LEONARDO LUGARESI
Ieri cadeva il settantacinquesimo anniversario delle elezioni del 1948, le uniche che la Democrazia Cristiana vinse davvero. Posso sbagliarmi, ma mi pare che la ricorrenza sia passata nel silenzio generale, o quasi. Il che, se ci si pensa, è molto strano in un tempo come il nostro, in cui la fregola delle celebrazioni impazza e non c'è giorno che non si commemori questo o quell'altro avvenimento del passato. Oltretutto, “75” è una cifra abbastanza tonda da ingolosire i celebratori in servizio permanente effettivo, ma c'è una ragione di più per insospettirsi. Nelle attuali circostanze, quale occasione più ghiotta di questa ci sarebbe stata per sfruttare – strumentalmente, si capisce, ma oggigiorno tutto è strumentale – la “scelta atlantica” fatta allora dal popolo italiano a supporto di quella che si vuole che faccia oggi? “Settantacinque anni dopo, oggi come allora, dalla parte dell'Occidente contro la Russia!”: non sarebbe forse questo uno slogan spendibile, sul mercato della propaganda di guerra? Allora perché tacere, “un po' come si tace di un'onta”, di ciò che avvenne quel giorno?
Ci ho pensato, e il
mio “debol parere” sarebbe questo. Qual è il senso principale di ciò che fece
il popolo italiano il 18 aprile del 1948, nelle elezioni più democratiche che
mai ci furono nella sua storia? Per chi votò e contro chi votò? Ma soprattutto, perché votò così? Per
rispondere a queste domande ci vorrebbero naturalmente analisi storiche
complesse e raffinate, che qui certo non c'è la presunzione di poter fare.
Andiamo però al sodo, facendo un discorso rozzo sì ma io credo fondato: chi c'era sulla lista e nei manifesti del Fronte Popolare? C'era Garibaldi. Che fosse solo
una maschera di Stalin lo disse, con indubbia efficacia, la propaganda avversa,
ma c'era Garibaldi, non qualcun altro. E i simboli in politica contano; allora
poi contavano moltissimo, in un'Italia ancora relativamente poco alfabetizzata.
Il 18 aprile del '48, il popolo italiano votò contro Garibaldi. In che senso?
Nel senso che quel popolo, il quale era appena uscito dall'immane catastrofe
della guerra cioè dalla quasi distruzione del paese, intuiva di chi fossero le
responsabilità storiche di tutto quel male. Del fascismo, in primo luogo. Su
questo non ci possono essere equivoci e sottili distinguo: la libertà di
manifestazione del pensiero è sacra e quindi io, come ho detto tante volte in
questo blog, sono assolutamente contrario a qualsiasi forma di repressione
penale anche dell'apologia del fascismo, ma con pari forza credo che vada
contrastata duramente, sul piano culturale ed intellettuale, qualsiasi forma di
rivalutazione di un fenomeno storico che ha portato l'Italia sull'orlo
dell'annientamento. Del fascismo in quanto tale non c'è nulla da salvare e
Mussolini è stato uno dei più grandi criminali (e coglioni) della storia
d'Italia. Nulla importa, rispetto a questo, che “abbia anche fatto cose buone”.
Ma il fascismo si presentò, non senza ragione, come il compimento
definitivo, in chiave di rivoluzione nazionale, del processo risorgimentale. Cioè di quel
processo di cui il conte di Cavour pagò il biglietto di ingresso, “con alcune
migliaia di morti per sedere al tavolo della pace”, mandando i soldati
piemontesi a morire di colera in Crimea (in Crimea!); facendo cioè, sia pure
con opposti risultati, lo stesso ragionamento che fece Mussolini nel giugno del
1940 (sedendosi però dalla parte sbagliata del tavolo). Quel processo in base
al quale, fatta l'Italia, “bisognava fare gli Italiani”; frase totalitaria
quant'altre mai, e no, non la disse Mussolini. Quel processo che si sviluppò
nelle stolte e fallimentari aspirazioni imperialistiche e coloniali dell'Italia
crispina (poi puntualmente riprese, in modo ancor più stolto e criminale dal
fascismo). Quel processo che culminò nei seicentomila morti della guerra del
'15-'18: guerra di aggressione contro l'integrità territoriale di uno stato sovrano
(toh, proprio come quella di Putin!), per giunta dichiarata contro una potenza
con cui eravamo alleati (questo nemmeno Putin l'ha fatto), decisa dal re e da
una minoranza di manigoldi contro la volontà della
maggioranza del paese e del parlamento, e legittimata appunto come quarta guerra d'indipendenza. E no, non fu Mussolini a dichiararla,
anche se, per parte sua, l'appoggiò entusiasticamente, costruendoci sopra
l'inizio delle sue fortune politiche. Si potrebbe continuare, ma non ce n'è
bisogno: basti solo notare la contraddizione vigente ancor oggi, per cui noi
dovremmo ufficialmente esaltare tutta quella robaccia e al tempo stesso
esecrare il fascismo che si inserì a pieno titolo in quella stessa corrente. È
in gran parte per quel legame che esso non fu, come ormai tutti gli storici
convengono, né un incidente di percorso, né una parentesi nella storia d'Italia
unita, ma una parte ingrante di essa.
A tutto ciò il popolo italiano, ferito e bruciato dalle conseguenze della catastrofe a cui tutto quel percorso nazionalistico aveva portato, nell'unica volta in cui gli fu possibile esprimersi effettivamente, disse di no. Con la scelta di Garibaldi, il Fronte Popolare intese invece riallacciarsi a quella storia anticattolica, sia pur pretendendo di cambiarne radicalmente il segno in senso rivoluzionario socialista e pacifista. Il popolo italiano non abboccò. Per questo dico che votò sì contro i comunisti, per sana intuizione del pericolo pur senza aver provato fino in fondo sulla sua pelle che cosa fosse il comunismo; ma votò anche contro Garibaldi.
E da chi andò, invece,
nella sua condizione di rovina post-bellica? Dalle mie parti si sarebbe detto,
brutalmente e ingiustamente: dai preti. Più correttamente
diremo che il popolo italiano il 18 aprile 1948 riconobbe d'istinto che, pur
con tutti i suoi difetti e i suoi peccati, chi lo aveva veramente sostenuto e
aiutato era sempre stata la Chiesa Cattolica, e dunque votò non per il partito cattolico (che è una contraddizione in termini) ma per il partito dei cattolici, che era la forma allora storicamente possibile
dell'unità politica dei cattolici. Un partito che non aveva il papa nel suo
stemma, ma la croce, e si chiamava Democrazia cristiana: formula felicissima,
nel suo implicito richiamarsi al profetico ammonimento di Leone XIII: «la
democrazia o sarà cristiana o non sarà», perché in essa l'aggettivo faceva da
imprescindibile sostegno al sostantivo altrimenti periclitante (come poi si è
visto). “Democrazia cristiana” e non “Cristianesimo democratico”, che è la merce
avariata che certuni propagandano oggi nella chiesa.
Ricordare il 18 aprile, se mai lo si facesse seriamente, richiederebbe però di non fermarsi alla celebrazione di quella giornata e di riflettere invece sul quinquennio che ne seguì, in assoluto il migliore della storia italiana, il breve periodo in cui è racchiuso il “miracolo italiano” (certi frutti del quale si videro dopo, ma in un certo senso la semina fu quasi tutta e quasi solo in quegli anni). Ma soprattutto bisognerebbe fare i conti con la tragedia che venne dopo e di cui oggi misuriamo amaramente le conseguenze. La chiamo tragedia perché tale è, ma il nome che propriamente la definisce è subalternità culturale dei cattolici ad un pensiero non cristiano, anzi anticristiano. Di nuovo, qui ci vorrebbero analisi storiche che vanno ben oltre la nostra portata, ma il nocciolo della questione è chiaro. Quel partito di cattolici, che allora era ancora guidato da uomini politici che in gran parte andavano a messa credendoci veramente, fu però, nei quarant'anni e più di durata del suo primato politico-elettorale, fortemente subalterno ad una cultura anticristiana, quella sì veramente egemone, a cui si devono i disastri di oggi.
Quella cultura prese
il controllo delle parole, e non lo mollò più. Il primo segnale si ebbe alle
elezioni successive, il 7 giugno del 1953, quando per un soffio la coalizione
di maggioranza formata dalla DC e dai partiti minori di centro mancò la
maggioranza assoluta dei voti. Furono elezioni dominate dal falso dibattito,
che la sinistra riuscì ad imporre, su una legge elettorale che da allora tutti
chiamano “legge truffa”, usando l'etichetta truffaldina che la sinistra le
appiccicò. Era una legge che attribuiva un premio di maggioranza a chi la maggioranza assoluta dei voti l'avesse conquistata nelle urne. Cioè era una legge
che quanto a rappresentatività democratica era infinitamente più corretta dei
sistemi maggioritari con cui, senza battere ciglio, si lascia che ormai in
quasi tutti i paesi europei governino delle minoranze. Eppure, chi aveva preso
il controllo della lingua decise che era “la legge-truffa”, e tale è rimasta.
Da quel momento in poi, fu solo un lunghissimo piano inclinato, di progressivo cedimento, ripeto, a una cultura che di cristiano non aveva nulla. Si dirà che non fu tutta colpa del partito, perché la carenza di cultura era nella chiesa stessa e di pensiero cristiano politicamente adeguato alle necessità dei tempi ce n'era poco in giro, ed è vero ma solo fino ad un certo punto. Basti considerare, per esempio, l'indifferenza, per non dire il disprezzo, con cui fu trattato nella DC il contributo di idee del più importante pensatore cattolico di quel tempo, Augusto Del Noce: un tardivo e sostanzialmente inutile seggio da senatore offertogli da vecchio non compensa l'errore capitale di non aver prestato alcuna attenzione a ciò che aveva detto per decenni.
Fra le tante
conseguenze nefaste di quella subalternità culturale, ce n'è una che spicca per
la gravità delle sue conseguenze: la mancata centralità
di una politica della famiglia. Nonostante la matrice da cui
proveniva e ad onta delle solenni promesse della Costituzione repubblicana che
aveva contribuito a scrivere, il partito dei cattolici, nei quaranta e più anni
in cui ha contato qualcosa in Italia, ha fatto davvero troppo poco per la
famiglia: niente quoziente familiare nel sistema fiscale, niente sostegno alla
libertà di scelta educativa dei genitori, provvedimenti in favore della donna,
della maternità e della tutela della vita nascente preferibilmente concepiti in
un'ottica individualista / femminista più che familiare, e via discorrendo. In
buona sostanza, e di nuovo con una consapevole semplificazione, per tutto quel
tempo si è potuto fare solo quello che passava il vaglio di una cultura
dominante, che non era quella dei cattolici, per quanto il loro
partito continuasse ad avere la maggioranza relativa.
Oggi che la presenza
politica dei cattolici è inesistente, quell'epoca potrebbe
sembrarci un paradiso; ma era un paradiso di latta, in cui si ponevano tutte le
premesse della situazione attuale. Oggi, per fare un solo esempio di stretta
attualità, tutti hanno dovuto sbattere il naso contro il disastro demografico. Che non c'è da oggi, ma da almeno trent'anni, però è
sempre stato proibito parlarne, perché chi lo faceva era immediatamente
tacciato di essere “fascista”.
Proprio ieri, nel giorno della mancata
memoria del 18 aprile, un ministro dell'attuale governo ha detto una cosa
elementare, talmente scontata che la si potrebbe persino definire banale: una
nazione in cui non si fanno più figli, che pensa di risolvere il problema
importante degli immigrati si condanna al suicidio. Nell'esprimere questo
concetto lapalissiano, quel ministro ha usato l'espressione sostituzione etnica, la cui applicabilità al caso specifico può essere
discutibile nel merito (come tutto) ma che non ha in sé nulla di scorretto e
tanto meno di scandaloso. Gli epigoni di quella ideologia del nulla – che tanto
male ci ha fatto, e che ormai è un cadavere putrefatto a cui nessuno dà più
alcun credito ma continua con i suoi cascami ad ammorbarci – ha subito
cominciato a strepitare e a stracciarsi le vesti perché quel ministro “ha
bestemmiato”. Poiché hanno ancora in mano le redazioni dei giornali e delle
televisioni, l'editoria, i centri di potere dell'accademia e della scuola e di
tutte le altre istituzioni culturali, il rumore per quanto superficiale si
sente.
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