FASCISMO, NOI INCOMPATIBILI CON QUALSIASI NOSTALGIA
di Giorgia Meloni
La lettera della premier al «Corriere»: «Democrazia e libertà sono scolpite
nella Costituzione con un testo che aveva l’obiettivo di unire, non di
dividere: occorre fare di questa ricorrenza un momento di rinnovata concordia»
Paola del Din e Giorgia Meloni |
oggi l’Italia celebra l’anniversario della Liberazione. Io stessa lo farò accompagnando il presidente della Repubblica Mattarella nella tradizionale cerimonia di deposizione di una corona di alloro all’Altare della Patria, mentre i ministri del governo parteciperanno alle altre celebrazioni istituzionali previste.
Nel mio primo 25 Aprile da presidente del Consiglio, affido alle colonne del Corriere alcune riflessioni che mi auguro possano contribuire a fare di questa ricorrenza un momento di ritrovata concordia nazionale nel quale la celebrazione della nostra ritrovata libertà ci aiuti a comprendere e rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo come imprescindibile baluardo di democrazia. E lo faccio con la serenità di chi queste riflessioni le ha viste maturare compiutamente tra le fila della propria parte politica ormai 30 anni fa, senza mai discostarsene nei lunghi anni di impegno politico e istituzionale. Da molti anni infatti, e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano la destra in
Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo.
Il 25 Aprile 1945 segna
evidentemente uno spartiacque per l’Italia: la fine della Seconda
guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle
persecuzioni anti ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e
privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la nostra comunità nazionale.
Purtroppo, la stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa guerra
civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si
protrasse e divise persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio
che portò a esecuzioni sommarie anche diversi mesi dopo la fine del conflitto.
Così come è doveroso ricordare che, mentre quel giorno milioni di italiani
tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri
connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di
eccidi e il dramma dell’esodo dalle loro terre. Ma il frutto fondamentale del
25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori
democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo
scolpiti nella Costituzione repubblicana.
Da quel paziente negoziato volto a definire princìpi e regole della nostra nascente
democrazia liberale — esito non unanimemente auspicato da tutte le componenti
della Resistenza — scaturì un testo che si dava l’obiettivo di unire e
non di dividere, come ha ben ricordato alcuni giorni fa su queste
pagine il professor Galli della Loggia.
Nel gestire quella difficile transizione, che aveva già conosciuto un passaggio
significativo con l’amnistia voluta dall’allora ministro della Giustizia
Togliatti, i costituenti affidarono dunque alla forza stessa della democrazia e
della sua realizzazione negli anni il compito di includere nella nuova
cornice anche chi aveva combattuto tra gli sconfitti e quella
maggioranza di italiani che aveva avuto verso il fascismo un atteggiamento
«passivo». Specularmente, chi dal processo costituente era rimasto escluso per
ovvie ragioni storiche, si impegnò a traghettare milioni di italiani nella
nuova repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica. Una
famiglia che negli anni ha saputo allargarsi, coinvolgendo tra le proprie fila
anche esponenti di culture politiche, come quella cattolica o liberale, che
avevano avversato il regime fascista.
È nata così una grande democrazia, solida, matura e forte, pur
nelle sue tante contraddizioni, e che nel lungo Dopoguerra ha saputo resistere
a minacce interne ed esterne, rendendo protagonista l’Italia nei processi di
integrazione europea, occidentale e multilaterale. Una democrazia nella quale
nessuno sarebbe disposto a rinunciare alle libertà guadagnate. Nella quale,
cioè, libertà e democrazia sono un patrimonio per tutti, piaccia o
no a chi vorrebbe che non fosse così. E questa non solo è la conquista più
grande che la nostra Nazione possa vantare ma è anche l’unico, vero
antidoto a qualsiasi rischio autoritario.
Per questo non comprendo le ragioni per le quali, in Italia, proprio fra coloro
che si considerano i custodi di questa conquista vi sia chi ne nega allo stesso
tempo l’efficacia, narrando una sorta di immaginaria divisione tra italiani
compiutamente democratici e altri — presumibilmente la maggioranza a giudicare
dai risultati elettorali — che pur non dichiarandolo sognerebbero in segreto un
ritorno a quel passato di mancate libertà.
Capisco, invece, quale sia l’obiettivo di quanti, in preparazione di questa
giornata e delle sue cerimonie, stilano la lista di chi possa e di chi non
possa partecipare, secondo punteggi che nulla hanno a che fare con la storia ma
molto hanno a che fare con la politica. È usare la categoria del
fascismo come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico:
una sorta di arma di esclusione di massa, come ha insegnato Augusto Del Noce,
che per decenni ha consentito di estromettere persone, associazioni e partiti
da ogni ambito di confronto, di discussione, di semplice ascolto. Un
atteggiamento talmente strumentale che negli anni, durante le celebrazioni, ha
portato perfino a inaccettabili episodi di intolleranza come quelli troppe
volte perpetrati ai danni della Brigata ebraica da parte di
gruppi estremisti. Episodi indegni ai quali ci auguriamo di non dover più
assistere.
Mi domando se queste persone si rendano conto di quanto,così facendo, indeboliscono
i valori che dicono di voler difendere. È probabilmente questa
consapevolezza ad aver spinto Luciano Violante a
individuare — nel suo memorabile discorso di insediamento da presidente della
Camera quasi trent’anni fa — proprio in una certa «concezione proprietaria»
della lotta di Liberazione uno dei fattori che le impedivano di diventare
patrimonio condiviso da tutti gli italiani. Un concetto ripreso nel 2009
da Silvio Berlusconi (allora presidente di un Consiglio dei
ministri nel quale sedevo anche io) in un altro famoso discorso, quando a Onna,
celebrando l’anniversario della Liberazione sulle macerie del terremoto, invitò
a fare del 25 Aprile la «Festa della Libertà», così da superare le
lacerazioni del passato.
Un auspicio che non solo condivido ma che voglio, oggi, rinnovare, proprio
perché a distanza di 78 anni l’amore per la democrazia e per la libertà è
ancora l’unico vero antidoto contro tutti i totalitarismi. In Italia come in
Europa. Una consapevolezza che ha portato il Parlamento europeo a
condannare inequivocabilmente e definitivamente tutti i regimi del ‘900, senza
eccezioni, con una risoluzione del settembre 2019 nella quale mi riconosco
totalmente, e che il gruppo di Fratelli d’Italia, insieme a tutta la famiglia
dei Conservatori europei e all’intero centrodestra, votò senza alcuna
esitazione (a differenza, purtroppo, di altri). Una risoluzione che assume
nell’attuale contesto un valore ancora maggiore, dinnanzi alla eroica
resistenza del popolo ucraino in difesa della propria libertà e
indipendenza dall’invasione russa.
In tutto il mondo le autocrazie cercano di guadagnare campo sulle democrazie e
si fanno sempre più aggressive e minacciose, e il rischio di una saldatura che
porti a sovvertire l’ordine internazionale che le democrazie liberali hanno
indirizzato e costruito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la
dissoluzione dell’Unione Sovietica è purtroppo reale. In questo nuovo
bipolarismo l’Italia la sua scelta di campo l’ha fatta, ed è una scelta
netta. Stiamo dalla parte della libertà e della democrazia, senza se e
senza ma, e questo è il modo migliore per attualizzare il messaggio del 25
Aprile. Perché con l’invasione russa dell’Ucraina la nostra libertà è
tornata concretamente in pericolo.
È, questa, una convinzione che ho rafforzato grazie all’incontro con una donna straordinaria, Paola Del Din .
Durante la Resistenza combatteva con le Brigate Osoppo, le
formazioni di ispirazione laica, socialista, monarchica e cattolica. Fu la
prima donna italiana a paracadutarsi in tempo di guerra. Il suo coraggio le è
valso una Medaglia d’oro al valor militare, che ancora oggi, quasi settant’anni
dopo averla ricevuta, sfoggia sul petto con commovente orgoglio. Della
Resistenza dice: «Il tempo ci ha ribattezzati Partigiani, ma noi eravamo
Patrioti, io lo sono sempre stata e lo sono ancora». Nell’Italia
repubblicana è stata insegnante di Lettere e, nonostante i suoi quasi cento
anni, continua ad accettare gli inviti a parlare nelle scuole di Italia e del
valore della Libertà.
Dedico questo giorno a lei, madre di quattro figli e nonna di
altrettanti nipoti, ma anche, idealmente, di tutti gli italiani che
antepongono l’amore per la propria Patria a ogni contrapposizione ideologica.
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