Discorso del cardinale Christoph Schönborn,
arcivescovo di Vienna,
martedì 10 dicembre, Duomo di Milano
“la chiesa
nella società secolarizzata”.
Vorrei che questo incontro fosse uno scambio di
testimonianza, ma anche di riflessione teologica sulla nostra missione nel
mondo di oggi. Comincio con un breve accenno alla diocesi di Vienna, dove siamo solo poco
più di un milione di fedeli. La decrescita dei cattolici a Vienna è drammatica.
Siamo ormai sotto il quaranta per cento, e tra non molto arriveremo al trenta
per cento. E questo per tre ragioni fondamentali: innanzitutto la demografia,
che colpisce quasi tutte le confessioni religiose. In secondo luogo, un
fenomeno sempre più diffuso è rappresentato dall’uscita civile dalla chiesa. Da
noi, in Austria, basta andare da un magistrato e non sei più cattolico.
Qualcuno lo fa perché non vuole più pagare le tasse, altri perché già da tempo
non partecipano alla vita della chiesa cattolica. Ogni anno perdiamo l’uno per
cento di cattolici, gente che defeziona. Non dico che è apostasia, ma è
drammatico. In dieci anni, con questo trend, avremo perso più del dieci per
cento di cattolici. Terza e ultima ragione, la continua perdita di prassi
religiosa, cui hanno contribuito anche i gravi scandali che hanno ferito molti
fedeli. Anche il mio predecessore Hans Hermann Groër dovette lasciare
l’incarico di arcivescovo in seguito alle accuse di pedofilia. Siamo diventati
poveri, umiliati. Poveri non economicamente, ma umanamente. E’ una chiesa
scoraggiata.
Quando sono entrato nell’ordine domenicano, alla
matura età di diciotto anni – la mia mamma mi diceva che ero troppo giovane, ma
io ero felice così – era il 1963, appena prima della crisi. Allora, avevamo quattro
conventi domenicani in Austria, oggi ne rimane uno solo. Gli altri tre sono
stati chiusi. E’ un dolore, ma nello stesso tempo, durante il mio episcopato,
abbiamo potuto fondare quattro nuovi monasteri a Vienna, di nuove comunità
monastiche. Loss and gain, diceva John Henry Newman, perdita e guadagno. Come
vivere, allora, questa situazione di chiesa umiliata, diminuita, scoraggiata?
Come uscirne? Penso che il Signore ci abbia condotto su un cammino in cui
chiede di non concentrarci sui problemi, ma di ricordarci ciò che Dio fa per
noi.
La prima intuizione della missione è quella
riscontrabile negli Atti degli Apostoli e vorrei accennare tre passi di questo
libro che sono diventati per noi un faro, una guida. Il primo è l’ultimo
passaggio, l’ultimo versetto, capitolo 28. Quando Paolo arrivò a Roma,
trascorse due anni interi nella casa presa in affitto. Lì accoglieva tutti
quelli che venivano da lui, annunciando il Regno di Dio e insegnando le cose
riguardanti Gesù Cristo. E le ultime due parole degli Atti degli Apostoli sono
“meta parresias akolytos”, con tutta franchezza e senza impedimento. Così si
conclude il libro degli Atti degli Apostoli, con Paolo che parla in modo franco
e akolytos, senza impedimenti. E’ un paradosso: Paolo prigioniero annuncia il Regno
di Dio con franchezza e senza impedimento. Questo testo è rimasto per noi come
un motto per il cammino intrapreso negli ultimi anni.
Il secondo testo è quello del capitolo 15. Abbiamo meditato
insieme il processo del cosiddetto Concilio di Gerusalemme, un problema enorme
di conflitto attorno all’obbligo della legge della circoncisione per i pagani
battezzati. Ebbene, non discussero il problema, non si sono focalizzati sulle
criticità. Hanno ascoltato l’esperienza dell’uno e dell’altro. Il cristianesimo
è una comunità di racconti, e penso che dobbiamo riscoprire il raccontarci a
vicenda ciò che Dio fa nella nostra vita. E questo dà gioia. L’idea
dell’accoglienza l’abbiamo tradotta nelle nostre assemblee diocesane. A Vienna
ne abbiamo fatte quattro, nel Duomo di Santo Stefano, con uno stile di ascolto
e preghiera. Ascoltare le esperienze dell’altro, come accaduto con la lettura
degli Atti degli Apostoli, pagine molto meditate.
Quando Papa Benedetto ha visitato l’Austria nel 2007, abbiamo proposto a tutte le parrocchie di scrivere la continuazione degli Atti. Raccontare ciò che si era sperimentato dell’opera di Dio nella vita di ciascuno, nella comunità, nella parrocchia negli ultimi cinque anni. Abbiamo raccolto cinque grandi libri e li abbiamo portati al Papa. Alla fine del viaggio, nel santuario mariano di Mariazell, Benedetto XVI ha riconsegnato ad alcuni dei consiglieri pastorali un libro di quel passo del Vangelo, dicendo loro di continuare a scrivere gli Atti degli Apostoli.
Quando Papa Benedetto ha visitato l’Austria nel 2007, abbiamo proposto a tutte le parrocchie di scrivere la continuazione degli Atti. Raccontare ciò che si era sperimentato dell’opera di Dio nella vita di ciascuno, nella comunità, nella parrocchia negli ultimi cinque anni. Abbiamo raccolto cinque grandi libri e li abbiamo portati al Papa. Alla fine del viaggio, nel santuario mariano di Mariazell, Benedetto XVI ha riconsegnato ad alcuni dei consiglieri pastorali un libro di quel passo del Vangelo, dicendo loro di continuare a scrivere gli Atti degli Apostoli.
L’ultima assemblea diocesana, ad ottobre, si è
focalizzata su un brano molto ricco, il naufragio di Paolo a Malta. Alcuni hanno detto che
eravamo pazzi, per l’immagine che davamo della chiesa. La chiesa non fa
naufragio, ma abbiamo meditato a lungo insieme. E’ stata una bella esperienza.
Papa Benedetto ha detto che “il rinnovamento della missionarietà della chiesa
verrà dalla lectio divina”. E in millecinquecento delegati, divisi in gruppi,
abbiamo fatto questa esperienza: prendere il testo del naufragio di Malta per
vedere e meditare ciò che è accaduto; per capire ciò che questo dice sulla
nostra situazione. E’ stato molto fruttuoso. Mai avrei pensato che si poteva
lavorare così bene con un testo così scioccante. Il gruppo di Paolo ha perso
tutto, la nave, il grano che era nelle stive. Tutto. Eppure, tutti sono
sopravvissuti. Paolo lo diceva, “nessuno perirà, la vostra vita sarà salva”.
Abbiamo meditato sul passaggio in cui si narra lo sbarco sull’isola,
naufragati. E la gente del luogo si mostrò fin da subito ben intenzionata nei loro
confronti. Quanta bontà esiste in questo mondo secolarizzato, in questo mondo
attuale.
Dobbiamo essere pronti a perdere tutto per essere
arricchiti dagli altri. Questo cammino l’abbiamo messo sotto il titolo
“Mission first”, perché oggi tutto si deve dire in inglese. Prima la missione.
Ma lo dico con sincerità, siamo molto poveri. Non posso portarvi gloriose
esperienze di missione, perché la missione bisogna scoprirla. A tal proposito,
devo dire una parola riguardo al Sinodo sull’evangelizzazione che si è svolto a
Roma nel 2012. Sono rimasto abbastanza deluso. Il primo giorno mi sono permesso
di chiedere ai miei confratelli vescovi e cardinali: “Parliamo delle nostre
esperienze, ma non delle esperienze della gestione della curia, ma delle
esperienze di missione”. I vescovi dovrebbero essere i primi evangelizzatori.
Invece, cosa abbiamo fatto? Ognuno nel suo bel discorso, ben preparato, ha
messo l’etichetta “evangelizzazione” su tutto ciò che già facciamo come
vescovi. Certo, la preparazione al battesimo è missione, la preparazione del
matrimonio pure. Tante cose oggi nella nostra vita parrocchiale sono missione.
Ma non sono evangelizzazione.
In questa, infatti, c’è qualcosa di particolare, di
differente. Certo, tutto ciò che facciamo ha un impulso di evangelizzazione e di
missione. Ma c’è una gioia speciale, indimenticabile nell’atto proprio
dell’evangelizzazione. E questo si fa solo faccia a faccia. Si può
evangelizzare con Twitter, internet, Facebook. Anche con i libri che scriviamo.
Fa parte dell’insegnamento. Ma abbiamo bisogno dell’incontro faccia a faccia
con una persona, perché quello è il momento in cui Cristo fa
l’evangelizzazione. Vi racconto una cosa che facciamo a Vienna, che certamente
non farà aumentare domani la presenza domenicale dei credenti né il numero dei
cattolici. Alcuni anni fa abbiamo cominciato, per San Valentino, il 14
febbraio, a distribuire nelle stazioni della metropolitana e delle ferrovie,
lettere di amore di Dio a te. Una lettera manoscritta, ma fatta con citazioni
bibliche, in un modo molto personale. Alcuni si sono scandalizzati, dicendo che
è impossibile rendere Dio così ridicolo, scrivendo lettere di amore. La mia
gioia e anche sorpresa è che la maggior parte dei collaboratori della curia
partecipa a questa azione. Tutti noi ci troviamo il 14 febbraio mattina nelle
stazioni della metropolitana con queste lettere. Non direi che questa
iniziativa è già evangelizzazione, ma è almeno qualcosa: scendere nella
stazione della metropolitana, essere in questa situazione anche un po’ ridicola,
con la gente che va di fretta, che non ha tempo di discutere. Ma questo atto di
contatto faccia a faccia cambia forse anche loro.
Ecco perché dico che bisogna cambiare lo sguardo. Penso che la
condizione della nuova evangelizzazione sia cambiare lo sguardo, guardare
altrove. Non ho il tempo di confessare pubblicamente i miei sbagli nella
missione, farò solo un esempio, risalente a tre o quattro anni fa. Andavo in
treno da Innsbruck a Vienna. A bordo c’era un gruppo di giovani che mi hanno
riconosciuto. Erano diciottenni che avevano già bevuto un po’, mi hanno
sbeffeggiato. Io avevo il mio breviario e volevo essere lasciato essere in
pace, stavo pregando. Allora ho fatto uno sforzo per concedere loro almeno un
sorriso. A Salisburgo sono scesi tutti. Dovevano fare la maturità e andavano a
festeggiare in Turchia, dove si fa tutto, si beve, e altro. Quando sono scesi
dal treno, ho cominciato a piangere. Ho detto: “Signore, quale stupido
servitore hai cercato. Qui c’erano una ventina di giovani che avevano finito la
maturità, che mi avevano riconosciuto, il loro cardinale. E io non ho avuto
nessuna parola di minimo interesse”. Avrei potuto chiedere com’era andata la
maturità. Niente. Perché io avevo il mio breviario. Mai dimenticherò questo
fallimento, questa occasione mancata di evangelizzazione. Non avrei dovuto
parlare loro del Vangelo, ma dare uno sguardo, senza pensare a ciò che
avrebbero fatto in Turchia. Ogni tanto penso che il Signore soffra per noi,
così ciechi e duri. Per noi che non abbiamo il cuore di usare il suo sguardo di
attenzione e compassione. Papa Francesco ci invita tanto a cambiare lo sguardo.
Prima di mettere nelle caselle “divorziato”, “risposato”, bisogna chiedere “chi
sei tu”, “che persona sei”. Io non ho una soluzione per questo e anche per ciò
sono molto curioso di guardare cosa succederà al prossimo Sinodo, con il
questionario.
Come fare per stare sulla strada della verità? Avete
avuto quel bellissimo incontro delle famiglie, qui a Milano. Che bella la gioia di
una famiglia credente. Ma oggi la famiglia è patchwork, è una famiglia fatta di
divorziati, risposati. E’ tutto complicato. Come siglare un’alleanza tra la
verità che libera e salva e la misericordia? Questa è la grande sfida della
nuova evangelizzazione. C’è anche un pericolo attuale di vedere lo sviluppo di
un neoclericalismo, perché vedo nel cambiamento della società e della chiesa
molti nostri confratelli disorientati, che si chiedono dov’è il loro posto,
cosa devono fare. C’è la tentazione di lasciar correre tutto e di chiudere. Io
non so come trovare il cammino giusto.
Io ho dovuto affrontare un caso che ha fatto il giro del mondo, riguardante la più piccola parrocchia della nostra diocesi. Con il parroco disattento a ciò che accadeva, fu eletto al consiglio pastorale un giovane che convive con un altro uomo. Ma è un giovane credente, che partecipa alla vita della parrocchia, che suona l’organo. Io ero davanti alla decisione se annullare questa elezione o lasciar stare. E’ stata una decisione molto difficile. Ho invitato questo giovane, e lui ha chiesto di poter venire con il suo partner, il suo amico. Sono venuti e ho visto due giovani puri, anche se la loro convivenza non è ciò che l’ordine della creazione ha previsto. Quella stessa settimana, la stampa austriaca era piena di storie sui gravissimi abusi di due monaci su alcuni allievi della loro scuola. Ebbene, io ho deciso di non mandare via il ragazzo. Lui mi aveva detto che non avrebbe partecipato alla comunione, che avrebbe capito la situazione. Rocco Buttiglione scrisse un bellissimo articolo sul Foglio per difendere il mio comportamento, che mi ha attirato molte critiche. Ma capisco, è un tema difficile. Io non sono d’accordo, per niente d’accordo, con il cosiddetto matrimonio gay. Nonostante ciò, ci sono situazioni dove dobbiamo guardare prima di tutto alla persona. Questa è la grande sfida che dobbiamo accogliere. Come vivere il Vangelo nella società secolare, dove siamo una minoranza. A Vienna posso dire che con quasi il sessanta per cento di matrimoni che finiscono in divorzio, la famiglia cristiana non rappresenta oggi la normalità, bensì l’eccezionalità. La normalità è ciò che viviamo con la patchwork family.
Io ho dovuto affrontare un caso che ha fatto il giro del mondo, riguardante la più piccola parrocchia della nostra diocesi. Con il parroco disattento a ciò che accadeva, fu eletto al consiglio pastorale un giovane che convive con un altro uomo. Ma è un giovane credente, che partecipa alla vita della parrocchia, che suona l’organo. Io ero davanti alla decisione se annullare questa elezione o lasciar stare. E’ stata una decisione molto difficile. Ho invitato questo giovane, e lui ha chiesto di poter venire con il suo partner, il suo amico. Sono venuti e ho visto due giovani puri, anche se la loro convivenza non è ciò che l’ordine della creazione ha previsto. Quella stessa settimana, la stampa austriaca era piena di storie sui gravissimi abusi di due monaci su alcuni allievi della loro scuola. Ebbene, io ho deciso di non mandare via il ragazzo. Lui mi aveva detto che non avrebbe partecipato alla comunione, che avrebbe capito la situazione. Rocco Buttiglione scrisse un bellissimo articolo sul Foglio per difendere il mio comportamento, che mi ha attirato molte critiche. Ma capisco, è un tema difficile. Io non sono d’accordo, per niente d’accordo, con il cosiddetto matrimonio gay. Nonostante ciò, ci sono situazioni dove dobbiamo guardare prima di tutto alla persona. Questa è la grande sfida che dobbiamo accogliere. Come vivere il Vangelo nella società secolare, dove siamo una minoranza. A Vienna posso dire che con quasi il sessanta per cento di matrimoni che finiscono in divorzio, la famiglia cristiana non rappresenta oggi la normalità, bensì l’eccezionalità. La normalità è ciò che viviamo con la patchwork family.
Cosa vuol dire questa situazione per noi preti? Penso
che dobbiamo imparare di nuovo cosa vuol dire vivere nella diaspora. Siamo molto deboli,
ma minoranza non vuol dire essere una setta. Per la prima delle nostre
assemblee diocesane, io ho formulato cinque sì per delineare la nuova
evangelizzazione. Il primo sì è il sì all’oggi, al nostro tempo. Lasciamo la
nostalgia degli anni Cinquanta, quelli della mia infanzia, nel villaggio,
quando la chiesa si riempiva di gente per tre volte ogni domenica. Tutti in
chiesa. Lasciamo la nostalgia per la vitalità dei nostri oratori degli anni
Cinquanta e Sessanta. Diciamo sì all’oggi: Dio ama questo mondo, e noi dobbiamo
avere uno sguardo di amore, di simpatia al mondo nel quale viviamo. Amiamo
l’oggi nel quale viviamo. Il secondo sì e un sì consapevole e deciso a quella
che è la nostra situazione. La decrescita dei cattolici, il lasciare tante
cose, il veder morire tante cose che amiamo. Un sì al “bel funerale”, come
amano i viennesi. Sì, è la nostra situazione. Molte cose moriranno, ma Dio ci
ama nella nostra situazione.
Lo studio del popolo d’Israele in esilio è una scuola
tremenda per noi, oggi. Ma dobbiamo vedere i segni buoni nel nostro tempo.
Anche laddove non c’è chiesa. Il terzo sì è il sì alla nostra vocazione comune
di battezzati. Io insisto molto sul sacerdozio comune di tutti i battezzati.
Tenere a mente la “Lumen Gentium”, testo capitale, nel quale si parla della
relazione tra il sacerdozio comune dei battezzati e il sacerdozio ministeriale
degli ordinati. Il Concilio parla di una differenza essentia et non gradu
tantum, una differenza di essenza e non solo di grado. Differenza essenziale.
Noi non siamo un grado superiore dell’essere cristiano. Il sacerdote
ministeriale è essenzialmente a un altro livello del sacerdozio battesimale
comune. Quando il cardinale Ratzinger è diventato prefetto della congregazione
per la Dottrina della fede, io ero già membro della commissione teologica
internazionale e così ho conosciuto l’usciera del palazzo del Sant’Uffizio,
Clelia. Nel 1982 o 1983, ho chiesto alla Clelia com’era il loro nuovo prefetto.
E lei: “E’ un vero cristiano”. Ebbene, ecco, se questo si può dire di uno di
noi, preti, vescovi, cristiani, è una bella testimonianza.
L’evangelizzazione si fa da veri cristiani e la loro
vita è la loro testimonianza. San Francesco ha detto “annunciate a tutti il
Vangelo, se necessario anche con parole”. Diceva questo perché è un vero
cristiano. Questa è l’evangelizzazione. Alcuni preti mi hanno detto che parlo
troppo del sacerdozio comune, chiedendomi qual è la parte che rimane loro. E’
vero, sì. Dove rimane la loro parte? Qual è il loro e nostro ruolo? Nella mia
lettera di Natale per i preti di Vienna ho proposto un metodo molto semplice di
lectio divina: per scoprire la nostra vocazione di preti, individuiamo quali
immagini della Bibbia ci parlano al cuore. Sono tante immagini per i pastori, i
preti, per i ministri. Quale immagine parla al cuore? Ho fatto alcuni esempi,
ho parlato di me stesso, dicendo che l’immagine che mi tocca e che ho preso
come stemma del mio episcopato è Vos autem dixi amicos, vi chiamo non più servi
ma amici. Ed è l’immagine che ho io della chiesa, dei preti. Amici. Un’altra
immagine che mi rappresenta è quella in cui Gesù chiama i dodici, mandandoli ad
annunciare la parola.
Il quarto sì per una chiesa che impara passo a passo a
essere in diaspora, in una diaspora feconda. La vita cristiana in diaspora è una
vita di rappresentanza. In tutte le parrocchie, anche nei villaggi dove i
partecipanti alla vita parrocchiale sono ormai minoranza, voi siete
rappresentanti di molti. Vivete la vostra fede non solo per voi, ma anche per
gli altri. Portateli come la Madonna con il mantello. Ognuno crede anche per
gli altri, non solo per se stesso. Essere cristiano nella città secolare è
essere rappresentante. Possiamo tanto imparare dagli ebrei. Loro hanno la
convinzione che quando in una città ci sono dieci ebrei ciò sia una benedizione
per quella città. Questo vale per tutti noi, rappresentanza come fuoco della
nuova evangelizzazione.
L’ultimo sì è al nostro ruolo per la società. E questo anche se
siamo minoranza, anche se politicamente in molti campi in Europa non abbiamo
più il potere di imporre la legislazione che ci piacerebbe o che pensiamo
corrisponda al diritto naturale. Pensiamo al discorso dell’aborto,
dell’eutanasia, alle discussioni drammatiche che chiedono il diritto umano
all’aborto, la limitazione della libertà di coscienza dei medici. Nonostante
siamo pochi, abbiamo il ruolo del sale, che è sempre in minoranza. Non
piacerebbe, infatti, una pasta dove il sale è in abbondanza. Le nostre
parrocchie, le nostre comunità, i nostri movimenti, conventi, associazioni,
sono una grande rete di carità, di misericordia, di coscienza sociale. E quanto
più la rete sociale della società diventa debole, tanto più importante diventa
l’impegno cristiano nella società.
di Christoph Schönborn
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