La prova cruciale,
quella in cui si capirà di che stoffa è fatto Matteo Renzi, non è quella di
questi giorni. Il test vero, per il sindaco di Firenze, arriverà quando dovrà
affrontare in campo aperto i sindacati (soprattutto la Cgil) e l’ostinato
conservatorismo dei suoi compagni di partito in materia di mercato del lavoro,
tasse, spesa sociale.
Ossia sulle cose che il
70% dei cittadini giudicano altrettanto o più importanti del cambiamento delle
regole del gioco politico (sondaggio Ipsos pubblicato ieri dal «Corriere della
Sera»). Vedremo allora se la cautela fin qui mostrata da Renzi, in particolare
al momento della presentazione del «Jobs Act», cederà il passo a un
atteggiamento più risoluto. Lo speriamo, perché la prima cosa che gli italiani
si aspettano dalla politica non è una nuova legge elettorale, ma la possibilità
di creare e trovare lavoro.
Detto questo, però, come
non godersi lo spettacolo di questi giorni?
Sul cambiamento delle
regole, Renzi ha fatto in 3 giorni più di quello che i politici politicanti
hanno fatto in 31 anni, ossia dall’insediamento della commissione Bozzi sulle
riforme istituzionali (1983). Ma soprattutto lo ha fatto in un modo che, per la
sinistra, è del tutto nuovo. Con Renzi la sinistra si è riappropriata del linguaggio naturale, e con questa
sola mossa ha cancellato un handicap formidabile che l’ha sempre condizionata
nel confronto con la destra. Fino a ieri l’intero establishment di sinistra ha sempre parlato in codice, usando
concetti astratti, formule vuote, espressioni allusive, perfettamente
comprensibili agli addetti ai lavori ma drammaticamente lontane dalla vita e
dalla sensibilità delle persone comuni. Per capirli, per capire che cosa
veramente avessero inteso dire, per capire che cosa effettivamente fossero
intenzionati a fare, ci voleva l’interprete. E per interagire con loro si
doveva conoscere le buone maniere del linguaggio politico, quel dire e non
dire, accennare e far intendere, lusingare e velatamente minacciare, ma sempre
educatamente, sempre con il dovuto sussiego, sempre con il necessario bon ton
intra-casta. Parole di nebbia, le
aveva chiamate Natalia Ginzburg fin dai primi Anni 80. Parole che rendevano i
politici di sinistra dei veri marziani agli occhi della gente comune.
E’ anche per questo che,
quando Berlusconi scese in campo nel 1994, per i politici di sinistra (e non
solo per loro) fu un vero shock. Berlusconi parlava in linguaggio naturale. Si
poteva ascoltare senza l’interprete. Esattamente come Renzi oggi. Renzi non
parla in codice, non conosce le buone maniere del dibattito politico, se ne
infischia dei balletti e dei cerimoniali dei suoi compagni di partito. Si
lascia scappare battutacce, usa l’ironia e qualche volta il sarcasmo, è del
tutto privo di quella sorta di omertà, o patto di non aggressione, che vige fra
i professionisti della politica. Come se lui facesse un altro mestiere, e
quindi non si sentisse in alcun modo vincolato alle regole di deferenza che
derivano dall’affinità. I politici del Pd, offesi da Renzi, sembrano nobildonne ingioiellate che incontrano
sulla loro strada il tamarro di turno: come in un film di Checco Zalone, loro
porgono languidamente la mano per il baciamano, lui risponde con una pacca
sulle spalle e passa allegramente oltre.
Tutto questo è
tremendamente spiazzante per i vecchi mandarini del suo partito, ma anche per
molti quarantenni. Addestrati a parlare e agire in codice, abituati a tradurre
ogni parola, a interpretare ogni comportamento, non sanno che pesci pigliare
quando uno come Renzi la smette di menare il can per l’aia. Ma soprattutto sono
imbarazzati, politicamente imbarazzati. Dal momento che Renzi comunica come
Berlusconi, e per vent’anni i dirigenti della sinistra si erano vantati di non
parlare come lui, ed erano persino arrivati a bollare il modo di comunicare di
Berlusconi come segno inequivocabile di rozzezza-demagogia-populismo, diventa
un bel problema ritrovarsi con un leader che, almeno in questo, assomiglia al
loro peggiore nemico. Non avendo voluto capire a suo tempo che alcuni difetti
di Berlusconi, come il parlar chiaro e la vocazione decisionista, potevano
anche essere delle virtù, sono ora in difficoltà ad accettarle quando si
ripresentano in uno dei loro, il neo-eletto segretario del Pd.
Si potrebbe supporre che
tutto ciò sia un guaio per i politici di lungo corso del Pd, e non per Renzi,
che dopotutto tra frizzi, lazzi e fuochi d’artificio si trova perfettamente a
proprio agio. E tuttavia la conclusione sarebbe affrettata, e troppo
ottimistica, a mio parere. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre,
l’oscurità del linguaggio, per la sinistra, non è affatto un optional.
Specialmente negli ultimi venticinque anni, dopo la svolta della Bolognina di
Occhetto (1989), ossia da quando la sinistra ha provato a diventare riformista,
un certo grado di ambiguità e furberia nella lingua è stato lo strumento con
cui gli eredi del comunismo hanno cercato di preservare la propria unità e,
talora, di allargare il proprio consenso. E’ solo in virtù di tale uso
spregiudicato della lingua che, per oltre vent’anni, è stato possibile
nascondere, dissimulare, attenuare le profonde differenze fra le varie anime
della sinistra. Le 281 pagine di programma di Prodi nel 2006, così come i
confusissimi 11 punti di Bersani nel 2013, non erano figli di modesti
consulenti, o di pessimi uffici studi. No, quelle «parole di nebbia», come le
avrebbe definite Natalia Ginzburg, erano il mezzo più idoneo per restare uniti
nonostante i dissensi, l’unico modo di tenere insieme Prodi e Bertinotti,
Veltroni e Vendola, Mastella e Padoa-Schioppa. Da questo punto di vista, è
molto riduttivo sostenere – come usano fare i riformisti-doc – che l’unico
collante della sinistra in questi venti anni sia stato l’antiberlusconismo: no,
cari riformisti, la sinistra di collanti ne ha avuti due, uno era
l’antiberlusconismo, l’altro il parlare per concetti vaghi, quella malattia della
lingua che Raffaele La Capria ha definito «concettualismo degradato di
massa».
Ecco perché, per Renzi,
la strada potrebbe essere in salita. Se Renzi parlerà chiaro su tutto, e non
solo sulla legge elettorale, le divisioni dentro il Pd non saranno più
occultabili con la nebbia della lingua, e il partito potrebbe spaccarsi.
Specialmente sul mercato del lavoro, il conflitto fra sinistra conservatrice e
sinistra modernizzatrice non potrà che venire allo scoperto. Credo sia questo
il motivo per cui, un paio di settimane fa, sul Codice semplificato del lavoro
di Ichino la sua risposta alla mia domanda (perché non vararlo subito?) sia
stata così debole, così elusiva. Suppongo che Renzi non abbia troppa fretta sul
mercato del lavoro perché vuole aspettare di aver il partito in mano prima di
iniziare le battaglie politicamente più difficili (creare posti di lavoro è più
difficile, ancora più difficile, che cambiare le regole del gioco).
E’ una cosa che capisco
benissimo. Purché non si perda di vista il nodo fondamentale: dopo 7 anni di
crisi, con milioni di posti di lavoro perduti, gli italiani non si
accontenteranno di un cambiamento delle regole del gioco
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