Non è difficile spiegare perché la legge di Stabilità varata dal governo
sia così tragicamente inadeguata (Alberto Alesina sul Corriere di ieri), perché
non sia possibile rilanciare la crescita mediante un percorso virtuoso di tagli
alla spesa e di riduzione della pressione fiscale. Accade perché interessi,
tradizioni culturali, e regole del gioco fanno sinergia e remano contro,
impediscono che lo «Stato corporativo» venga scalfito.
La maggioranza bipartitica che si è formata sulla questione delle aziende municipalizzate a Roma dice, a proposito di Stato corporativo, tutto ciò che c’è da sapere. Qui non si vuole infierire su Berlusconi o sull’onorevole Brunetta ma è stato uno dei loro, il senatore di Forza Italia Francesco Aracri (un originale interprete della Rivoluzione liberale), a proporre l’emendamento che dà ai sindacati il potere di veto sui licenziamenti nelle municipalizzate di Roma. E nemmeno si vuole infierire su Matteo Renzi ma sono stati i suoi a votare l’emendamento del suddetto senatore mentre veniva respinta (per veto Cgil) una proposta di Linda Lanzillotta che andava nella direzione opposta (Sergio Rizzo, Corriere di ieri a pagina 5).
Fossi al posto di Enrico Letta , che è uomo colto e intelligente, anziché
difendere l’indifendibile, spiegherei al Paese perché qui da noi ciò che ci si
propone inizialmente di fare — vedi la parabola tragicomica della spending
review — non può essere fatto (da nessuno: Renzi se ne accorgerà presto), le
ragioni per cui è al di là delle umane capacità innescare in Italia un percorso
virtuoso di sviluppo. Potenza delle lobbies che, in Parlamento,
nell’amministrazione, negli enti locali (i sindaci vogliono soldi ma si
guardano bene dal mettere le mani nelle municipalizzate in deficit), negli
organi della giustizia amministrativa, stanno a guardia della spesa pubblica?
Certamente. Forza di una tradizione culturale che avalla e legittima l’azione
delle suddette lobbies? Sicuro. Regole del gioco, costituzionali e non,
costruite per impedire inversioni di marcia? Detto e ridetto.
Sostengono i cantori dello Stato corporativo che così si tutela la pace
sociale. Ma il punto è che quando tali pratiche diventano incompatibili con lo
sviluppo (e oggi lo sono), e l’impoverimento del Paese avanza inesorabilmente,
finisce per gonfiarsi l’esercito dei non tutelati, o dei non più tutelabili, e,
alla fine, anche la pace sociale viene meno. A causa della rivolta, e dell’assedio,
degli esclusi. Dopo le elezioni della primavera scorsa e l’impasse politico che
ne seguì, per un breve momento, sembrò entrata nella consapevolezza dei più
l’idea che occorresse cambiare le regole del gioco, sbarazzarsi di ciò che di
sbagliato o inadeguato c’è nella Costituzione del ’48. È tutto già finito. E si
capisce: con una Costituzione diversa, i governi italiani potrebbero disporre
di una forza simile a quella che detengono i governi delle altre grandi
democrazie europee. Ma il partito trasversale della spesa e delle tasse non può
accettarlo. Le regole del gioco attuali lo proteggono. Con altre regole
potrebbe, un giorno, essere sfidato o minacciato. Peter Praet, capo economista
della Bce (su La Stampa di ieri) dice che siamo stati bravi, abbiamo messo
sotto controllo i conti. C’è solo — egli nota — il piccolo dettaglio che lo
abbiamo fatto a colpi di tasse anziché di tagli. Moriremo per asfissia da tasse
ma con i conti (forse) in ordine. Sono soddisfazioni.
23 dicembre 2013
ANGELO PANEBIANCO
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