INTERVISTA A LIBERO APRILE 2023
Professore,
siamo alla vigilia dell’ennesimo 25 aprile divisivo?
«Temo di sì, anche se ritengo probabile che le “sgrammaticature” arriveranno
più dagli antifascisti radicali che dai rappresentati del governo. L’infortunio
di La Russa, almeno a una cosa dovrebbe essere servito: d’ora in poi tutti
conteranno fino a 10 prima di proferire verbo. O almeno così si spera».
I nostri padri
costituenti avevano previsto che i gerarchi fascisti potessero candidarsi in
Parlamento fin dagli anni ’50. Pur avendo vissuto la guerra civile erano meno
antifascisti dell’attuale sinistra?
«Credo che il punto sia un altro. I padri costituenti sapevano perfettamente
che l’essere stati fascisti non era la colpa di una minoranza ma il dramma di
una nazione. Questo non poteva che attenuare la colpa di essere stati fascisti,
anche nei confronti di chi – come i gerarchi – aveva avuto maggiori responsabilità
nelle nefandezze del regime».
Non si
dimentica troppo spesso che la nostra Costituzione è democratica oltre
antifascista, visto che i due termini non sempre coincidono?
«L’antifascismo non è una
categoria politica universale, la democrazia sì. In questo senso quel
che c’è di duraturo nella Costituzione è la democrazia, non l’antifascismo.
Il problema, semmai, è che l’Italia Repubblicana non è mai stata una democrazia
piena, perché c’è sempre stata una parte delegittimata o non titolata a governare.
Nella prima Repubblica i comunisti e i nostalgici del fascismo, negli anni di
Mani pulite gli impresentabili del Pentapartito, nella seconda Repubblica prima
la destra berlusconiana, ora la destra di Giorgia Meloni. E infatti, se ci
facciamo caso, la storia del
nostro sistema politico è una storia ininterrotta di esami cui una parte
politica sottopone l’altra. Il PCI di Berlinguer doveva mostrare la sua indipendenza da Mosca,
Berlusconi risolvere il conflitto di interessi, Giorgia Meloni ripetere in ogni
occasione la condanna del fascismo. Sotto questo profilo, non siamo ancora una
democrazia compiuta (un problema che condividiamo con la Francia, dove da
decenni vige la conventio ad excludendum verso un partito di grande seguito
elettorale, il Front National dei Le Pen, padre e figlia)».
La
pacificazione nazionale fu in realtà una scusa per tutti per nascondere la
polvere sotto il tappeto?
«Pacificazione fino a un certo punto, a giudicare da quel che accadde nei
primissimi anni del dopoguerra, non solo nel “triangolo della morte”: un pezzo
di storia affiorato all’attenzione dell’opinione pubblica solo mezzo secolo
dopo, con la trilogia di Giampaolo Pansa (Il sangue dei vinti, Sconosciuto
1945, La grande bugia). Né possiamo dimenticare che pure le vicende delle Foibe
e dell’esodo giuliano-dalmata hanno dovuto attendere circa mezzo secolo per
essere ammessi nella memoria collettiva e nel racconto ufficiale. In breve: la pacificazione nazionale ha
sempre avuto un lato inquietante, di ablazione di porzioni della nostra
storia».
Il terrorismo
rosso degli anni ’70 e ’80 in realtà non fu anti-fascista ma anti-sistema: oggi
sarebbe anti-fascista?
«Non lo so, però la tentazione di usare l’antifascismo come bandiera di
qualsiasi battaglia politica non è mai stata forte come oggi. Forse anche per
una mancanza di fantasia: mi colpisce sempre molto il fatto che, 77 anni dopo
la caduta del fascismo, e 55 anni dopo il ’68, non si
riescano a inventare slogan un po’ più attuali».
Quando e perché
si è rotto il clima di pacificazione nazionale e siamo ripiombati in una guerra
civile a bassa intensità giocata sui media?
«Ci sono stati due grandi momenti di cesura: il 28 marzo 1994, quando
l’immorale Silvio Berlusconi vince le elezioni, e il 25 settembre 2023 quando
tocca alla fascista Giorgia Meloni conquistare Palazzo Chigi. Sul perché si sia
rotto il clima di pacificazione io ho una mia idea, che forse non dovrei tirare
fuori davanti a un giornalista: secondo me, una parte dei nostri guai derivano dalla faziosità
della stampa, e più in generale dei media, che si è grandemente accentuata
nella seconda Repubblica. Gli scambi di opinioni fra comuni cittadini
sono molto più civili e tolleranti degli scontri cui i medesimi cittadini sono
costretti ad assistere sui media. E il grave è che il trend è in peggioramento:
gli spazi in cui discutere in modo informato e rispettoso si sono prosciugati
quasi completamente».
La sinistra
moderna, anzi l’Italia tutta, è vittima del mito del fascismo eterno
concettualizzato da Umberto Eco?
«No, la gente normale è immune. Anzi, direi che è normale precisamente chi è
immune da quel mito. Il testo di Eco sul
“fascismo eterno”, un discorso pronunciato negli Stati Uniti il 25 aprile del
1995, è probabilmente il più ideologico (e quindi il meno lucido) fra i suoi
interventi pubblici. In quel testo Eco elencava 14 indizi di fascismo primario (o Ur-Fascismo),
dal tradizionalismo al complottismo, dal pacifismo alla “paura per la
differenza”, dal sincretismo all’irrazionalismo, dal populismo all’uso di una
lingua semplificata, che sarebbero ancora presenti fra noi, e che sarebbe
nostro preciso dovere scoprire e smascherare “ogni giorno, in ogni parte del
mondo”. Credo che ben pochi abbiano mai letto e preso sul serio la lista di
Eco, ma l’attitudine a vedere ovunque tracce di fascismo ha attecchito eccome».
L’estensione
del concetto di fascismo ormai ha raggiunto un’ampiezza tale che è fascista
tutto quello che la sinistra radicale non ritiene conforme al proprio pensiero?
«Non so se sia solo la sinistra radicale ad abusare del termine fascista. C’è
anche la sciatteria di pensiero, l’incompetenza lessicale, o più semplicemente
ci sono i tic del linguaggio, l’abuso di aggettivi e sostantivi. Come mai per
dire che qualcosa è molto cresciuto diciamo che lo ha fatto in modo
“esponenziale”? Come mai improvvisamente tutto quel che viene pubblicizzato
deve essere “sostenibile”? Per molti l’aggettivo fascista è un passepartout,
sinonimo di cattivo, riprovevole, inaccettabile. Viene usato come arma
contundente per etichettare tutto ciò che non piace, anche quando con il
fascismo ha poco o nulla a che fare».
È questo che
impedisce a chi non è di sinistra di dirsi anti-fascista, il fatto di aver
sostituito l’eterna diatriba italica tra guelfi e ghibellini con quella
anti-fascisti-resto del mondo?
«Un po’ è così, ma c’è anche un sentimento più profondo che complica le cose,
non tanto a Giorgia Meloni quanto a chiunque conservi un briciolo di
indipendenza di pensiero, comprese tante persone di sinistra. Se si arriva a
dare del “camerata” a una persona come Valditara, se l’aggettivo fascista viene
appioppato a chiunque non piaccia ai custodi dell’ortodossia antifascista,
allora abbiamo un problema. Tanti
italiani sono antifascisti nel senso classico (giudicano orribile e indifendibile
l’esperienza storica del fascismo), ma non ritengono fascisti la maggior parte
di coloro che sono bollati come tali. La loro esitazione a proclamarsi
antifascisti deriva, innanzitutto, dal cambiamento di estensione del termine
fascista. È come se dicessero, parafrasando liberamente Croce (“Perché non
possiamo non dirci cristiani”): se questi li considerate fascisti, allora noi
“non possiamo dirci antifascisti”».
Le istruzioni
della Murgia per diventare fascisti, con il relativo fascistometro, il test per
scoprire quanto sei fascista, in realtà sono un codice d’appartenenza per
distinguere al contrario il gruppo di ottimati che comunque, anche quando
sbaglia ed è illiberale, ha ragione ed è democratico per postulato?
«Sì, forse è così, ma provi ad applicare il fascistometro e vedrà che di
ottimati non fascisti ne sopravvivono pochissimi, forse solo Michela Murgia. È
praticamente impossibile, come hanno testimoniato tanti progressisti doc, non
sottoscrivere almeno una delle 65 affermazioni del fascistometro. In realtà il
libro della Murgia è la versione ad usum delphini del testo di Eco sull’Ur-
fascismo. Ne eredita la curvatura ideologica, fornendone una versione ingenua e
più digeribile, in cui gli indizi di fascismo passano da 14 a 65. Io l’ho usato
nel mio corso di Analisi dei dati, per spiegare agli studenti come non si
costruisce un test psicometrico rigoroso. Da questo punto di vista, quel libro
è prezioso».
Il più grande studioso del fascismo, Renzo De Felice, sosteneva che «uno
dei maggiori danni del fascismo è aver lasciato in eredità una mentalità
fascista ai non fascisti e alle generazioni successive». Concorda e secondo lei
c’è della consapevolezza di questo negli antifascisti di oggi?
«Questa frase
di De Felice viene quasi sempre riportata incompleta. In realtà, se non ricordo
male, nella sua intervista sul fascismo (pubblicata da Laterza nel 1975) De
Felice specificava anche in che cosa consistesse questa mentalità fascista: era fatta di “intolleranza,
sopraffazione ideologica, squalificazione dell’avversario per distruggerlo”.
Tutti tratti che, non da oggi, ritroviamo in una parte dell’antifascismo e del
mondo progressista, incapaci di accettare i risultati del confronto democratico
quando produce “mostri” come Berlusconi, Salvini o Meloni. È la dimostrazione
che, quando ci si avvia sulla strada indicata da Eco e Murgia, il fascismo non
solo è eterno, è anche ubiquo e universale, perché puoi credere di riconoscerlo
dappertutto e in chiunque».
Perché gli ebrei vengono discriminati dalla sinistra in piazza il 25
aprile?
«Molti
politici, probabilmente in buona fede, si sforzano di far credere che il
problema sia di scarsa informazione. Chi contesta la partecipazione della
Brigata ebraica alle celebrazioni del 25 aprile non conoscerebbe la storia,
l’importanza del ruolo della Brigata nella Liberazione, o il fatto che contava
anche volontari arabi. Ma temo che la verità sia più semplice e amara:
nell’ostilità verso gli ebrei confluiscono l’antisemitismo di matrice comunista
e l’ostilità verso Israele, colpevole di aver cacciato i Palestinesi dalla loro
terra».
Il Berlusconi di Onna con il fazzoletto rosso al collo fu il solo momento
di pacificazione della Seconda Repubblica? Non durò proprio perché non si
voleva la pacificazione?
«Non lo so,
teniamo presente che nel 2009 Berlusconi era ancora in luna di miele con
l’elettorato, e la sinistra era ancora blairiana, perché la crisi del 2011-2012
era di là da venire. Forse fu solo un momento di respiro della tenzone
politica».
Che significato hanno, nell’Italia anti-fascista e democratica di oggi, la
vittoria della Meloni e la sua popolarità?
«Che, per l’elettore del 2022, il fascismo è una
pagina della storia, e l’antifascismo è così ovvio e scontato che ha cessato di
essere una discriminante politica».
Ha registrato un imbarbarimento della stampa e del circolo massmediatico
nei confronti della Meloni dopo la sua ascesa al potere?
«Sì, ma
l’imbarbarimento era già iniziato con il Covid e con la guerra in Ucraina. Mai
la grande stampa è stata meno libera e pluralista che negli ultimi tre anni».
Perché la Meloni non si dichiara profondamente antifascista, levando ogni
argomento per sempre all’opposizione? Forse perché non lo leverebbe?
«Non
basterebbe. Direbbero che sono parole di circostanza, insincere. E alla
prossima occasione pretenderebbero una nuova dichiarazione».
Si sta replicando lo schema che ha avuto come bersaglio prima Berlusconi
per vent’anni e poi Salvini?
«Sì, ma adesso
è meno facile colpire il bersaglio, perché Meloni è una donna, e sta facendo una battaglia
culturale che la sinistra non solo non ha capito, ma sta alimentando con il suo
opporsi a cose sensate, come la battaglia per la promozione del merito».
Le critiche all’uscita del presidente La Russa sulla banda di
semi-pensionati uccisi a via Rasella sono state eccessive?
«No, sono state sacrosante, ma filologicamente errate. Gli si è fatto dire
anche cose che non ha detto: affermare che via Rasella è stata una pagina “fra
le meno gloriose” della Resistenza è molto diverso dall’affermare che è stata
una pagina “ingloriosa”, aggettivo che La Russa non ha mai usato. Perché
strafare, quando ce n’è già abbastanza per lapidare il malcapitato?»
Lei ritiene o avverte che questo governo di destra-centro sia impegnato in
una sfida culturale per far cadere alcuni miti e dogmi del pensiero
progressista?
«Certo, due dogmi in particolare: il politicamente corretto e il
vittimismo».
È possibile un partito conservatore in Italia?
«C’è già».
Chi si prenderà l’eredità di Berlusconi?
«Meloni, suppongo, visto che il Terzo Polo ha fatto harakiri».
Il Terzo Polo è fallito per le personalità dei suoi leader o per mancanza
di spazio politico?
«Le due cose sono connesse. Lo spazio ci sarebbe, ma senza un leader che lo
rappresenti non è occupabile. E quando il leader c’è, come in Francia con
Macron, non è detto che duri».
Perché il Pd ha scelto una svolta massimalista, inseguendo M5S? E perché
Letta ha fallito?
«Letta non ha capito che Draghi e la sua agenda erano un pessimo
testimonial, almeno in una campagna elettorale. Quanto al Pd, la svolta
massimalista era l’unica via possibile per salvare non tanto il partito in
quanto tale, che sarebbe sopravvissuto comunque, ma il suo status di primo
partito della sinistra. È un riflesso pavloviano del comunismo: “niente nemici
a sinistra”».
La Schlein in fondo è una Meloni di sinistra con la grande differenza che
la prima è stata indicata e la seconda si è fatta il suo partito?
«Non è solo questo. Meloni – per ora – è in sintonia con il senso comune,
ovvero con il modo di sentire della maggioranza degli italiani. Schlein è in
sintonia con il modo di sentire del popolo di sinistra, che è solo una vasta
minoranza».
Che consigli darebbe al governo e alle istituzioni per le imminenti
celebrazioni del 25 aprile?
«Esserci, dire quel che c’è da dire, e non rispondere alle domande dei
giornalisti».
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