La
centralità della persona
IL BUON GOVERNO |
La crescita non si produce per
decreto, ma allargando l’autonomia e le capacità creative dei cittadini
Quasi
mai, in politica, due più due fa quattro. Più spesso, fa tre o cinque. Tradotta
in termini storici, l’anomalia logico- matematica è ciò che, da Machiavelli a
Croce, chiamiamo «autonomia della politica dalla morale »; ovvero, la
prevalenza del principio di realtà sul moralismo, delle «dure repliche della
storia» sul dover essere.
Nel
corso della storia europea, essa si è concretata, nel Cinquecento, con la fine
delle guerre di religione, nel concetto di «sovranità»; poi, filosoficamente,
nel «secolo dei lumi» (il Settecento) nella superiorità dell’Illuminismo
scozzese, empirico e scettico, su quello, razionalista ed etico, francese;
infine, nell’Ottocento, politicamente nel liberalismo e, istituzionalmente nel
costituzionalismo. L’«incorruttibile» Robespierre, vittima del suo stesso
integralismo giacobino, è morto su quella ghigliottina che aveva edificato per
tagliare la testa ai corrotti dell’Antico regime, mentre gli scettici David
Hume, Adam Smith e i loro sodali di Edimburgo e dintorni sono morti nel loro
letto dopo aver attraversato le lotte di religione e le rivoluzioni inglesi e
averne influenzato felicemente gli esiti.
Che
piaccia o no, da noi, l’evasione fiscale e il lavoro nero sono stati, a lungo,
il modo col quale la politica ha fatto quadrare i conti del Paese, mostrando
che due più due può anche fare tre o cinque, e imponendo il principio di
realtà—attraverso la propria autonomia dalla morale — sul dover essere. La
spesa pubblica — a sua volta produttrice di corruzione — ha fatto il resto,
contribuendo alla stabilizzazione e, entro certi limiti, persino alla migliore
funzionalità di un sistema altrimenti condannato alla paralisi dall’infelice
sovrapposizione del modello totalitario, politico e istituzionale collettivista
mutuato dalle democrazie popolari d’oltre cortina, alla precedente legislazione
autoritaria ereditata dal fascismo.
È
stato il capolavoro della Democrazia cristiana, di cattolici che, per dirla con
Montanelli, quando andavano in Chiesa, parlavano più volentieri col parroco in
sacrestia che al Padre Eterno davanti all’altare, e avevano (opportunamente)
rovesciato il detto popolare «fa come il prete dice, non come il prete fa»
nella versione «fa come il prete fa, non come il prete dice» sulla quale
fondare il boom economico e sulla quale — l’affermazione non appaia blasfema;
riflette la realtà storica—si è retta, nel corso dei secoli, quella
straordinaria istituzione terrena e politica, prima che trascendente e
religiosa, che è stata (ed è tuttora) la Chiesa di Roma. Il mondo, per dirla
con Machiavelli, non lo si governa con i pater noster. Non suoni neppure come
una sorta di elogio dell’evasione fiscale e della corruzione l’affermazione che
questo nostro Paese sia cresciuto e si sia sviluppato (anche) attraverso
l’illegalità e l’eccessiva dilatazione della spesa pubblica. Essa è confermata,
del resto, dalla prova contraria, solo apparentemente paradossale. Siamo finiti
nei guai, con la crisi del debito sovrano, non per l’evasione fiscale, la
corruzione, bensì perché la spesa pubblica si è dilatata per sovvenzionare un
modello di welfare «ormai morto» (copyright Mario Draghi), ubbidendo a
un’istanza morale, la giustizia sociale.
La
constatazione fa, altresì, tutta la differenza fra il modo, realistico, di
affrontare «il mondo come è» dell’uomo politico e quello del tecnico che si
muove secondo gli schemi e i dettati dottrinari e astratti del «mondo come
dovrebbe essere». L’uomo politico si preoccupa delle conseguenze delle proprie
azioni a breve termine, ubbidendo ad una logica utilitaristica e alla propria
esperienza, mentre il tecnico bada (soprattutto) a tener fede, se non
all’etica, agli schematismi della teoria economica e agli imperativi
moralistici alla cui realizzazione crede di essere stato preposto dalla
collettività, se non proprio come «inviato da Dio» (salvo, poi, pensare crolli
pure il mondo). Ora, che la spesa pubblica vada contenuta e ridotta, l’evasione
fiscale e la corruzione debbano essere combattute è fin troppo ovvio per
doverlo ripetere, così come sarebbe ingiusto attribuire la diffusione della
corruzione ai governi «politici» passati; altrettanto ovvio è che, se un merito
ha il governo «tecnico», è il rigore nei conti pubblici che cerca di imporre,
ancorché col ricorso (sbagliato) ad una fiscalità più elevata d’Europa, invece
che con la riduzione della spesa.
Ma,
allora, sarebbe, assai più saggio chiedersi se il difetto non stia nel manico,
cioè nell’Ordinamento giuridico e nel sistema politico usciti dalla pur meritoria
Costituente del 1947, quando il mondo non era propriamente quello di adesso.
Dove la politica, le sue eccessive risorse finanziarie e le sue ottuse logiche
burocratiche si innestano nella produzione di ricchezza da parte della società
civile, e ne condizionano l’autonomia, è inevitabile che, con la corruzione, la
criminalità — che va dove sono più numerose e più facili le occasioni di
mettere le mani sui soldi e le possibilità di eludere la legge— cresca e si
diffonda. Dove, invece, sono il contratto e il mercato a presiedere ai rapporti
civili, con le loro logiche «egoistiche»— le stesse che muovevano il macellaio,
il birraio e il fornaio di Adam Smith —le probabilità di crescita della
criminalità e di diffusione della corruzione sono minori semplicemente perché,
ai fini del perseguimento del profitto, criminalità e corruzione non sono
«convenienti», ma «costose». La crescita non la si produce per decreto, ma
allargando i confini entro i quali si concretano l’autonomia e le capacità
creative della società civile. Lo statalismo, qui, non è la soluzione, ma il
problema. Si metta, dunque, mano alla riforma dello Stato— dal quale anche il
liberalismo non può prescindere, anzi— partendo dalla revisione del suo
Ordinamento giuridico, ripristinando lo Stato di diritto, oggi latente, non per
aggiungere ai troppi divieti e regolamenti che riducono il cittadino a suddito
altri divieti e altri regolamenti, bensì nel segno dell’individualismo
metodologico, cioè del primato della centralità e dell’autonomia della Persona.
Sono
anni che chiunque vada al governo promette riforme, che, poi, non fa, e/o che
si risolvono in un’accresciuta invasività della sfera pubblica su quella
privata. Con il forte astensionismo e il successo di Grillo alle ultime
elezioni amministrative, inquietante avvisaglia di ciò che potrebbe accadere a
quelle politiche del 2013, gli italiani hanno mostrato di non credere più alle
promesse, ma di volere fatti, fatti, fatti all’insegna di un’espansione delle
loro libertà.
Piero
Ostellino29 maggio 2012
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