sabato 29 luglio 2023

L’UTERO IN AFFITTO REATO UNIVERSALE

Diritti, mercato, schiavitù. Su Avvenire Assuntina Morresi spiega bene cosa c'è in gioco nella proposta del centrodestra per rendere la maternità surrogata fatta all'estero perseguibile in Italia

 

Maria Carolina Varchi abbraccia il ministro della famiglia Eugenia Roccella dopo la discussione e il voto, positivo, sulla legge maternità surrogata (foto Ansa)

Mercoledì la Camera ha detto sì alla proposta del centrodestra di rendere la maternità surrogata – già vietata per legge in Italia – un reato universale, cioè perseguibile nel nostro paese anche se fatta all’estero. Prima di diventare legge dovrà passare anche dal Senato, ma la compattezza della maggioranza sul tema (con in più l’appoggio di parte del Terzo Polo) fa pensare che entro l’anno il nostro paese sarà il primo al mondo ad avere una norma del genere.

La ministra Eugenia Roccella ha parlato di legge «all’avanguardia» e si è augurata che adesso possa aprirsi un «dibattito mondiale».

L’utero in affitto e i diritti di donne e bambini

Parlandone alla festa di Tempi a Caorle lo scorso giugno, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano aveva detto che «sta scomparendo l’identità della donna, ed è una tragedia», con la pratica dell’utero in affitto «siamo alla linea di confine, siamo consapevoli che questa è una battaglia che non può essere combattuta solo con una norma penale, ma è una modifica normativa che dà il segno di un cambio di passo».

Per capire questo cambio di passo l’ideale è leggere l’editoriale che Assuntina Morresi ha scritto ieri sulla prima pagina di Avvenire, spiegando in che senso l’Italia con questa legge può essere considerata «un’avanguardia nella promozione, a livello internazionale, dei diritti fondamentali di donne e bambini».

Leggere Assuntina Morresi aiuta a non cadere nella trappola di chi in nome dei “diritti” pensa che tutto ciò che è tecnicamente possibile e egoisticamente desiderabile debba essere lecito (è il caso di Elena Stancanelli che sulla Stampa definisce la proposta di legge approvata dal Senato una «intimidazione» e una «buffonata» e la butta in caciara parlando di divorzio e aborto) o di chi fa pelosi distinguo per dire che «l’utero in affitto è un concetto ben diverso dalla gestazione per altri» (è il caso di Vladimir Luxuria, guarda caso anche lei sulla Stampa).

Il materno sotto attacco e il “trucco” della surrogata

Nella battaglia politica e culturale portata avanti dal governo contro la maternità surrogata «in gioco infatti è, imprescindibilmente connessa, la concezione stessa del materno, cioè di quel rapporto unico che lega ogni donna al proprio figlio: rapporto che si forma durante l’esperienza della gestazione e del parto, eventi che segnano la differenza fra un uomo e una donna, caratterizzante la specie umana», scrive Morresi.

E di «battaglia per eliminare la maternità» aveva parlato proprio Eugenia Roccella in un’intervista a Tempi: «Lo vediamo anche in fenomeni come l’utero in affitto o le tecniche di riproduzione che consentono di definire “madre” tre, quattro, cinque persone diverse. Quindi, sì, è la potenza del materno che è sotto attacco. La società è stata costruita sull’individuo, letteralmente “ciò che non si può dividere”, mentre la donna, quando diventa madre, è colei che si divide, è l’uno che si fa due».

E la maternità surrogata è un attacco al materno, spiega ancora Morresi: «Certamente diventare madre non è riconducibile al solo dato biologico: si può vivere la dimensione della maternità anche al di fuori della generazione fisica di un figlio, ma è lo straordinario vissuto della gravidanza e del partorire a esserne il paradigma. Un paradigma che la surroga di maternità muta radicalmente».

Se l’utero in affitto consiste nella cessione di un neonato a seguito di un contratto appositamente stipulato fra più soggetti, il “trucco” della surrogata sta nella tempistica: «nella surroga una donna si impegna a cedere il figlio appena partorito a una coppia, etero od omosessuale, o a una singola persona, secondo modalità stabilite da un contratto stipulato prima del concepimento. Lo stesso contratto, se stipulato dopo il concepimento (o dopo la nascita), è sostanzialmente già reato universale», trattandosi di compravendita di un bambino.

Utero in affitto, cambio di paradigma del materno

Stiamo parlando di un mercato, non di diritti delle donne. Ancora Morresi: «È un cambio di paradigma del materno quindi, quello che porta la maternità surrogata, che in quanto tale non può che essere un mercato con le sue dinamiche e i suoi costi, regolato da una contrattualistica ad hoc, che coinvolge necessariamente i genitori committenti, chi cede i propri gameti, le donne che si prestano come gestanti, e poi cliniche, studi legali e agenzie specializzate. Le donne, in particolare, sono il “mezzo” necessario per ottenere il “prodotto finale”: bambini». Ridurre gravidanza e parto a una prestazione d’opera contrattualizzata significa violare la dignità e i diritti di chi ne è oggetto, «i nati, chi fornisce i propri gameti e le gestanti».

La questione va dunque oltre il dettaglio comunque non secondario del pagamento in denaro della prestazione – e qui casca l’asino Luxuria –: l’idea della “surrogata solidale” proposta in un emendamento dal radicale Magi (e bocciata) è un inganno dialettico. «Se per sanzionare lo sfruttamento degli esseri umani dovessimo dipendere dalla percezione personale o dalle dichiarazioni di volontà delle persone oggetto di trattamento degradante – scrive ancora Morresi su Avvenire –, verrebbe a cadere il fondamento stesso dei diritti umani. Se l’abuso di esseri umani non fosse oggettivamente riconoscibile, ma dipendesse dalle sensibilità individuali, sarebbe inevitabilmente regolato dalla legge del più forte (il mercato). Non a caso, non è consentito stipulare “liberi contratti di schiavitù”».

Una battaglia da fare anche sul piano culturale

Non basterà questa legge da sola, diceva ancora Mantovano a Caorle: la battaglia «va fatta sul piano culturale, descrivendo cosa è una pratica di utero in affitto, raccontando quante donne vedono il proprio corpo devastato, umiliato. Il Parlamento sta facendo la sua parte, attorno a questa proposta c’è un consenso più ampio della maggioranza, ma sappiamo che da sola non risolve. Sarà l’occasione per discussione mediatica, stiamo pronti. Non è una faccenda da preti, non c’entra la fede, c’entrano la donna, l’uomo, il dato antropologico. È una battaglia laica che va fatta coinvolgendo più energie possibili, cercando coesione, solo così si può partire alla riscossa per ricostruire i fondamentali di una sana antropologia. Se la perdiamo sarà tutto più complicato». Il sì della Camera è un ottimo inizio.

 

Redazione di Tempi

venerdì 28 luglio 2023

GIACOMO BIFFI: “ CHE COSA DOBBIAMO FARE”

 Giacomo Biffi, La bella, la bestia e il cavaliere, Jaca Book

Di tutte le idolatrie che ci affliggono, l’adorazione del mondo è senza dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe contro il “mondo”, deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei recensori più benevoli e pii.

Questa “cosmolatria” fa tanto più spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell’ascetica tradizionale: la “fuga dal mondo”, la “rinuncia al mondo”, il “disprezzo del mondo” dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono stati temi classici della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l’“inserimento nel mondo” e perfino il “servizio del mondo”.

A esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l’impressione che i due vocaboli “mondo” e “Chiesa” rispetto all’uso di prima si siano semplicemente scambiati di senso.

Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi valori. Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose.

Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di vocabolario?Proprio perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po’ per comodità del lettore:

“Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv 7,7).

“Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12,31).

“Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14,27).

“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,18-19).

“Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio” (Gv 16,8).

“Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).

“Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 17,9).

“Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14).

“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17,25).

“Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1 Gv 2,15).

“Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1 Gv 2,17).

“La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3,1).

“Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia” (1 Gv 3,13).

“Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,4-5).

“Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1 Gv 5,19).

“Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27).

“Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!” (Gc 4,4).

“Il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio” (1 Cor 1,21).

“Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio” (1 Cor 2,12).

“La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Cor 3,19).

“La tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10).

“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).

 

San Giovanni Paolo II
e il Card. Giacomo Biffi
Sappiamo benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni nelle quali la parola “mondo” indica la creazione di Dio che è buona, e l’umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes, fortunatamente non si pone.

 Si pone invece per quelle che abbiamo sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela?

Tutto sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell’odierna riflessione teologica e pastorale. Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l’organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella “cosmolatria” che stiamo qui denunciando.

Occorre ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione.

 Una frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della parola di Dio a proposito di “mondo”. “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10). In due righe il vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse.

“Era nel mondo”: si riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà creaturale. È una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: “il campo è il mondo” (Mt 13,38).“Il mondo fu fatto per mezzo di lui”: qui è implicitamente affermata l’originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo è detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).

“Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola “mondo” esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente, ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l’iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa tragica realtà.

Il mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata

Ciò che non c’è nel Nuovo Testamento è l’idea che la Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. Neppure c’è l’idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa.

Chi muove dalla pur giusta convinzione dell’intrinseco e inalienabile valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come “buone” (cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul “mondo”, rischia obiettivamente di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo.

Molti atteggiamenti rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del “mondo” sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste.

L’irenismo a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un’abusiva pregustazione dello stato d’animo che ci rallegrerà nell’eterna Gerusalemme: rispetto al tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione.

da: Giacomo Biffi, La bella, la bestia e il cavaliere, Jaca Book

A LISBONA UNA GMG SENZA CRISTO?

Le inattese e inopinate parole di mons. Américo Aguiar, responsabile della GMG di Lisbona e appena nominato cardinale, che non vuole assolutamente «convertire i giovani a Cristo», hanno implicazioni molto serie: su tutte l'illusione della fede e l'inutilità della Chiesa

Mons. Amerigo Aguiar

«Non vogliamo convertire i giovani a Cristo o alla Chiesa cattolica. Niente di tutto questo, assolutamente».

Queste parole, pronunciate nel corso di un’intervista alla Radio Televisione Portoghese (RTP) lo scorso 6 luglio dal vescovo ausiliare di Lisbona, Américo Aguiar, per spiegare il senso della prossima Giornata Mondiale dei Giovani (GMG) che si svolgerà a Lisbona dall’1 al 6 agosto, hanno fatto molto scalpore e provocato  reazioni . Si dà il caso infatti che monsignor Aguiar non solo è il responsabile della GMG di Lisbona ma figura tra i 21 nuovi cardinali annunciati il 9 luglio da papa Francesco e che riceveranno la berretta rossa nel Concistoro del prossimo 30 settembre.

Come spesso accade in queste situazioni, davanti alla reazione dell’opinione pubblica cattolica e visto che nel frattempo è stato nominato cardinale, monsignor Aguiar ha cercato di riparare con un’altra intervista – questa volta ad ACI Digital - per precisare meglio, lamentandosi della strumentalizzazione delle sue parole, estrapolate dal contesto: «La GMG – ha detto – è un invito a tutti i giovani del mondo per fare esperienza di Dio», sulla strada tracciata dall’enciclica Fratelli tutti.

Dunque, qual è il succo del suo discorso? Che con Fratelli tutti è cambiata la missione della Chiesa: non più annunciare Cristo, ma fare una bella esperienza di tante persone diverse per apprezzare la ricchezza della diversità; e questo sarebbe fare esperienza di Dio. «La GMG è un grido di questa Fraternità universale – aveva detto a RTP -, vuole essere una scuola pedagogica per vedere il gusto e la gioia di conoscere il diverso. Il diverso deve essere inteso come una ricchezza. Cattolici, non cattolici, religiosi, con la fede, senza la fede: la prima cosa è capire che la diversità è una ricchezza».
E ancora, dopo la ferma risoluzione di non voler convertire nessuno: «Vogliamo che sia normale che un giovane musulmano, un ebreo o di un’altra religione non abbia problema a decidere chi sei, e che tutti comprendiamo che la diversità è una ricchezza. Così il mondo sarà oggettivamente migliore».

C’è ben poco da fraintendere: il neo-cardinale portoghese semplicemente non crede che Gesù Cristo sia la risposta vera e definitiva alle domande più profonde di ogni uomo che, in modo particolare, sono vive tra i giovani. Altrimenti vivrebbe casomai la febbre della missione, creerebbe le occasioni per comunicare al mondo di aver trovato la risposta a quelle domande che tutti hanno. Esattamente quello che ha spinto san Giovanni Paolo II a istituire la GMG, un evento che fin dall’origine è stato assolutamente Cristocentrico. Ricordiamo, per capire, le parole che Giovanni Paolo II pronunciò in una memorabile omelia durante la veglia di preghiera alla GMG del Duemila a Roma, davanti a due milioni di giovani:
«In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. È Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna».

San Giovanni Paolo II aveva ben chiaro che una società più umana e fraterna può nascere solo dall’incontro con Cristo. Ciò che oggi viene negato dal neo cardinale Aguiar, il quale però trae spunto dalla visione espressa in Fratelli tutti.
Una fraternità senza un padre comune riconosciuto, una GMG senza Cristo (o comunque con un Cristo irrilevante, alla pari con Maometto, Budda, Confucio e chi altro). È l’affermazione dell’inutilità della Chiesa, ridotta a un agente sociale, una copia dell’ONU con qualche spruzzo di spiritualità.

Le parole di Aguiar rendono ancora più vero e concreto il giudizio di Benedetto XVI che attribuiva la crisi della Chiesa alla crisi della fede, soprattutto dei sacerdoti. Semplicemente non si crede più che Cristo sia il Salvatore, al massimo l’ispiratore di buoni sentimenti per sistemare le cose del mondo.

In tutto questo un piccolo segno di speranza sta nel venire a sapere che in Portogallo buona parte del clero e tanti fedeli sono rimasti scandalizzati dalla nomina cardinalizia di monsignor Aguiar. Vuol dire comunque che nella Chiesa in Portogallo c’è ancora una base cattolica fedele. Si deve solo pregare che il Signore la mantenga tale malgrado l'inadeguatezza dei suoi pastori.

RICCARDO CASCIOLI

La nuova bussola

giovedì 27 luglio 2023

ZUPPI E MATTARELLA A CAMALDOLI, SENZA SAPERE PERCHÉ

Al convegno sui cattolici in politica, a dire che Camaldoli è un faro sono stati proprio Zuppi e Mattarella, eredi di coloro che ne hanno spento la luce scegliendo il compromesso dei cattolici con la modernità

Mattarella e Zuppi a Camaldoli

Dal 21 al 23 luglio scorsi si è tenuto presso il convento di Camaldoli (Arezzo) un convegno per ricordare l’80° anniversario del Codice di Camaldoli, pubblicato nel 1943 da un gruppo di cattolici più o meno giovani, da Saraceno a La Pira, da Taviani ad Andreotti, da Fanfani a Moro, come progetto di un impegno dopo il crollo del fascismo. Il convegno ha visto la presenza del cardinale Matteo Zuppi, presidente dei vescovi italiani, e del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che hanno tenuto due ampie relazioni [rispettivamente QUI e QUI).

Ambedue hanno esaltato il “Codice”, il cardinale Zuppi ha addirittura detto che oggi ci sarebbe bisogno di qualcosa di analogo per l’Unione Europea e Mattarella ha affermato che è stato un contributo fondamentale per la nostra Costituzione. L’analisi è stata enfaticamente celebrativa e le due autorevoli e principali relazioni hanno sovrapposto ad un esame serio del Codice esigenze di politica ecclesiastica la prima e di costituzionalismo irriducibile la seconda. Basti pensare, a titolo di esempio, che Zuppi ha assimilato la posizione di Pio XII a quella di Francesco e che Mattarella ha mescolato il Codice dentro un gruppo eterogeneo di altri documenti come il Manifesto di Ventotene. Valutazioni, ambedue, ben difficili da sostenere.

Nel 1943 c’era un notevole fermento propositivo tra i cattolici. Due furono le proposte culturalmente più elaborate, il Codice di Camaldoli appunto e la proposta di Franco Rodano, il “cattolico comunista”. La prima fallì e condusse progressivamente all’estinzione del cattolicesimo in politica, mentre la seconda ebbe successo nel trasfigurare il cattolicesimo politico nel comunismo italiano. La questione di fondo era come rapportarsi con la modernità, che la fine della guerra avrebbe ulteriormente implementato non solo a livello politico ma anche sociale. Il Codice vuole collocarsi nella prospettiva di Pio XII, secondo il quale la democrazia, per essere accettata dai cattolici, avrebbe dovuto accogliere due presupposti: uniformarsi al diritto naturale e accettare il ruolo pubblico unico e fondativo della religione cattolica e della Chiesa. In altre parole, la società cristiana.

Nel testo del Codice di Camaldoli possiamo trovare molte espressioni che riprendono i tratti caratteristici della società cristiana come presentati dal magistero sociale da Leone XIII a Pio XII, accanto naturalmente anche a qualche debolezza e ingenuità. Ne elenco alcuni: la società civile deriva remotamente da Dio creatore; la dignità dell’uomo in società deriva dal fatto di essere “preordinato a Dio”; il bene comune è sia di ordine naturale che spirituale; il bene comune non è indirizzato solo allo sviluppo della vita materiale e intellettuale degli uomini ma anche a quella religiosa; “la sovranità statale proviene da Dio”; “Lo Stato deve riconoscere la natura divina della Chiesa”; “La famiglia ha come base e sorgente il matrimonio, e cioè: il matrimonio nel senso cristiano di unione giuridica e spirituale, perpetua, una e indissolubile per la procreazione e l'educazione della prole il mutuo aiuto e il rimedio alla concupiscenza”; “soltanto nell'unione matrimoniale c'è il diritto alla procreazione della prole”; “il divorzio come soluzione del vincolo è inammissibile”. A questi se ne potrebbero aggiungere anche altri, in applicazione del principio di sussidiarietà o nella concezione dei vari aspetti della vita economica.

Se vengono paragonati i punti ora visti con la situazione attuale, si nota che essi non hanno niente a che fare con il seguito della storia dei cattolici in politica dopo quel 1943 e con la condizione odierna. Tutti sono stati messi da parte dagli stessi cattolici in politica. Perfino gli estensori del Codice, allora poco più che ventenni ma in seguito influenti protagonisti della vita politica, hanno agito non in conformità ma in contrasto con quanto lì espresso. Il Codice non è per niente un faro per i cattolici in politica, come invece Zuppi e Mattarella hanno fatto retoricamente credere. Al convegno di qualche giorno fa a dire che Camaldoli è ancora un faro sono stati proprio gli eredi di coloro che ne hanno spento la luce.

Bisogna allora chiedersi quale sia la principale causa sia del progressivo abbandono lungo la storia di questi 80 anni dei principi del Codice, sia della sua recente pomposa esaltazione. Gli estensori del Codice fissarono in quel testo i principi della Dottrina sociale della Chiesa, ma non possedevano ormai più il retroterra culturale necessario per rimanervi fedeli. Da allora, progressivamente la politica cattolica assunse nuove correnti di pensiero legate alla Nouvelle Theologie in teologia e al personalismo cattolico in politica, che non confermavano più quanto scritto nel Codice di Camaldoli. Il tema di fondo, come ho anticipato all’inizio, era il confronto con la modernità. Il Codice non resse il confronto perché la sua lettera non fu supportata da una adeguata impostazione culturale. Una cosa almeno possiamo chiedere: che quanti hanno reso culturalmente obsoleto il Codice non se ne facciano oggi esaltatori e fingano di non vedere il fallimento cui essi stessi hanno contribuito.

SANDRO FONTANA

mercoledì 26 luglio 2023

AUGUSTO DEL NOCE : PERCHÉ FU PROPRIO IL COMUNISMO A PERMETTERE IL TRIONFO DELLO SPIRITO BORGHESE

 La parole con cui Del Noce nel 1976 profetizzò la «collusione qui in Italia tra il laicismo radicale, proprio della borghesia progressista, e il comunismo»

A cura di Fondazione Europa Civiltà

Seconda parte della rassegna dell’intervento pronunciato da Augusto Del Noce a Rimini nel corso II Convegno nazionale per insegnanti e operatori della scuola promosso da Comunione e Liberazione nell’agosto 1976. Tutte le uscite della serie sono reperibili in questa pagina.

* * *

Antonio Gramsci

Nella parte centrale del suo intervento al II Convegno nazionale per insegnanti e operatori della scuola promosso da Comunione e Liberazione Augusto Del Noce formula la sua convinzione che il marxismo eretico di Antonio Gramsci, nel quale l’immanentismo e la filosofia della prassi prendono il posto del materialismo storico e del materialismo dialettico, è destinato a rafforzare l’egemonia dello spirito borghese anziché a far trionfare la Rivoluzione socialista. Rilette quasi mezzo secolo dopo, le pagine di Del Noce appaiono profetiche.

«Per il marxismo autentico», dice il filosofo cattolico, «la scomparsa della religione è un risultato che consegue all’avvento della società senza classi e alla fine dell’oppressione e della miseria. Per Gramsci, invece, è la condizione: la rivoluzione culturale antecede la rivoluzione economico-sociale […]. Quanto alla scuola, l’intransigenza di Gramsci sul bando dell’insegnamento religioso è assoluta. Introdurlo nella scuola primaria vuol dire assegnare il popolo a quella fase arretrata della storia cui corrisponde la religione; significa rifiutare di educarlo, volerlo mantenere nella concezione magica del mondo e della natura».

Il Pci di Gramsci servo dell’élite radicale

È su queste basi che avviene la «collusione […] qui in Italia tra il laicismo radicale, proprio della borghesia progressista, e il comunismo. Al punto che si può parlare di un blocco storico di alleanze, di cui il comunismo è la forza egemone, e a cui partecipano laici radicali e cattolici del dissenso». Ma tale egemonia non è destinata a durare.

«È discorso corrente quello della borghesia che offre la corda con cui il comunismo la impiccherà. Non ne sono così sicuro. Anzitutto perché ogni addebito si può muovere alla borghesia tranne quello di non saper fare i suoi interessi». La borghesia progressista «vuole realizzare entro l’ordine borghese, inteso come predominio di una classe, […] gli stessi contenuti etico-religiosi del marxismo (la scomparsa dell’idea di Dio e di ogni traccia di verità eterne, valori assoluti, eccetera), sostituendo, come sua legittimazione (o come oppio del popolo, perché qui veramente i due termini si equivalgono), il benessere alla religione […]. Vuole, cioè, servirsi dell’occasione del comunismo per realizzare lo spirito borghese allo stato puro, finalmente libero da ogni compromesso con la tradizione. Comune con il marxismo ha il programma di laicizzazione di tutta la vita. Diversamente dal marxismo, pensa che non sia possibile una società senza classi, e soltanto propone la sostituzione di élite chiuse con élite aperte».

Il Pci gramscizzato è lo strumento di questo disegno:

«Il partito comunista diventerebbe così l’esecutore di un programma di modernizzazione, che l’élite radicale ha disposto. O ancora si può dire: se una certa borghesia nazionalista pensava alla Chiesa cattolica come instrumentum regni, la nuova borghesia radicale pensa di trovare questo instrumentum regni nella “religione secolare” comunista. […] Io penso che la captazione del gramscismo da parte del laicismo radicale e della borghesia progressiva debba necessariamente avvenire».

Il fallimento annunciato della rivoluzione

Del Noce insiste nel precisare le differenze fra il marxismo di Gramsci, intriso di idealismo filosofico, e quello ufficiale, imperniato sul materialismo storico, e insiste nel pronosticare un esito funesto (per le aspirazioni rivoluzionarie):

«L’idea rivoluzionaria è connessa nel marxismo con quella di una trasformazione radicale della natura umana, con l’affermazione prometeica del passaggio a una superumanità. Ora questo passaggio non può ovviamente essere opera dell’uomo stesso [è il prodotto della dialettica della materia, ndr] e tanto meno delle idee che egli ha pensato in determinate situazioni storiche; l’umiliazione delle idee e dei loro portatori intellettuali, questo è il significato del materialismo storico. Per Gramsci, invece, gli intellettuali sono l’elemento attivo e unificante, e il Partito “moderno Principe” è l’intellettuale collettivo; ma si tratta di vedere se questa conquista degli intellettuali, che è avvenuta, non abbia coinciso con la captazione borghese-illuministico-modernista del pensiero rivoluzionario. […] Si potrebbe forse dire che l’esito del gramscismo è la sostituzione del materialismo storico con una sorta di storicismo materialista; quando alla parola materialista si tolga ogni significato metafisico, e si intenda invece la negazione radicale di valori permanenti e metastorici. A che ha dato luogo la conquista gramsciana della cultura se non alla ricomparsa dell’intellettuale dissacratore delle tradizioni, del tipico rappresentante della mentalità illuministica? Ma questo intellettuale dissacratore ha realmente la possibilità di agire contro lo spirito borghese, nel presente stadio dell’evoluzione che attraversa?».

Dopo la Chiesa, il marxismo

Quindi il filosofo annuncia la vittoria imminente dello spirito borghese, che in passato ha strumentalizzato la Chiesa e ora strumentalizza il marxismo:

«Nulla più ripugna alla borghesia, oggi in ascesa, progressista e illuminata, che l’idea di verità e di valori eterni, permanenti, assoluti. La devalorizzazione dei valori sino ad oggi considerati come supremi è la condizione per esservi ammessi. Il gruppo sociale che oggi si dichiara progressivo e aspira all’egemonia accetta tutte le negazioni del marxismo nei riguardi del pensiero contemplativo, della religione e della metafisica; accetta la riduzione marxista delle idee a strumento di produzione; ma, d’altra parte, rifiuta del marxismo gli aspetti rivoluzionari-messianici, quindi quel che di religioso rimane nell’idea rivoluzionaria. Sotto questo riguardo quel che si manifesta oggi è veramente lo spirito borghese allo stato puro; lo spirito borghese che intende trionfare dei suoi due tradizionali avversari, la religione soprannaturale e il pensiero rivoluzionario. Oppure si può anche dire: per trionfare ha bisogno di venire a compromesso con l’uno o con l’altro; in un ieri ormai lontano veniva a compromesso con l’essere, con i valori consacrati dalla tradizione; oggi col divenire, con la dissoluzione di tali valori. Si è appropriata, insomma della “demistificazione”».

L’intellettuale organico e l’industria culturale

Il risultato di questa appropriazione dei temi marxisti da parte della borghesia ha conseguenze a livello culturale. Qui il “profeta” Del Noce dà il meglio di sé, quando scrive (siamo nel 1976) di

«assorbimento della cultura nell’”industria culturale”; che riconosce due tipi di intellettuali, i “dissacratori” cioè i “custodi del nichilismo” o corteggiatori del presente […] e gli esperti e i tecnici (perché il pensiero è ridotto a pensiero tecnico, praticamente utilizzabile)».

È questo che Gramsci voleva? Certamente no, ma quello che sta accadendo era implicato nel suo pensiero. «Nessun dubbio che Gramsci detesterebbe questa nuova borghesia, che ha palesato pienamente il suo volto negli ultimi vent’anni», commenta Del Noce. «Il problema è se si trovino nel suo pensiero armi adeguate a combatterla; o se, invece, il suo intellettuale organico non si sia decomposto così da dar luogo a tipi coincidenti con quelli dei funzionari dell’industria culturale».

(2. continua)

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FINE VITA. «NON PERDETE MAI LA SPERANZA». DULCE MARIA CRUZ-OLIVER

Dulce Maria Cruz-Oliver, assistant professor in geriatria e medicina palliativa alla Johns Hopkins School of Medicine, nel Maryland, condivide la sua esperienza di fronte al problema del suicidio assistito al centro del dibattito in tanti Stati degli Usa

Dulce Maria Cruz-Oliver

A gennaio sono stata alla parrocchia di St. Jane de Chantal con un amico per parlare della proposta di legge di legalizzazione del suicidio medicalmente assistito (SMA, definito come l’atto di un medico di prescrivere al paziente un farmaco letale allo scopo di uccidersi), che i legislatori del Maryland stanno attualmente esaminando. Si tratta di una pratica diversa dall’eutanasia, in cui è il medico stesso a procurare la morte al paziente con un farmaco letale.

Sono rimasta sorpresa dalla scarsa conoscenza dell’argomento e della proposta di legge. La cosa mi ha molto preoccupato, perché se questa proposta diventasse legge, non solo avrebbe ripercussioni sui miei pazienti, ma anche su di me. Per questo motivo, anche se di solito non amo coinvolgermi in politica, ho scritto ai legislatori e organizzato un evento per parlarne ai miei amici e per mostrare loro il documentario Shining the Light on Assisted Suicide [Fare chiarezza sul suicidio assistito], realizzato da Laura Jones, fondatrice della Dignity Mandate Foundation.

Il documentario non solo racconta la verità sulla proposta di legge, ma espone anche le convincenti argomentazioni umane (non religiose) che si possono usare per scrivere ai legislatori manifestando la propria opposizione alla legge.

Sono un medico specializzato in geriatria e medicina palliativa alla Johns Hopkins, e nel mio lavoro assisto pazienti e famiglie con esigenze diverse. 

Vorrei condividere con voi la storia di un mio paziente, perché questa storia chiarisce i motivi per cui io NON sostengo il suicidio assistito.
Il signor Elk è un uomo afroamericano di 74 anni che vive da solo a Baltimora. Rifiutava di farsi curare il cancro alla prostata perché voleva morire. Poi il figlio lo ha accolto in casa propria e si è preso cura di lui. Il figlio ha portato il signor Elk alla mia clinica di cure palliative per aiutarlo a gestire il dolore, cosa che siamo riusciti a fare. Il signor Elk a quel punto desiderava vivere, perché non era più solo. Così ha cercato di curare i sintomi del cancro alla prostata. Con il passare del tempo, ho visto che il signor Elk e suo figlio si stavano avvicinando e stavano sviluppando un grande rispetto reciproco. Dopo due anni, le condizioni del signor Elk sono peggiorate. Quando non ha più potuto recarsi in clinica, l’ho affidato al servizio di assistenza domiciliare. È morto a casa sua, sostenuto dall’affetto della sua famiglia, con l’aiuto dell’assistenza medica domiciliare. Questo legame tra padre e figlio non sarebbe cresciuto se il signor Elk avesse optato per il suicidio assistito.

Vale la pena chiedersi: “Perché sopportare una malattia e la sua sofferenza?”. Alla luce di questa esperienza con il signor Elk, la mia risposta è che il modo in cui affrontiamo la sofferenza può fare del bene alla nostra vita e al mondo. Nel caso di quest’uomo, è stata la ripresa del rapporto con suo figlio.

Ho colleghi dentro e fuori dal movimento di CL che vivono in Stati o Paesi in cui il suicidio assistito o l’eutanasia sono legali. Molti di loro hanno un atteggiamento di sconfitta, di rassegnazione, o al contrario si schierano apertamente contro. Un mio amico, attivista pro-life, che mi ha aiutato a condividere questo tema con i nostri amici della comunità, ci ha detto: «Non perdete mai la speranza». Penso che abbia ragione, perché io non voglio schierarmi con chi “lotta” né identificarmi con i “rassegnati”. Voglio essere dalla parte della speranza, quella che ripone la sua fede in Cristo; non nella legge o nel disegno di legge, ma in questa Persona che mi ha posto in questo specifico momento storico in cui il valore della vita è messo in discussione, in cui la libertà e l’indipendenza sono il valore ultimo e la dipendenza e la morte sono i nemici.

Mi chiedo: Cosa sta cercando di dirmi il Mistero? Perché mi ha chiamato a vivere in questo specifico tempo e spazio? Questo dialogo è molto interessante e, sebbene non cancelli nessuno dei miei tentativi contro il progetto di legge, gli dà un senso. Uno dei miei amici che ha partecipato al dibattito ha detto una cosa davvero chiarificatrice: dobbiamo iniziare da casa nostra, parlando di queste cose e guardando al modo in cui trattiamo e ci prendiamo cura di noi stessi. Questo l’ho sentito vero per me, anche in quanto persona che affronta queste problematiche non solo nella mia famiglia, ma pure nel mio lavoro quotidiano. Prima di tutto abbiamo bisogno di capire noi, e poi di condividerlo con gli altri, perché la vita ha valore ed è importante anche nella sofferenza.

Jone, la fisioterapista di don Giussani che alla fine della sua vita soffriva del morbo di Parkinson, ha detto di lui in quel periodo: «La malattia continuava il suo corso, e cominciò a comparire il sintomo più temuto: il dolore. In quel periodo commentò: "Dio permette la sofferenza perché la vita sia più vita. La vita senza sofferenza si rimpicciolisce, si chiude in se stessa". [...] Ero triste perché non sapevo come aiutarlo, ma lui mi diceva: "Non essere triste, perché anche questo è positivo, penso che sia il modo di partecipare alla passione di Cristo. Anche Lui era un uomo come me"».

Per concludere, io non sono favorevole al suicidio medicalmente assistito perché non voglio che i miei pazienti interrompano il loro percorso umano. A queste persone che soffrono possiamo offrire cure palliative, invece di far loro ingerire 90 pillole che le faranno soffrire in preda alla nausea anche per 104 ore. Le cure palliative sono un percorso che accompagna i pazienti e le famiglie nel loro cammino, invece di negare il senso della loro vita.

Il mio timore è che il suicidio assistito trasmetta, soprattutto ai giovani, il messaggio che non si deve sopportare la vita quando provoca sofferenza. La sofferenza sarà vista come “una condanna a morte” piuttosto che come un motivo per chiedere aiuto agli altri. Se continuiamo su questa strada, il suicidio assistito finirà per portare all’eutanasia delle persone affette da malattie degenerative e da demenza. Come medico geriatra e palliativista, il mio compito è quello di aiutare i pazienti a restare autonomi il più a lungo possibile. A questo scopo, esistono già diversi servizi di assistenza domiciliare (per esempio, assistenza geriatrica, palliativa, sanitaria a domicilio o in hospice). Più e più volte sono stata testimone di come l’affrontare la fatica del caregiving abbia portato al recupero dei rapporti familiari. Una figlia mi ha detto:«Non avrei mai pensato di poter stare con mia madre in questo modo. Sono grata per questo tempo trascorso con lei che mi ha permesso di recuperare molte cose».


Dulce Maria Cruz-Oliver, M.D., Bethesda (Maryland-USA)

tratto da clonline.org

NOTA

Nel 2014 ho incontrato Dulce a Saint Louis, dove lavorava al Saint Louis University Hospital. Allora la comunità di Cl di cui faceva parte Dulce espresse questo giudizio penetrante e incisivo sugli eventi accaduti a Ferguson nel mese di agosto, e sui disordini razziali che hanno hanno anticipato quelli degli ultimi anni innescati a Minneapolis dal BLM

https://crocevia-adhoc.blogspot.com/2014/10/perche-ci-interessa-ferguson.html


martedì 11 luglio 2023

NUMERO 3000

 

QUESTO E’ IL POST 3000 DEL CROCEVIA

IL CROCEVIA NASCE DA UN'OPERA. L'OPERA NOSTRA QUAL'E'?

CHE LA FEDE DIVENTI CULTURA , CIOE' CHE ATTRAVERSO IL MAGISTERO DELLA CHIESA RIUSCIAMO A DARE UN GIUDIZIO SUL MONDO

RIPUBBLICHIAMO IL PIU’ IMPORTANTE DEI DOCUMENTI CHE CI HANNO SPINTO NEL NOVEMBRE 2010 AD INTRAPRENDERE QUESTO PERCORSO CULTURALE E POLITICO, NATO DALL’INCONTRO CON DON GIUSSANI E VISSUTO NEL MOVIMENTO DI COMUNIONE E LIBERAZIONE

 

LUIGI GIUSSANI

L’ESPERIENZA, ORIZZONTE E SORGENTE DELLA CULTURA

 


Un Centro culturale concepito come opposizione ad altre posizioni non ci interessa affatto. Qui sta l’origine di un certo disagio con persone pur amiche.

Perché possiamo dire che noi non abbiamo nessun problema culturale? Perché la cultura è inerente e coestesa all’esperienza che facciamo, ed è proprio l’esperienza che facciamo l’orizzonte e la sorgente culturale.

La nostra problematica culturale non si risolve aggiungendo all’esperienza ciò che sembra mancarle, ma imparando ciò che già è. Infatti l’origine, la genesi di questo qualcosa che mancherebbe e che bisognerebbe aggiungere a quello che già abbiamo imparato, sarebbe un’altra.

Perciò si instaurerebbe una divisione dentro l’io, come è per tutti e sarebbe eterogeneo il prodotto culturale. C’è una espressione sintetica che è metodologicamente capitale: «Ciò che non è unito all’origine, non può essere unito dopo». È un’identica forma originale, infatti, che permette l’unità della pianta; ci può essere un innesto, ma in questo caso non è naturale, è un miracolo.

La mia preoccupazione nasce dall’osservazione che una posizione culturale dipende totalmente dal soggetto esistenziale che in tale operazione si esprime.

1. Il soggetto esistenziale è definito dal contenuto dell’autocoscienza, dal contenuto dell’autocoscienza che il soggetto ha.

Il contenuto della coscienza di noi stessi, del nostro soggetto umano (e soggetto umano e soggetto culturale sono la stessa cosa, perché non ci può essere un soggetto umano che non si esplicita in soggetto culturale) è un fatto presente nella storia, cioè è Cristo. «Sono venuto tra voi non conoscendo altro che Cristo e Cristo crocifisso». Si vedano la I Corinti e 1° e 2° capitolo ai Romani e 3° e 8° capitolo.

Tutto oggi è contro questo. Fuori e dentro la Chiesa, come ha detto Giovanni Paolo II. Un tale soggetto è esule in terra ostile e noi siamo estranei anche ai nostri fratelli cristiani.

2. Questo soggetto deve essere consapevole di essere in lotta con una realtà che è ostile a ciò che lui è.

Quando ci si trova in un ambiente ostile, ci si difende. Se non si facesse in questo modo, vorrebbe dire che o si è ignoranti dell’ambiente o non si ha coscienza di sé.

Questa seconda cosa è il punto di verifica della prima cosa che ho detto: il soggetto esistenziale, cioè il nuovo soggetto della storia, prende totalmente consapevolezza di quello che è (cioè che da soggetto esistenziale diventa soggetto storico), solo se prende consapevolezza che la realtà che lo circonda è diversa e ostile. Se si è sdraiati su un letto di piume e tra le piume un avversario ha messo un coltello aguzzo, su centomila piume si sente il coltello. Si è, insomma, astratti e irrealisti, se non si ha il senso di se stessi.

Questo è ciò che manca a tanto ecumenismo odierno, in cui tutti sono d’accordo, ma solo sulla lotta all’ambiente e all’inquinamento.

Noi non siamo così. Il soggetto esistenziale diventa soggetto storico prendendo coscienza dell’estraneità dell’ambiente in cui è: per il popolo ebraico è successo esattamente così, infatti ha incominciato a fare storia quando ha incominciato a distinguersi dal faraone.

3. Il contenuto dell’autocoscienza che crea il soggetto nuovo come protagonista della storia, e perciò si oppone, rende più potente il giudizio sulla realtà e la valorizza.

Non c’è niente che non ci interessa, non c’è nulla che noi censuriamo o eliminiamo, neanche il male, perché il male non esiste, perché il male è non fare il bene.

Per sintetizzare la posizione di un soggetto di fronte a una realtà che è concepita e vissuta come ostile, ricorro a una frase di san Paolo: «Tutto coopera al bene». Per chi riconosce Cristo, tutto coopera al bene. Per questo non sentiamo nemico nessuno.

Questo non è contraddittorio con quanto detto al secondo punto, ma è paradossale. Il secondo punto ci mette in lotta contro la cultura dominante, il terzo, invece, ci mette simpateticamente in rapporto con tutto, con gli uomini, le cose e gli eventi (anche con la morte).

Quindi, riassumendo:

1. La cultura è fatta da un soggetto esistenzialmente vivente, da un’autocoscienza vivente; è un’identità inconfondibile;

2. il soggetto esistenziale diventa soggetto storico per l’urto contro un tipo di coscienza diversa;

3. si crea una missionarietà del soggetto.

Per questo motivo nasce un centro affettivo come punto organizzatore di un centro culturale.  (La dottrina sociale della Chiesa rappresenta l’amplesso di un sistema di cose e di dinamismi nelle più vaste realtà, decisive per l’uomo. Noi ci interessiamo alla dottrina sociale perché il soggetto che siamo potenzia il giudizio sulla realtà e la valorizza interamente.)

 


Concludendo, vorrei ringraziarvi del vostro impegno e aizzarvi a continuare perché l’esperienza di Cl non ha bisogno di apporti culturali, ma ha bisogno di esprimere quella profondità culturale che è inerente il suo dato originale. In altro caso gli apporti culturali nascono da altro. I criteri per giudicare l’esperienza sono, sempre e solo, immanenti all’esperienza stessa.

 

Appunti sintetici, raccolti da uno dei presenti, durante un incontro di don Giussani con un gruppo di responsabili di Centri culturali. Milano, 1989

L. Giussani, «L’esperienza, orizzonte e sorgente della cultura»,

Tracce-Litterae Communionis, n. 10, (2006), p. 90.