LO SCOPO PER CUI SIAMO SU QUESTA TERRA E' EVANGELIZZARE
TUTTO IL RESTO E' MEZZO ALLO SCOPO
di Massimo Introvigne
Giuliano Ferrara, «ateo devoto» geniale
ma talora fazioso, e cattolici a disagio come Mario Palmaro – che ricordo
sempre nelle preghiere per le gravi condizioni di salute – continuano nella
loro critica a Papa Francesco, che ha preso spunto anche dall’omelia del
Pontefice del 3 gennaio 2014 nella Chiesa del Gesù, che celebra la
canonizzazione – avvenuta lo scorso dicembre – del primo sacerdote gesuita, san
Pietro Favre (1506-1546).
Ritroviamo in questa omelia alcuni
passaggi fondamentali dell’esortazione apostolica «Evangelii
gaudium»: noi siamo stati creati per rendere gloria a Dio; il modo di rendere
gloria a Dio è salvare la nostra anima e insieme contribuire a salvarne altre,
evangelizzare; dunque lo scopo per cui siamo su questa Terra è evangelizzare.
Tutto il resto va visto in funzione di questo scopo duplice e anche unitario:
rendere gloria a Dio e attirare le anime al Vangelo.
Qui si situa la chiave di comprensione
di alcuni passaggi di Papa Francesco che generano talora disagio: lo
scopo ultimo è costituito dalla gloria di Dio, perseguita tramite la salvezza
delle anime. Tutto il resto è mezzo allo scopo: compresa la morale, sia
individuale sia sociale. Non che la morale non sia importante: ma va sempre
intesa come mezzo allo scopo di salvare le anime, così rendendo gloria a Dio.
Non che la buona politica e le buone leggi non siano importanti: ma interessano
alla Chiesa nella misura in cui servono a salvare le anime e rendere gloria a
Dio.
Questa è la lettura che Papa Francesco
fa del «Principio e fondamento» degli «Esercizi Spirituali» di
sant’Ignazio di Loyola (1491-1556): «L’uomo è creato per lodare, riverire e
servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di
questo mondo sono create per l’uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui
è creato. Da questo segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano
per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo».
Attenzione, ci dice Papa Francesco: «tutte» le realtà di questo mondo, comprese
la politica, le leggi e le stesse norme morali.
Questo modo dei Gesuiti di concepire
tutte le realtà in funzione del principio e fondamento è stato attaccato
fino, si può dire, da subito come una forma di relativismo, che toglie verità
oggettiva alla nozione di azione buona e cattiva. Il gesuita rischierebbe di
negare che un’azione è buona o cattiva in sé, oggettivamente. Diventa buona o
cattiva a seconda se serve un fine presentato come nobile, la gloria di Dio.
Senonché, proseguono i critici dei Gesuiti, la gloria di Dio è facilmente
scambiata per la gloria della Chiesa. In questo senso la tredicesima «regola
per sentire nella Chiesa» degli «Esercizi Spirituali» è presentata come il
trionfo di questo pio relativismo: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre
tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo
stabilisce la Chiesa gerarchica» («Esercizi Spirituali», 365). Peggio ancora,
la gloria della Chiesa sarebbe talora scambiata per la gloria della Compagnia
di Gesù.
Si riconosce qui la critica dei
Giansenisti ai Gesuiti, che fu indossata da Blaise Pascal
(1623-1662), un personaggio complesso, intessuto di contraddizioni evidenziate
con acume anche da un suo ammiratore come Augusto Del Noce (1910-1989). Pascal
– che misconosce l’influsso del protestantesimo puritano sul nucleo originario
giansenista – difende l’oggettività della norma morale contro la casuistica
gesuita che, guardando sempre al caso concreto, diventerebbe soggettivista e
relativista. A leggere Ferrara, che si appoggia anche su Gesuiti progressisti
moderni come il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) o lo storico Michel
de Certeau (1925-1986), i quali cambiano di segno la critica di Pascal
rivendicando orgogliosamente il «relativismo» gesuita, sembra che Pascal
difenda l’oggettività della legge naturale che la ragione può riconoscere, e
sia dunque un precursore di Benedetto XVI, mentre i Gesuiti casuistici
sarebbero precursori di Papa Francesco.
Ma c’è un equivoco. Pascal
fonda l’oggettività della norma morale non sulla ragione ma sulla fede. Come ha
spiegato Benedetto XVI all’udienza generale del 3 dicembre 2008, per Pascal
l’espressione «natura umana» ha due significati. Con la natura umana
originaria, creata buona da Dio, ben difficilmente dopo il peccato originale
riusciamo a entrare in contatto. «Pascal ha parlato di una “seconda natura”,
che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa “seconda natura”
fa apparire il male come normale per l'uomo». Quando noi uomini decaduti
cerchiamo il contatto con la «natura» in realtà incontriamo la «seconda natura»
che ci spinge al male. Pertanto possiamo derivare la certezza della norma
morale non dalla ragione che legge la natura ma solo dalla fede e dalla
grazia.
Pascal – come ha mostrato uno studioso
gesuita della storia della teologia morale acuto, ancorché talora
discutibile, Paul Valadier – non ha più fiducia nella ragione umana di
sant’Ignazio: ne ha meno. Non si fida della capacità della ragione, per quanto
guidata dalla fede, di analizzare il caso singolo, e si affida –
fideisticamente – alla norma che è «oggettiva» in quanto garantita da Gesù
Cristo.
Sant’Ignazio assume dalla modernità
nascente non il soggettivismo ma la questione della
soggettività, non nega l’oggettività della norma ma ha fiducia che la ragione
illuminata dalla fede sia in grado di applicarla all’infinita diversità dei
casi singoli tenendo conto della specificità di ciascuno. E questo modo di
applicare la norma morale per i Gesuiti è una forma di vigilanza rispetto al suo
scopo, che è assicurare mediante la salvezza delle anime la gloria di Dio.
Per quanto Ferrara abbia dichiarato di
non avere simpatia per l’uomo politico francese Charles Maurras
(1868-1952), in qualche modo ne ripete l’itinerario. Maurras si scontrò con Pio
XI (1857-1939), che pubblicò la sua condanna, perché non aveva capito a fondo
neanche san Pio X (1835-1914), pur coprendolo di lodi per la sua difesa dei
principi morali e della sana politica. Maurras non aveva capito che anche san
Pio X lavorava per la salvezza delle anime, che era il fine, mentre la difesa
dei buoni principi morali e politici era il mezzo. San Pio X non criticava il
laicismo della Repubblica francese per far piacere a Maurras ma perché questo
laicismo ostacolava la salvezza delle anime.
In modo analogo – certo, non identico –
Ferrara non ha forse compreso sino in fondo la lezione del
grande discorso ai Bernardins di Parigi del 12 settembre 2008, dove Benedetto
XVI parla dei benedettini del Medioevo ma anche un po’ di se stesso: «Si deve
dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e
nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto
più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio».
Certo, quei monaci – e così Benedetto XVI nel secolo XXI – crearono una cultura
e salvarono dei valori. Ma questo non era il loro scopo. Era mezzo per lo scopo
ultimo, «quaerere Deum».
Papa Francesco insiste tutti i giorni su
questo scopo ultimo della missione della Chiesa: salvare
le anime, salvarle in un mondo dove molti sembrano totalmente disinteressati al
Vangelo. Tutto il resto non è negato, ma viene dopo. Le critiche, che possono
generare disagio, ai «pelagiani» e ai «moralisti» vengono da qui. Il Papa
critica chi scambia il mezzo, sia pure importantissimo, per il fine.
E il disagio cresce quando Papa
Francesco manifesta la sua convinzione che il fine – la salvezza delle
anime – richiede oggi un pontificato convincente e, perché no?, anche
«popolare», capace di affascinare le grandi masse dei lontani che si tratta di
riconquistare alla Chiesa. Per questo il pontificato va «messo in sicurezza»
rispetto a controversie che sono invece delegate ai vescovi. Sul tema
dell’omosessualità il Papa annuncia una parte della dottrina del «Catechismo
della Chiesa Cattolica», quella secondo cui le persone omosessuali «devono
essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si
eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione» (n. 2358). Questa formula c’è
nel «Catechismo», e certo non l’ha inventata Papa Francesco. Quanto all’altra
parte della dottrina del «Catechismo», secondo cui «gli atti di omosessualità
sono intrinsecamente disordinati» e «in nessun caso possono essere approvati»
(n. 2357) né fondare riconoscimenti giuridici, il Papa – che peraltro non manca
mai di rimandare al «Catechismo» – affida il giudizio sulle leggi e le politiche
agli episcopati nazionali. «Non credo neppure – spiega il Papa nella «Evangelii
gaudium» – che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o
completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è
opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di
tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori».
Le strategie non sono né vere né false:
sono giuste o sbagliate. Tuttavia non si deve neppure avere
fretta e liquidare questa strategia come già fallita sulla base di qualche
episodio di malcostume episcopale in Italia. In Polonia, in Slovacchia, in
Portogallo i vescovi sono intervenuti su leggi ispirate all’ideologia del
gender con documenti molto puntuali. Papa Francesco vuole appunto questo. Il 2
dicembre 2013, ricevendo in visita ad limina i
vescovi olandesi, molto criticati dai loro fedeli per il
silenzio su eutanasia e ideologia di genere, il Papa li ha strigliati
ricordando che i vescovi devono «essere presenti nel dibattito pubblico, in
tutti gli ambiti nei quali è in causa l’uomo», citando «i dibattiti sulle
grandi questioni sociali riguardanti per esempio la famiglia, il matrimonio, la
fine della vita».
A Malta, dove si discutono leggi sulle unioni civili e le adozioni omosessuali, i vescovi avevano inizialmente pubblicato un comunicato molto timido, dove si nascondevano dietro il «Chi sono io per giudicare?» del Pontefice. Mons. Charles Scicluna, vescovo ausiliare di Malta – non un passante, ma la persona che fino al 2012 alla Congregazione per la dottrina della fede si è occupato come Promotore di giustizia dei casi dei preti pedofili – ha riferito di avere fatto visita al Papa, che si è detto «scioccato» (shocked) per gli sviluppi maltesi in tema di coppie omosessuali e ha esortato i vescovi a reazioni ben più incisive. Le posizioni durissime del Papa come arcivescovo di Buenos Aires sul «matrimonio» e le adozioni omosessuali risalgono a tre anni e qualche mese fa, 2010, non a «dieci anni fa» come scrive, sbagliando, Palmaro. La nozione pontificia di delega agli episcopati non è arrivata a Mazara del Vallo, dov’è vescovo mons. Mogavero, ma altrove in Europa – e negli Stati Uniti – funziona.
A Malta, dove si discutono leggi sulle unioni civili e le adozioni omosessuali, i vescovi avevano inizialmente pubblicato un comunicato molto timido, dove si nascondevano dietro il «Chi sono io per giudicare?» del Pontefice. Mons. Charles Scicluna, vescovo ausiliare di Malta – non un passante, ma la persona che fino al 2012 alla Congregazione per la dottrina della fede si è occupato come Promotore di giustizia dei casi dei preti pedofili – ha riferito di avere fatto visita al Papa, che si è detto «scioccato» (shocked) per gli sviluppi maltesi in tema di coppie omosessuali e ha esortato i vescovi a reazioni ben più incisive. Le posizioni durissime del Papa come arcivescovo di Buenos Aires sul «matrimonio» e le adozioni omosessuali risalgono a tre anni e qualche mese fa, 2010, non a «dieci anni fa» come scrive, sbagliando, Palmaro. La nozione pontificia di delega agli episcopati non è arrivata a Mazara del Vallo, dov’è vescovo mons. Mogavero, ma altrove in Europa – e negli Stati Uniti – funziona.
Sulle strategie, che non sono materia di
fede, si può certamente discutere. Ma senza leggere il Papa attraverso
Scalfari, e nella «Evangelii gaudium» ponendo attenzione anche al passaggio
dove Francesco denuncia «un indebolimento del senso del peccato personale e
sociale e un progressivo aumento del relativismo, che danno luogo ad un
disorientamento generalizzato» (64). «Mentre la Chiesa insiste sull’esistenza
di norme morali oggettive, valide per tutti» (ibid.), il relativismo secondo il
Papa «finisce per portarci ad una tremenda superficialità al momento di
impostare le questioni morali» (ibid.). Altro che apologia del relativismo e
abolizione del peccato!
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