole ai problemi nuovi che le moderne tecniche impongono alla nostra coscienza e che non possono essere superate con un banale richiamo ai “diritti”.

In secondo luogo, Roccella è, da un punto di vista culturale, una delle avanguardie più riconoscibili dell’esecutivo Meloni. Sin dalla sua intitolazione, il suo ministero costituisce «un programma di governo», come dice in questa conversazione con Tempi. «Le tre parole non sono collegate a caso, ma si tratta di tre temi interconnessi: bisogna agire sull’uno per agire sull’altro».

Eugenia Roccella al Convegno di Tempi a Roma

Lei ha detto che l’Italia non sta vivendo solo un “inverno” demografico, ma è un vero e proprio “inferno” demografico. I dati che rendono il nostro paese uno dei più vecchi al mondo, il numero sempre più ridotto di nascite, l’età in cui viene partorito il primo figlio… li conosciamo e sappiamo anche che abbiamo una decina d’anni per invertire la rotta. Spesso, commentando questi numeri, lei ha detto che c’è un problema di “libertà femminile”. In che senso?

L’Istat ci dice che le donne tra i 25 e i 35 anni vogliono avere almeno due figli. Il desiderio di mettere al mondo dei bambini è forte, tuttavia la realtà è diversa. Oggi constatiamo che le coppie decidono di “mettere su famiglia” quando i partner sono già avanti con l’età. Constatiamo anche che spesso decidono di avere un solo figlio, a volte addirittura di non averli. Come si conciliano questi dati con quel “desiderio” registrato dall’Istat? Io penso che esista un problema di libertà per le donne. La situazione, rispetto al passato, si è rovesciata. Oggi una donna è più libera di non avere figli, piuttosto che di averli. E questo è un problema che ha enormi ricadute sociali ed economiche, ma il punto di partenza, e questo governo vuole lavorare in questa direzione, è come favorire questa libertà e questo desiderio.

«Fare un figlio non è un fatto privato»: è una delle frasi che le ho sentito ripetere spesso e mi pare un’affermazione molto controcorrente rispetto a una mentalità che oggi tende a relegare la scelta della maternità a fatto intimo e insindacabile. Vedo, invece, e questo mi sorprende e gliene voglio chiedere conto, che lei dice spesso che quello della madre è un lavoro “socialmente utile”. In che senso?

Avere figli non è un fatto privato. Questa idea, se pensiamo ai nostri nonni o ai nostri padri, prima era scontata perché la madre aveva un ruolo centrale all’interno della comunità; che il suo lavoro fosse “socialmente utile” non era messo in discussione da nessuno. Oggi, invece, la maternità è oscurata, è solo una delle scelte possibili. Anzi, spesso chi ha figli ha meno opportunità degli altri perché i bambini appaiono solo come elementi di disturbo, e nient’altro (pensi solo a certe réclame di alberghi o ristoranti che promettono ai clienti di essere “child free”). Ora, non voglio dilungarmi su questioni comunque importanti come la continuità generazionale, i problemi dello spopolamento di certe zone in Italia, la tenuta del nostro welfare, della sanità e, in generale, di tutti gli effetti socio economici che il calo della natalità produce, ma voglio solo dire che questo “inferno demografico” ha un effetto sulla vitalità e la coesione della nostra società. Una società che ha meno bambini è una società triste, che non sa guardare al futuro con speranza.

Rimaniamo sulla parola “speranza”. Quando si parla di inverno demografico ci si concentra molto, e giustamente, sugli ostacoli economici che impediscono alle donne di avere figli. Sono gli unici che vanno rimossi?

Questi ostacoli esistono ed è compito della politica fare in modo che possano essere superati, ma, naturalmente, non sono gli unici. Il paradosso demografico è che sono le nazioni più ricche quelle che hanno meno figli. Non solo: il calo demografico c’è in tutto il mondo, non solo in Occidente, che pure è all’avanguardia, ma anche in Asia (pensiamo al Giappone) e, secondo alcune stime, persino alcuni paesi dell’Africa si stanno avviando verso questa strada. Il fatto è che nella postmodernità c’è una cesura tra “oggi” e “ieri” e si stanno diffondendo dei modelli di vita, fondati sull’individualismo e il consumo, diversi da quelli di un tempo. La vita non è qualcosa che si costruisce, ma che si spreme. Si consumano le esperienze, le relazioni, i propri giorni. La vita è solo ciò che accade “qui e ora” perché ciò che avverrà dopo di noi non ci interessa. Non avendo alcuna eredità da lasciare, non si vuole avere alcun erede. Il figlio, invece, è proprio il segno che si può guardare al futuro con speranza.

Da un punto di vista demografico, il nostro è un destino segnato?

Se pensassi questo, non avrei accettato l’incarico da ministro. Come dicevo prima, noi sappiamo che, sebbene la mentalità che sta prendendo sempre più piede sia questa, gli italiani, ancora oggi, desiderano avere figli. Io penso che la politica possa iniziare a intervenire e poi le cose potranno cambiare. Non sono fatalista e non ritengo che il nostro sia un destino ineluttabile. Si può iniziare un percorso.

Non certo riproponendo modelli di cinquant’anni fa, però.

Certo, non bisogna guardare indietro, ma in avanti.

E come?

Ripartendo dalle madri, innanzitutto. Costruendo intorno a loro un welfare di prossimità che non le lasci sole. Oggi molte madri vivono in una condizione di solitudine. Succede per ragioni diverse, ma cito solo un fatto: s’è sfilacciata quella rete parentale che, una volta, attraverso le nonne, le zie, le amiche, era un luogo di trasmissione di saperi e competenze che aiutavano le mamme ad affrontare la nascita dei figli. Prima era impensabile, ma oggi capita che una donna tenga per la prima volta in braccio un bambino solo quando le nasce il primo figlio. Ecco, io vorrei in qualche modo aiutare le donne, fornendo loro un accompagnamento per i primi mille giorni dopo la nascita del bambino. Non si può demandare tutto al rapporto col pediatra (e lo dice una che, al primo figlio, consultò il proprio pediatra milioni di volte!). Questo accompagnamento lo si può mettere in atto con politiche mirate, dando linfa a ciò che, in verità, è previsto anche dalla legge 194 attraverso la rete dei consultori. Oggi i consultori fanno questo lavoro? È la maternità la grande ferita del nostro tempo perché è “svalorizzata”. Eppure nella nostra Costituzione è nominata tre volte. All’articolo 31 si dice espressamente che la nostra Repubblica «protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».

Lei ha detto che è in corso una battaglia per «eliminare la maternità». Non è un’esagerazione?

Per niente. Si pensi ai concetti oggi tanto di moda di fluidità e neutralità, che neutri non sono per nulla. La parola “donna” non si può più pronunciare. La persecuzione mediatica cui è stata sottoposta l’autrice di Harry Potter, J.K. Rowling, ci mostra proprio questo. Appena qualche anno fa, fu pubblicato un documento dei ginecologi statunitensi in cui, nemmeno una volta, appariva la parola “donna”, ma solo l’espressione “persona con l’utero”. E pure questa, ormai, è inadeguata: mi è persino capitato di trovare l’assurda e vergognosa definizione di “persona con il buco davanti”. Ma lo vediamo anche in fenomeni come l’utero in affitto o le tecniche di riproduzione che consentono di definire “madre” tre, quattro, cinque persone diverse. Quindi, sì, è la potenza del materno che è sotto attacco. La società è stata costruita sull’individuo, letteralmente “ciò che non si può dividere”, mentre la donna, quando diventa madre, è colei che si divide, è l’uno che si fa due. È per questo che la donna ha vissuto sempre ai margini della cittadinanza. Poi le cose sono cambiate, le donne hanno fatto le loro conquiste, ma il modello non è cambiato. La maternità non è considerata, è rimasta fuori dal perimetro della cittadinanza e del mondo del lavoro.

Che significato ha per lei l’espressione “pari opportunità”?

Vede, oggi si è affermato un modello “emancipazionista”, secondo cui l’obiettivo più alto per una donna è essere come un uomo. No! Va invece valorizzata la differenza, il fatto che le donne sono altro dagli uomini ed è questa differenza che merita di avere cittadinanza. Sebbene oggi abbiano assunto altri significati, in realtà le “pari opportunità” sono nate proprio per questo: non per permettere alle donne di essere “alla fine” uguali agli uomini, ma per dare alle donne la possibilità di partire dallo stesso punto da cui partono gli uomini. Quindi per offrire la possibilità di colmare un gap alla partenza, non un modo per annullare la differenza tra maschi e femmine che, invece, vivaddio, esiste.

Basterà una politica più attenta alla vita a far uscire l’Italia dall’inferno demografico?

Le leggi contano e la politica conta, ma certo non possono risolvere tutto. Molto si può fare a partire dal luogo di lavoro con buone pratiche di welfare aziendale. Noi, ad esempio, abbiamo presentato un codice di autodisciplina per le aziende per favorire l’ingresso e la permanenza delle donne, anche in seguito alla maternità, nel mondo del lavoro. Io sono convinta che il cambio di un certo modo di fare impresa può dare una spinta importante. Poi, certo, come dicevo, la politica può molto, ma per una vera svolta serve un cambio di mentalità di tutta la società.

Una volta lei ha spiegato che se dovesse sintetizzare in una sola parola il cuore del suo ministero lo chiamerebbe “ministero per la vitalità”. Cosa intende?

Mi piace questa parola perché richiama l’idea di vita, il fatto che con i figli c’è una continuità generazionale ma anche una novità: un ieri, un oggi, un domani. È il contrario del pensiero molto attuale che noi dobbiamo vivere l’hic et nunc senza legami. Avere figli significa avere una speranza, essere aperti al futuro, pensare che non tutto è solo consumo immediato che inizia e finisce con noi. A partire da questa consapevolezza viene tutto il resto, lo sviluppo sociale ed economico. Ma io sono fiduciosa, vedo qualche segnale in controtendenza. Ora si tratta di allargare le maglie di questa consapevolezza e chiamare tutti a partecipare a questa rinascita.

mercoledì 19 aprile 2023

UN ANNIVERSARIO MANCATO : 18 APRILE 1948

LEONARDO LUGARESI 

Ieri cadeva il settantacinquesimo anniversario delle elezioni del 1948, le uniche che la Democrazia Cristiana vinse davvero. Posso sbagliarmi, ma mi pare che la ricorrenza sia passata nel silenzio generale, o quasi. Il che, se ci si pensa, è molto strano in un tempo come il nostro, in cui la fregola delle celebrazioni impazza e non c'è giorno che non si commemori questo o quell'altro avvenimento del passato. Oltretutto, “75” è una cifra abbastanza tonda da ingolosire i celebratori in servizio permanente effettivo, ma c'è una ragione di più per insospettirsi. Nelle attuali circostanze, quale occasione più ghiotta di questa ci sarebbe stata per sfruttare – strumentalmente, si capisce, ma oggigiorno tutto è strumentale – la “scelta atlantica” fatta allora dal popolo italiano a supporto di quella che si vuole che faccia oggi? “Settantacinque anni dopo, oggi come allora, dalla parte dell'Occidente contro la Russia!”: non sarebbe forse questo uno slogan spendibile, sul mercato della propaganda di guerra? Allora perché tacere, “un po' come si tace di un'onta”, di ciò che avvenne quel giorno?

Ci ho pensato, e il mio “debol parere” sarebbe questo. Qual è il senso principale di ciò che fece il popolo italiano il 18 aprile del 1948, nelle elezioni più democratiche che mai ci furono nella sua storia? Per chi votò e contro chi votò? Ma soprattutto, perché votò così? Per rispondere a queste domande ci vorrebbero naturalmente analisi storiche complesse e raffinate, che qui certo non c'è la presunzione di poter fare. Andiamo però al sodo, facendo un discorso rozzo sì ma io credo fondato: chi c'era sulla lista e nei manifesti del Fronte Popolare? C'era Garibaldi. Che fosse solo una maschera di Stalin lo disse, con indubbia efficacia, la propaganda avversa, ma c'era Garibaldi, non qualcun altro. E i simboli in politica contano; allora poi contavano moltissimo, in un'Italia ancora relativamente poco alfabetizzata.

Il 18 aprile del '48, il popolo italiano votò contro Garibaldi. In che senso? Nel senso che quel popolo, il quale era appena uscito dall'immane catastrofe della guerra cioè dalla quasi distruzione del paese, intuiva di chi fossero le responsabilità storiche di tutto quel male. Del fascismo, in primo luogo. Su questo non ci possono essere equivoci e sottili distinguo: la libertà di manifestazione del pensiero è sacra e quindi io, come ho detto tante volte in questo blog, sono assolutamente contrario a qualsiasi forma di repressione penale anche dell'apologia del fascismo, ma con pari forza credo che vada contrastata duramente, sul piano culturale ed intellettuale, qualsiasi forma di rivalutazione di un fenomeno storico che ha portato l'Italia sull'orlo dell'annientamento. Del fascismo in quanto tale non c'è nulla da salvare e Mussolini è stato uno dei più grandi criminali (e coglioni) della storia d'Italia. Nulla importa, rispetto a questo, che “abbia anche fatto cose buone”.

Ma il fascismo si presentò, non senza ragione, come il compimento definitivo, in chiave di rivoluzione nazionale, del processo risorgimentale. Cioè di quel processo di cui il conte di Cavour pagò il biglietto di ingresso, “con alcune migliaia di morti per sedere al tavolo della pace”, mandando i soldati piemontesi a morire di colera in Crimea (in Crimea!); facendo cioè, sia pure con opposti risultati, lo stesso ragionamento che fece Mussolini nel giugno del 1940 (sedendosi però dalla parte sbagliata del tavolo). Quel processo in base al quale, fatta l'Italia, “bisognava fare gli Italiani”; frase totalitaria quant'altre mai, e no, non la disse Mussolini. Quel processo che si sviluppò nelle stolte e fallimentari aspirazioni imperialistiche e coloniali dell'Italia crispina (poi puntualmente riprese, in modo ancor più stolto e criminale dal fascismo). Quel processo che culminò nei seicentomila morti della guerra del '15-'18: guerra di aggressione contro l'integrità territoriale di uno stato sovrano (toh, proprio come quella di Putin!), per giunta dichiarata contro una potenza con cui eravamo alleati (questo nemmeno Putin l'ha fatto), decisa dal re e da una minoranza di manigoldi contro la volontà della maggioranza del paese e del parlamento, e legittimata appunto come quarta guerra d'indipendenza. E no, non fu Mussolini a dichiararla, anche se, per parte sua, l'appoggiò entusiasticamente, costruendoci sopra l'inizio delle sue fortune politiche. Si potrebbe continuare, ma non ce n'è bisogno: basti solo notare la contraddizione vigente ancor oggi, per cui noi dovremmo ufficialmente esaltare tutta quella robaccia e al tempo stesso esecrare il fascismo che si inserì a pieno titolo in quella stessa corrente. È in gran parte per quel legame che esso non fu, come ormai tutti gli storici convengono, né un incidente di percorso, né una parentesi nella storia d'Italia unita, ma una parte ingrante di essa.

A tutto ciò il popolo italiano, ferito e bruciato dalle conseguenze della catastrofe a cui tutto quel percorso nazionalistico aveva portato, nell'unica volta in cui gli fu possibile esprimersi effettivamente, disse di no. Con la scelta di Garibaldi, il Fronte Popolare intese invece riallacciarsi a quella storia anticattolica, sia pur pretendendo di cambiarne radicalmente il segno in senso rivoluzionario socialista e pacifista. Il popolo italiano non abboccò. Per questo dico che votò sì contro i comunisti, per sana intuizione del pericolo pur senza aver provato fino in fondo sulla sua pelle che cosa fosse il comunismo; ma votò anche contro Garibaldi.

E da chi andò, invece, nella sua condizione di rovina post-bellica? Dalle mie parti si sarebbe detto, brutalmente e ingiustamente: dai preti. Più correttamente diremo che il popolo italiano il 18 aprile 1948 riconobbe d'istinto che, pur con tutti i suoi difetti e i suoi peccati, chi lo aveva veramente sostenuto e aiutato era sempre stata la Chiesa Cattolica, e dunque votò non per il partito cattolico (che è una contraddizione in termini) ma per il partito dei cattolici, che era la forma allora storicamente possibile dell'unità politica dei cattolici. Un partito che non aveva il papa nel suo stemma, ma la croce, e si chiamava Democrazia cristiana: formula felicissima, nel suo implicito richiamarsi al profetico ammonimento di Leone XIII: «la democrazia o sarà cristiana o non sarà», perché in essa l'aggettivo faceva da imprescindibile sostegno al sostantivo altrimenti periclitante (come poi si è visto). “Democrazia cristiana” e non “Cristianesimo democratico”, che è la merce avariata che certuni propagandano oggi nella chiesa.

Ricordare il 18 aprile, se mai lo si facesse seriamente, richiederebbe però di non fermarsi alla celebrazione di quella giornata e di riflettere invece sul quinquennio che ne seguì, in assoluto il migliore della storia italiana, il breve periodo in cui è racchiuso il “miracolo italiano” (certi frutti del quale si videro dopo, ma in un certo senso la semina fu quasi tutta e quasi solo in quegli anni). Ma soprattutto bisognerebbe fare i conti con la tragedia che venne dopo e di cui oggi misuriamo amaramente le conseguenze. La chiamo tragedia perché tale è, ma il nome che propriamente la definisce è subalternità culturale dei cattolici ad un pensiero non cristiano, anzi anticristiano. Di nuovo, qui ci vorrebbero analisi storiche che vanno ben oltre la nostra portata, ma il nocciolo della questione è chiaro. Quel partito di cattolici, che allora era ancora guidato da uomini politici che in gran parte andavano a messa credendoci veramente, fu però, nei quarant'anni e più di durata del suo primato politico-elettorale, fortemente subalterno ad una cultura anticristiana, quella sì veramente egemone, a cui si devono i disastri di oggi.

Quella cultura prese il controllo delle parole, e non lo mollò più. Il primo segnale si ebbe alle elezioni successive, il 7 giugno del 1953, quando per un soffio la coalizione di maggioranza formata dalla DC e dai partiti minori di centro mancò la maggioranza assoluta dei voti. Furono elezioni dominate dal falso dibattito, che la sinistra riuscì ad imporre, su una legge elettorale che da allora tutti chiamano “legge truffa”, usando l'etichetta truffaldina che la sinistra le appiccicò. Era una legge che attribuiva un premio di maggioranza a chi la maggioranza assoluta dei voti l'avesse conquistata nelle urne. Cioè era una legge che quanto a rappresentatività democratica era infinitamente più corretta dei sistemi maggioritari con cui, senza battere ciglio, si lascia che ormai in quasi tutti i paesi europei governino delle minoranze. Eppure, chi aveva preso il controllo della lingua decise che era “la legge-truffa”, e tale è rimasta.

Da quel momento in poi, fu solo un lunghissimo piano inclinato, di progressivo cedimento, ripeto, a una cultura che di cristiano non aveva nulla. Si dirà che non fu tutta colpa del partito, perché la carenza di cultura era nella chiesa stessa e di pensiero cristiano politicamente adeguato alle necessità dei tempi ce n'era poco in giro, ed è vero ma solo fino ad un certo punto. Basti considerare, per esempio, l'indifferenza, per non dire il disprezzo, con cui fu trattato nella DC il contributo di idee del più importante pensatore cattolico di quel tempo, Augusto Del Noce: un tardivo e sostanzialmente inutile seggio da senatore offertogli da vecchio non compensa l'errore capitale di non aver prestato alcuna attenzione a ciò che aveva detto per decenni.

Fra le tante conseguenze nefaste di quella subalternità culturale, ce n'è una che spicca per la gravità delle sue conseguenze: la mancata centralità di una politica della famiglia. Nonostante la matrice da cui proveniva e ad onta delle solenni promesse della Costituzione repubblicana che aveva contribuito a scrivere, il partito dei cattolici, nei quaranta e più anni in cui ha contato qualcosa in Italia, ha fatto davvero troppo poco per la famiglia: niente quoziente familiare nel sistema fiscale, niente sostegno alla libertà di scelta educativa dei genitori, provvedimenti in favore della donna, della maternità e della tutela della vita nascente preferibilmente concepiti in un'ottica individualista / femminista più che familiare, e via discorrendo. In buona sostanza, e di nuovo con una consapevole semplificazione, per tutto quel tempo si è potuto fare solo quello che passava il vaglio di una cultura dominante, che non era quella dei cattolici, per quanto il loro partito continuasse ad avere la maggioranza relativa.

Oggi che la presenza politica dei cattolici è inesistente, quell'epoca potrebbe sembrarci un paradiso; ma era un paradiso di latta, in cui si ponevano tutte le premesse della situazione attuale. Oggi, per fare un solo esempio di stretta attualità, tutti hanno dovuto sbattere il naso contro il disastro demografico. Che non c'è da oggi, ma da almeno trent'anni, però è sempre stato proibito parlarne, perché chi lo faceva era immediatamente tacciato di essere “fascista”.

Proprio ieri, nel giorno della mancata memoria del 18 aprile, un ministro dell'attuale governo ha detto una cosa elementare, talmente scontata che la si potrebbe persino definire banale: una nazione in cui non si fanno più figli, che pensa di risolvere il problema importante degli immigrati si condanna al suicidio. Nell'esprimere questo concetto lapalissiano, quel ministro ha usato l'espressione sostituzione etnica, la cui applicabilità al caso specifico può essere discutibile nel merito (come tutto) ma che non ha in sé nulla di scorretto e tanto meno di scandaloso. Gli epigoni di quella ideologia del nulla – che tanto male ci ha fatto, e che ormai è un cadavere putrefatto a cui nessuno dà più alcun credito ma continua con i suoi cascami ad ammorbarci – ha subito cominciato a strepitare e a stracciarsi le vesti perché quel ministro “ha bestemmiato”. Poiché hanno ancora in mano le redazioni dei giornali e delle televisioni, l'editoria, i centri di potere dell'accademia e della scuola e di tutte le altre istituzioni culturali, il rumore per quanto superficiale si sente.

Incapaci di pensare le cose, si gingillano con le parole: le sequestrano, le criminalizzano e le sterminano. Già non si poteva usare razza, perché se lo si faceva si era automaticamente razzisti (e chissenefrega se la Costituzione repubblicana la usa tranquillamente: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»). Ora è proibito anche dire etnia. Se potessero, proibirebbero anche di dire popolo (perché il popolo lo odiano), ma hanno qualche problema in più perché la parola è troppo infiltrata anche nei loro sacri testi. Però con l'invenzione del derivato omnibus populismo sono riusciti a proiettare un'ombra di sospetto anche sul sostantivo di base. Incapaci di comprendere la realtà, sono però bravissimi ad assassinare il linguaggio. Solo che agli uomini, se gli togli le parole li rovini.