sabato 7 dicembre 2013

C'E' UN GRIDO DENTRO


Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
Non è per questo, non è per questo! [...]
E così tutto rimanda
a una segreta domanda
l’atto è un pretesto […]
c’è un cuneo nel cuore,
e non si osa levarlo
perché si teme il getto del sangue [...]
Nell’imminenza di Dio la vita fa man bassa
sulle riserve caduche
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio! (Sacchi a terra per gli occhi)


Siamo tutti in cammino, ci ha ricordato papa Francesco, un cammino in cui diventa sempre più difficile prendere in seria considerazione la propria umanità e le proprie esigenze profonde, in cui, pertanto, è sempre più arduo conoscere se stessi.

Per confondere, si negano le evidenze elementari dell’essere umano in nome di un’ostentata libertà di auto emanciparsi persino dal dato naturale e biologico che ci caratterizza. Uomo-donna; padre-madre: sono concetti che si pretende cancellare dal vocabolario e dal vivere civile. In un suo scritto, Alla ricerca del volto umano, don Luigi Giussani annotava: “il supremo ostacolo al nostro cammino umano è la trascuratezza dell’io”. L’uomo dimentico di sé. Che si occupa e si interessa di tutto tranne che di se stesso e del grido che lo abita. Disponiamo, tuttavia, di una grande risorsa che ha il potere di contribuire a rendere meno accidentato il percorso verso la conoscenza vera di sé fino a smussarne le più gravi asprezze: l’esperienza.
Come dichiara la poesia di Clemente Rebora. Cerchi di affidarti a qualcosa che identifichi come la più grande aspettativa; ti dai da fare in tutti i modi per soddisfare un grande desiderio e poi, quando sembra arrivare il momento di stringere nelle mani ciò che desideravi, sopraggiunge l’inaspettato scacco: “Non è per questo!” È il grido che sale dall’esperienza. “Non sono io ciò che realmente aspetti, ciò che ti compie. Non si esauriscono in me la promessa e l’attesa che abitano il tuo cuore”! I beni che rincorriamo ci confondono con la loro attrattiva perché hanno perso la loro natura di segno, cioè di indicatori di un’attrattiva e di una bellezza più grande. Perciò ci gridano “addio”! È l’esperienza che ha fatto Sant’Agostino, raccontata nelle Confessioni. Privato della funzione di essere segnale indicatore, ciò che rincorriamo come bene svela la sua precarietà e il suo limite così che anche le cose più belle e più care si perdono nel vuoto di senso. L’uomo non sente “sua” la vita, tutto sfugge via. È “lo spirito del mondo”, come ancora dice Papa Francesco, che domina e spinge “lungo una strada di uniformità” che si esprime in un “pensiero debole”, definito “dai nostri gusti”.
 

Di tutto questo, però, “L’imminenza di Dio fa man bassa”, scriveva Rebora. Ma cos’è mai questa imminenza di Dio in un mondo che lo nega? Come ci accorgiamo di questa imminenza? La prima spia è quel “cuneo nel cuore”, cioè, quel peso, quel dolore o quel semplice disagio che sorge dentro di noi e che spinge a una presa di coscienza ma che “non si osa levarlo perché si teme il getto del sangue”. Domina la paura senza la coscienza certa della presenza di un Padre. Ma è solo accettando di sporcarsi con quel “sangue” che sgorgherebbe senz’altro dal cuore in lotta con l’astratto e freddo spirito del mondo, che si può ritrovare se stessi e liberarsi dalla solitudine. Nell’esperienza di sé come bisogno, Dio si fa imminente. Ci viene incontro. “Quando ci lasciamo incontrare dal Signore, è Lui che entra dentro di noi, è Lui che ci rifà tutto di nuovo, perché questa è la venuta, quello che significa quando viene il Cristo: rifare tutto di nuovo, rifare il cuore, la vita, la speranza, l’anima, il cammino”. E questo è il Natale.


Elena Pagetti

Culturacattolica.it

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