SANDRO FONTANA
Come mai nessun vescovo ha avuto nulla da dire di fronte alla difesa della Legge 194 fatta dal cardinale Zuppi, presidente della CEI? I motivi sono vari, ma il principale risiede nella formazione teologica che hanno ricevuto, che nega la metafisica e privilegia un pastoralismo spericolato.
I vescovi
italiani tacciono. Dalla gerarchia ecclesiastica arrivano idee ostiche su
ammissione dei divorziati all’Eucarestia, benedizione in chiesa delle coppie
omosessuali, aperture al riconoscimento giuridico delle stesse, disponibilità
alla discussione sul suicidio assistito, consenso alla legge 194 sull’aborto e
altro ancora … ma i singoli vescovi tacciono. L’ultimo esempio è stato quando, nei giorni scorsi, il cardinale
Matteo Zuppi [vedi QUI e QUI]
ha detto in una intervista che la legge 194 non si tocca e che rappresenta una
traduzione laica importante. Anche in questo caso non si è udita una parola da
parte di alcun vescovo italiano.
La stonatura di questo atteggiamento è piuttosto evidente: da un lato
l’errore dell’autorità ecclesiastica a capo di tutti i vescovi italiani su un
problema di etica pubblica di cui la Chiesa dovrebbe essere maestra, dall’altra
il silenzio dei vescovi da quella stessa autorità rappresentati. Nessun “non in
mio nome!”. È plausibile che, di punto in bianco, tutti i vescovi italiani
siano passati da fieri oppositori all’aborto a difensori della legge che lo
permette solo perché il cardinale Zuppi ha deciso così?
La questione
merita qualche considerazione.
Ogni singolo
vescovo è il primo “dottore” nella propria diocesi. Spetta a lui confermare i fedeli
nella fede e nella morale e conservare integra la dottrina. Le conferenze
episcopali, sia regionali che nazionali, non sostituiscono i singoli vescovi
nella loro specifica funzione ministeriale. È grave che stia avvenendo il
contrario. Il Presidente della CEI fa un passo senza ritorno, come è appunto
legittimare una legge che permette l’uccisione nel grembo materno di un
innocente, passo che comporta la negazione di una numerosa serie di principi di
teologia morale tradizionali, e i singoli vescovi non dicono una parola.
Una parola la si può dire in molti modi. Direttamente: scrivendo
una Nota per i fedeli che ribadisca i principi e i contenuti tradizionali.
Indirettamente: organizzando un convegno diocesano concluso dal vescovo allo
scopo medesimo di confermare la dottrina cattolica. Senza contare poi altri
mezzi come scrivere in via personale al cardinale presidente della CEI,
chiedendo spiegazioni delle sue parole o dissociandosi, oppure collegarsi con
altri vescovi per far emergere una posizione ortodossa. Non serve polemizzare,
è sufficiente precisare, perché il vescovo deve proteggere i propri fedeli che,
sentendo Zuppi, potrebbero ritenere ormai lecito l’aborto.
I motivi di
questo atteggiamento dei vescovi sono tanti e di diverso ordine. Uno è senz’altro il rispetto in
buona fede per i superiori nella gerarchia ecclesiastica. Prima di prendere
posizione anche leggermente in contrasto con quanto stabilito in alto, un
vescovo ci pensa più volte e poi finisce per aderire o per tacere (anche se –
bisogna dirlo – ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI questo pudore
c’era molto meno). Questo è comprensibile ma non sempre giustificabile perché
può trasformarsi in un atteggiamento corporativo: sostenersi comunque a
vicenda, non interferire l’uno nello spazio dell’altro come tanti piccoli
sovrani assoluti, coprire sempre e ad ogni costo.
In questo
particolare momento, poi, gioca certamente anche un altro fattore. Non c’è nella gerarchia ecclesiastica un
buon clima di fiducia reciproca. Molti vescovi si chiudono sospettosamente in
se stessi, soprattutto quelli che hanno qualche perplessità sui numerosi e
veloci cambiamenti in atto. Formalmente nella Chiesa si viene invitati ad esprimersi
senza timori, ma nella realtà i timori dei vescovi a parlare sono piuttosto
estesi. Ci si confida solo tra amici molto stretti, nelle riunioni può
diventare pericoloso esprimersi in modo schietto, qualcuno che potrebbe
riferire più in alto c’è sempre. L’apparato ecclesiale sospetta dei vescovi
renitenti ai cambiamenti e i vescovi che sospettano dell’apparato ecclesiale
tacciono. Nei momenti di confusione e di attriti, inoltre, c’è sempre una zona
grigia che non si compromette e aspetta che i tempi cambino. Capita così anche
tra i vescovi italiani che vivono ormai un contesto dove è possibile fare
carriera in fretta, perché le vecchie regole sono saltate, ma è anche possibile
cadere repentinamente in basso.
Il motivo principale, tuttavia, mi sembra un altro.
La gran parte ormai dei vescovi italiani, e soprattutto quelli nominati durante
questo pontificato, ha ricevuto una formazione teologica che li orienta a
condividere le transizioni ecclesiali in atto, compresa magari quella
dell’accettazione di una legge abortista. Hanno studiato tutti in seminari nei quali spiegare San Tommaso era
vietato e in quei seminari essi stessi hanno insegnato prima della nomina
episcopale. Da giovani sacerdoti diocesani hanno frequentato università
pontificie e facoltà teologiche imbevute della nuova cultura cattolica, hanno avuto per maestri i
produttori della nuova teologia morale cattolica, gli esegeti avanguardisti e i
pastoralisti spericolati.
Certamente,
non si può generalizzare, ma la generazione di vescovi che ancora aveva
studiato con i maestri della teologia metafisica non c’è più, sostituita da chi
ha avuto per maestri i negatori di quella teologia metafisica.
I vescovi non
scendono dal cielo all’improvviso. Il vescovo che nella propria formazione non ha mai incontrato Gilson
o Garrigou-Lagrange non faticherà ad acconsentire all’errore del cardinale
Zuppi sull’aborto.
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