Diritti, mercato, schiavitù. Su Avvenire Assuntina Morresi spiega bene cosa c'è in gioco nella proposta del centrodestra per rendere la maternità surrogata fatta all'estero perseguibile in Italia
Maria Carolina Varchi abbraccia il ministro della famiglia Eugenia Roccella dopo la discussione e il voto, positivo, sulla legge maternità surrogata (foto Ansa)
Mercoledì
la Camera ha detto sì alla proposta del centrodestra di rendere la maternità
surrogata – già vietata per legge in Italia – un reato universale, cioè
perseguibile nel nostro paese anche se fatta all’estero. Prima di diventare
legge dovrà passare anche dal Senato, ma la compattezza della maggioranza sul
tema (con in più l’appoggio di parte del Terzo Polo) fa pensare che entro
l’anno il nostro paese sarà il primo al mondo ad avere una norma del genere.
La ministra Eugenia Roccella ha parlato di legge
«all’avanguardia» e si è augurata che adesso possa aprirsi un «dibattito
mondiale».
L’utero in affitto e i diritti di donne e bambini
Parlandone alla festa di Tempi a Caorle lo scorso giugno, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano aveva detto che «sta scomparendo l’identità della donna, ed è una tragedia», con la pratica dell’utero in affitto «siamo alla linea di confine, siamo consapevoli che questa è una battaglia che non può essere combattuta solo con una norma penale, ma è una modifica normativa che dà il segno di un cambio di passo».
Per capire questo cambio di passo l’ideale è leggere
l’editoriale che Assuntina Morresi ha scritto ieri sulla prima pagina di Avvenire, spiegando in che senso l’Italia con questa legge può
essere considerata «un’avanguardia nella promozione, a livello internazionale,
dei diritti fondamentali di donne e bambini».
Leggere
Assuntina Morresi aiuta a non cadere nella trappola di chi in nome dei “diritti” pensa che tutto ciò
che è tecnicamente possibile e egoisticamente desiderabile debba essere lecito
(è il caso di Elena Stancanelli che sulla Stampa definisce la
proposta di legge approvata dal Senato una «intimidazione» e una «buffonata» e
la butta in caciara parlando di divorzio e aborto) o di chi fa pelosi distinguo
per dire che «l’utero in affitto è un concetto ben diverso dalla gestazione per
altri» (è il caso di Vladimir Luxuria, guarda caso anche lei sulla Stampa).
Il materno sotto attacco e il “trucco” della surrogata
Nella
battaglia politica e culturale portata avanti dal governo contro la maternità
surrogata «in gioco infatti è, imprescindibilmente connessa, la concezione stessa del
materno, cioè di quel rapporto unico che lega ogni donna al proprio figlio:
rapporto che si forma durante l’esperienza della gestazione e del parto, eventi
che segnano la differenza fra un uomo e una donna, caratterizzante la specie
umana», scrive Morresi.
E di
«battaglia per eliminare la maternità» aveva parlato proprio Eugenia Roccella in un’intervista a Tempi: «Lo vediamo anche in
fenomeni come l’utero in affitto o le tecniche di riproduzione che consentono
di definire “madre” tre, quattro, cinque persone diverse. Quindi, sì, è la
potenza del materno che è sotto attacco. La società è stata costruita sull’individuo,
letteralmente “ciò che non si può dividere”, mentre la donna, quando diventa
madre, è colei che si divide, è l’uno che si fa due».
E la maternità surrogata è un attacco al materno, spiega ancora Morresi: «Certamente diventare madre
non è riconducibile al solo dato biologico: si può vivere la dimensione della
maternità anche al di fuori della generazione fisica di un figlio, ma è lo
straordinario vissuto della gravidanza e del partorire a esserne il paradigma.
Un paradigma che la surroga di maternità muta radicalmente».
Se
l’utero in affitto consiste nella cessione di un neonato a seguito di un
contratto appositamente stipulato fra più soggetti, il “trucco” della surrogata
sta nella tempistica: «nella
surroga una donna si impegna a cedere il figlio appena partorito a una coppia,
etero od omosessuale, o a una singola persona, secondo modalità stabilite da un
contratto stipulato prima del concepimento. Lo stesso contratto, se stipulato
dopo il concepimento (o dopo la nascita), è sostanzialmente già reato universale»,
trattandosi di compravendita di un bambino.
Utero in affitto, cambio di paradigma del materno
Stiamo parlando di un mercato, non di diritti delle donne. Ancora Morresi: «È un
cambio di paradigma del materno quindi, quello che porta la maternità
surrogata, che in quanto tale non può che essere un mercato con le sue
dinamiche e i suoi costi, regolato da una contrattualistica ad hoc, che
coinvolge necessariamente i genitori committenti, chi cede i propri gameti, le
donne che si prestano come gestanti, e poi cliniche, studi legali e agenzie
specializzate. Le donne, in particolare, sono il “mezzo” necessario
per ottenere il “prodotto finale”: bambini». Ridurre gravidanza e parto a una
prestazione d’opera contrattualizzata significa violare la dignità e i diritti
di chi ne è oggetto, «i nati, chi fornisce i propri gameti e le gestanti».
La
questione va dunque oltre il dettaglio comunque non secondario del pagamento in
denaro della prestazione – e qui casca l’asino Luxuria –: l’idea della
“surrogata solidale” proposta in un emendamento dal radicale Magi (e bocciata)
è un inganno dialettico. «Se per sanzionare lo sfruttamento degli esseri umani
dovessimo dipendere dalla percezione personale o dalle dichiarazioni di volontà
delle persone oggetto di trattamento degradante – scrive ancora Morresi
su Avvenire –, verrebbe a cadere il fondamento stesso dei
diritti umani. Se l’abuso di esseri umani non fosse oggettivamente
riconoscibile, ma dipendesse dalle sensibilità individuali, sarebbe
inevitabilmente regolato dalla legge del più forte (il mercato). Non a caso, non è consentito
stipulare “liberi contratti di schiavitù”».
Una battaglia da fare anche sul piano culturale
Non
basterà questa legge da sola, diceva ancora Mantovano a Caorle: la battaglia
«va fatta sul piano culturale, descrivendo cosa è una pratica di utero in
affitto, raccontando quante donne vedono il proprio corpo devastato, umiliato.
Il Parlamento sta facendo la sua parte, attorno a questa proposta c’è un
consenso più ampio della maggioranza, ma sappiamo che da sola non risolve. Sarà
l’occasione per discussione mediatica, stiamo pronti. Non è una faccenda da
preti, non c’entra la fede, c’entrano la donna, l’uomo, il dato antropologico.
È una battaglia laica che va fatta coinvolgendo più energie possibili, cercando
coesione, solo così si può partire alla riscossa per ricostruire i fondamentali
di una sana antropologia. Se la perdiamo sarà tutto più complicato». Il sì
della Camera è un ottimo inizio.
Redazione di Tempi