di Giovanni Fighera 22-01-2014
Dopo il saggio La traccia di Cesare Pavese, l’insegnante,
saggista e poeta Gianfranco Lauretano (1962) ritorna su un altro grande del Novecento, quel Clemente Rebora
(1885-1957) che è «tra le personalità più importanti dell’espressionismo
europeo» per il «vocabolario […] pungente, il […] registro d’immagini e
metafore arditissimo» (Gianfranco Contini).
Come scrive nella premessa, Lauretano parte dalla certezza che la poesia di
Rebora abbia «molto da
dire al nostro tempo» permettendo di rivedere i canoni consolidati di un
Novecento che sarebbe quasi esclusivamente eversivo nei confronti della
tradizione. A differenza di quelli di Ungaretti e Montale, i suoi versi si
innestano potentemente nella nostra tradizione.
Refrattario all’assunzione di un ruolo di poeta vate, Rebora respinge la posizione di quanti
considerano «la poesia una sorta di entità superiore, capace di modificare la
realtà», preesistente alla scrittura, quasi preesistente alla stessa verità. La
verità viene prima della scrittura e la poesia cerca di rifarsi ad essa. C’è
una particolare sintonia tra la visione di Rebora e quella di Manzoni. La
realtà è sempre più ricca di ogni immaginazione e, quindi, l'arte potrà e dovrà
sempre prendere spunto dallo stupore per la realtà. La filosofia, la scienza,
l’arte hanno la stessa scaturigine. Manzoni nell’opera De inventione sostiene
che l'artista non inventa mai nulla. «Inventare», infatti, deriva da «invenire»
che vuol dire «trovare», «scoprire». Quindi l'artista è come se trovasse nel
creato le norme e le impronte del creatore. Che significa? La bellezza che c'è
nel creato è la sorgente dell’opera d’arte, è la sorgente di ogni atto, di ogni
iniziativa artistica.
Non è l’unico elemento di comunanza tra Rebora e Manzoni. Rebora nasce, infatti, nella stessa
città del famoso romanziere, esattamente cent’anni dopo, nel 1885.
Proviene da una famiglia borghese milanese improntata ad una spiritualità di
tipo mazziniano. La fiducia illuministica di cui è imbevuto inizia ad
incrinarsi nel 1909. Dopo il 1910 si dedica all’insegnamento e alla scrittura
di cui è frutto la sua prima raccolta poetica Frammenti lirici. Vi emergono
l’insoddisfazione per l’omologazione, un desiderio di grandi ideali, una sorta
di pessimismo storico leopardiano, l’incapacità dell’uomo di decifrare la
realtà. Vi si avverte «la crisi di Dio dinanzi a una storia che lo emargina in
uno spazio remoto e indifferente» (G. Mussini) cosicché all’uomo non resta che
prodigare la sua bontà. La prima raccolta ha un carattere spiccatamente
morale rimarcato dalle frequenti allusioni ad autori robusti quali Parini,
Pascoli, Leopardi e, su tutti, Dante.
L’esperienza come soldato (che durerà poco, perché Rebora sarà presto riformato in seguito ad
un’esplosione ravvicinata), la lettura dei romanzieri russi, uno spiccato
interesse per le religioni sono la prolusione alla seconda raccolta Canti
anonimi.
Solo a quarantaquattro anni, nel 1929, avviene la conversione vera e
propria al cattolicesimo. È lo stesso anno in cui matura la conversione di un altro grande della
nostra letteratura, ovvero Giuseppe Ungaretti. Riceve la prima comunione, poi
la cresima, nel 1931 diventa novizio e nel 1936 è nominato sacerdote. Di questo
periodo sono poche poesie religiose e, poi, il silenzio poetico. Dopo la
malattia cerebrale che lo costringerà a letto nel 1952 si assiste al suo
ritorno alla poesia con le raccolte Curriculum vitae e Canti dell’infermità.
Rebora muore il giorno di tutti i santi del 1957.
Lauretano identifica nel Frammento I la poesia che fissa le intenzioni
poetiche di Rebora, l’etimo primo da cui
deriva il suo ardore di scrittura, quell’«egual vita diversa» che «urge
intorno». Il poeta scrive: «Vorrei palesasse il mio cuore/ Nel suo ritmo
l’umano destino». L’uomo è rapporto col destino e la grande poesia testimonia
l’aspirazione del cuore dell’uomo ad un destino eterno. Per questo la vera
poesia è universale, parla al cuore di tutti e, nel contempo, del cuore di
tutti.
La particolarità del saggio di Lauretano consiste nella ricerca di una stretta correlazione tra la poesia di
Rebora e i luoghi in cui visse che sono stati in un certo senso la scaturigine
dei suoi versi.
Milano è «il simbolo negativo di una vita vissuta per motivi sbagliati, soprattutto per la brama di guadagno e
l’estraneità tra le persone che ne consegue», «una città divoratrice, vorace»,
piena di «bontà ipocrita di chi fa gesti di unione ma perché è ghiotto di se
stesso, non veramente sincero nella generosità».
Il Lago Maggiore e Stresa sono i luoghi dell’inizio del sacerdozio e della
morte, tanto che forte è il
senso del Mistero quando Rebora descrive l’atmosfera: «Respira il lago un
palpito sopito/ E dàn le stelle bàttiti di ciglia/ Divini; appare il mito/ Dei
monti limpido, e origlia».
L’idea di montagna è, invece, «prossima, in Rebora, a quella di un assoluto
buono», vi si respira il
desiderio di essere perdonati e di perdonare, la brama di purezza e la bontà
del creato, come nei versi: «Quanto misero mal vita perdoni,/ Quanta bontà ci
volle a crear noi,/ Quassù quassù non è chi non l’intoni/ Mentre vorrebbe far
puri i dì suoi».
C’è, poi, una patria celeste che è il destino buono pensato dal padre
celeste per tutti noi, è la meta a cui noi tutti tendiamo: «Mentre lo Sposo indugia, il corso
mio/ torna al ricordo (invece il restio è oblio)/ là dove più mi s’annunziava
Dio». «Gesù il Fedele» è «il solo punto fermo nel moto dei tempi,/ in
sterminata serie di eventi: il solo Santo che non manca mai,/ che trascende
dove ci comprende/ e si fa dono in cima ai nostri guai/ e pareggia la grazia
col perdono:/ vero Dio trasumanante/ e a Deità aperto vero uomo».
Per questo Rèbora scrive in «Sacchi a terra per gli occhi»: «Qualunque cosa tu dica o faccia/c'è
un grido dentro:/non è per questo, non è per questo!/E così tutto rimanda/a una
segreta domanda.../Nell'imminenza di Dio/la vita fa man bassa/sulle riserve
caduche,/mentre ciascuno si afferra/a un suo bene che gli grida: addio!».
Rebora descrive qui l’urgenza di una redenzione, di una salvezza che venga da
Altro, perché l’uomo non può salvarsi da sé. Occorre semplicità per riconoscere
che il nostro cuore è in attesa costante di un evento, dell’Evento, anche se
noi non ne siamo coscienti. Il poeta è certo: «Deve venire,/ Verrà, se resisto/
A sbocciare non visto,/ Verrà d’improvviso,/ Quando meno l’avverto:/ Verrà
quasi perdono/ Di quanto fa morire,/ Verrà a farmi certo/ Del suo e mio
tesoro,/ Verrà come ristoro/ Delle mie e sue pene» («Dall’immagine tesa» in
Canti anonimi).
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