UNA RICETTINA ANTICLERICALE
PER AVERE SUCCESSO
Sorrentino è tutto fuorché un “maestro” del cinema. Non ha nulla da insegnare a nessuno, a parte questo: che a sparare contro la Chiesa e contro l’Italia – nazione che ha il torto di essere ancora troppo cattolica – qualche premio te lo porti a casa
di Giovanna Jacob da
La Nuova Bussola quotidiana
E’
ufficiale: La grande bellezza di Paolo Sorrentino è un film
che piace molto sia al pubblico che alla
critica internazionale. Infatti, domenica 12 gennaio, Paolo Sorrentino ha
ricevuto un Golden Globe durante la 71ª edizione della cerimonia di premiazione
dei Golden Globe, che ha avuto luogo al Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills.
Sebbene il mio parere non conti nulla, a mio avviso Sorrentino si merita in
pieno non soltanto il Golden Globe ma anche l’Oscar per il migliore film
straniero, ed è sempre più probabile che lo riceva. Se lo merita perché La
grande bellezza non è affatto un capolavoro. I veri amanti del cinema sanno
bene che è difficilissimo che un vero capolavoro degno di entrare nella storia
del cinema possa vincere un Golden Globe o un Oscar. Per sincerarsene, basta
dare una scorsa ai titoli insigniti dei suddetti premi negli ultimi
cinquant’anni. Quanti di questi titoli hanno resistito alla prova del tempo?
Quanti meritano l’appellativo di capolavori assoluti? Non molti. E quanti geni
riconosciuti del cinema hanno potuto stringere una statuetta d’oro fra le mani?
Per fare un solo esempio, il sommo Stanley Kubrick è stato candidato per 13
volte al Premio Oscar, vincendolo solo nel 1969 per gli effetti speciali di 2001:
Odissea nello spazio. Oh tempora o mores.
Quello
che gli appassionati sanno ma non dicono è
che “Golden Globe” e “Oscar” sono sinonimi di cinema commerciale che sembra
cinema d’arte. Ebbene, La grande bellezza è esattamente un film commerciale che
sembra un film d’arte. È un film progettato a tavolino per mietere premi al di
fuori dell’Italia, specialmente dalle parti di Hollywood. In quel film c’è
infatti tutto quello che serve per piacere al pubblico e alla critica
internazionale, specialmente alla critica “liberal” statunitense: uno stile
manieristico ed eclettico che assorbe spunti da Federico Fellini e da Terrence
Malick, la caricatura pittoresca e grottesca dell’Italia e degli italiani e
infine un anticlericalismo, anzi anticattolicesimo, becero soffuso di
anti-italianismo.
A
mio parere, per quanto possa contare il mio parere, Sorrentino è un manierista che nasconde la debolezza della sua ispirazione
sotto un manto barocco (nel senso di Giovan Battista Marino, non di Gian
Lorenzo Bernini) di retorica registica. Subito dopo i titoli di testa appare
una scritta: «Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario: ecco la sua
forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose: è tutto
inventato. Celine». Ostentando questa solenne citazione letteraria, il regista
confessa di volersi misurare con i più grandi abitatori del Parnaso letterario
e cinematografico. E in effetti, in questo film Sorrentino affronta i temi più
elevati: la bellezza, l’amore, la morte, la giovinezza, la vecchiaia, la vanità
mondana, l’ambizione… Ma più che affrontarli, Sorrentino li enuncia. Di
bellezza, amore, morte e tutto il resto grondano infatti i monologhi declamati
da Servillo, troppo lunghi per essere cinematografici e troppo sciatti per
essere letterari. Nel complesso il film appare congestionato da troppe parole,
che insieme formano un chiacchiericcio pseudo-letterario sotto cui si
sedimentano le immagini non troppo belle di un film fallito.
Sorrentino
è troppo sgamato per non sapere che, per piacere all’estero, un regista italiano deve fare riferimento a Federico
Fellini, di cui oltretutto nel 2013 cadeva il ventennale della morte. Dice ad
esempio Richard Heuze, corrispondente di “Le Figaro” in Italia da più di trenta
anni: «Se vuoi essere apprezzato devi fare pensare a Fellini e ad altri grandi.
Per questo sono sicuro che La grande bellezza di Sorrentino avrà un grande
successo nel mio paese» (F. L. Zanardi, Cosa aspettate a fare un film
su Berlusconi?, “Il venerdì”, 5 luglio 2013). In sostanza, i critici
stranieri ritengono che gli italiani di oggi siano incapaci di creare qualcosa
di nuovo.
E
nel film di Sorrentino di riferimenti a Fellini ce ne sono fin troppi. Potrebbe essere addirittura letto come una
enciclopedia di citazioni felliniane. Inutile dire Jep Gambardella è, in
maniera fin troppo esplicita, una sorta di reincarnazione cinematografica dei
personaggi interpretati da Marcello Mastroianni in La dolce vita, Otto
e mezzo e pure in La città delle donne.
E
veniamo all’anti-clericalismo becero di Sorrentino. Sorrentino da una parte cerca di fare il regista
internazionale e dall’altra cerca di dare al pubblico internazionale quello che
il pubblico internazionale vuole dai registi italiani di oggi: cartoline folkloristiche
dell’Italia dipinte in stile Fellini. Ma soprattutto, Sorrentino non si
dimentica mai di mettere nei suoi film i luoghi comuni folkloristici
sull’Italia che tanto piacciono al pubblico cui cerca disperatamente di
piacere. Nel Divo (Ita/Fra, Colore, 110’, 2008) Sorrentino
rappresenta l’Italia così come se la immaginano gli stranieri, specialmente
dopo lo scandalo del bunga bunga: marcia, corrotta, mafiosa e
governata da mafiosi. Mancava solo la pizza e il mandolino. E
l’anticlericalismo vuoto di La grande bellezza è esattamente
un luogo comune sull’Italia, che per gli anglosassoni è una nazione marcia,
corrotta e mafiosa a causa del cattolicesimo.
I
personaggi del cardinal Bellucci (interpretato
da Roberto Herlitzka), della “santa” (interpretata da Giusi Merli) e
l’assistente della santa (interpretato da Dario Cantarelli) sono peggio che
imbarazzanti. Il cardinale Bellucci sembra meno interessato a Dio e al diavolo
che all’alta cucina. Egli si interessa in particolare alla cottura delle carni,
che è una allusione facile, alla portata degli spettatori meno avveduti, ai
“piaceri della carne”. E a proposito di piaceri della carne, la scena in cui
una suora di clausura, nel corso di un incontro con la santa, lancia un sorriso
smagliante ad un bel giovane di colore, membro della delegazione di una tribù
africana, ha la stessa intensità satirica di una barzelletta che non fa ridere.
Il messaggio è chiaro e gradito al pubblico internazionale ex protestante,
specialmente anglosassone, cui Sorrentino cerca disperatamente di piacere: i
religiosi sono dei repressi nevrotici. Quando Gambardella domanda al cardinale:
«Eminenza, è vero che lei da giovane faceva l’esorcista?», il volto del
cardinale sprofonda in un chiaroscuro tenebroso. Il messaggio è chiaro e gradito
al pubblico di cui sopra: vero diavolo è chi fa credere al popolo che il
diavolo esiste. Fanno pendant al vescovo-cuoco le tante figure
di religiosi, e specialmente religiose, che vedi aggirarsi per la Roma di
Sorrentino con sguardi derisori e infidi. Il messaggio è chiaro e gradito
eccetera: la religione organizzata è un inganno.
Quando
appare la “santa”, una sorta di caricatura di madre Teresa di Calcutta, il film sprofonda nella farsa. Il suo volto è
devastato da una infinità di rughe, la sua bocca si apre solo per mostrare
gengive quasi completamente nude, dai suoi occhi trasuda una demenza senile ad
uno stadio molto avanzato. D’altra parte, la giovane suora che guarda alla
santa con mistico e sofferto entusiasmo, sgranando occhi cerchiati per troppe
veglie di preghiera, non appare tanto più lucida. Il messaggio è chiaro e
gradito eccetera: per avere fede, speranza e carità bisogna essere irrazionali.
Fa
da contraltare alla sepolcrale santa e alla giovane suora esaltata la ragazzina vestita da suora per la
prima comunione che sorride malinconicamente a Gambardella tenendo le mani
sulle sbarre del cancello di un istituto di suore, quasi fossero sbarre di una
prigione. Insieme agli altri ragazzini, ride alla vista di un cagnolino che
tenta di liberarsi da un guinzaglio elastico. E qui i simbolismi telefonati si
sprecano: la ragazzina simboleggia l’innocenza e il candore del bambino e
dell’uomo primigenio (il “buon selvaggio” di Rousseau), l’istituto in cui
sembra prigioniera simboleggia la civiltà, il cagnolino simboleggia la natura
da cui l’uomo civile si separa, corrompendosi1. La civiltà comprende
sia la religione organizzata, che nell’ottica di Rousseau reprimerebbe i
desideri e gli istinti, sia la cultura e l’economia, che nell’ottica di
Rousseau creerebbero falsi bisogni e nutrirebbero vane ambizioni.
Ma
torniamo alla santa.
Sebbene faccia fatica a reggersi in piedi, la santa cura i malati con energica
sollecitudine nella sua missione in Africa ed inoltre vuole salire in ginocchio
la Scala Santa, mentre Gambardella, che in piedi ci sta benissimo, non vuole
salirla perché non vuole rovinarsi le ginocchia. Il messaggio è chiaro e
gradito al pubblico internazionale ex protestante, specialmente anglosassone
eccetera: la fede chiede sacrifici inutili e controproducenti, è più saggio
divertirsi. Infine la santa, che in Africa vive in povertà, è costretta ad
alloggiare in un hotel di super lusso a Trinità dei Monti. Il messaggio è
chiaro, gradito al pubblico di cui sopra e pure ai luterani del Sedicesimo
secolo: la Chiesa predica bene la povertà ma poi razzola male nelle ricchezze
estorte ai poveri.
Insomma,
Sorrentino è tutto fuorché un “maestro” del cinema. Non ha nulla da insegnare a nessuno, a parte questo:
che a sparare contro la Chiesa e contro l’Italia – nazione che ha il torto di
essere ancora troppo cattolica – qualche premio te lo porti a casa.
- Il bersaglio polemico di Jean-Jacques Rousseau è
il dogma del peccato originale. La sua celebre tesi è che l’uomo
nascerebbe buono e sarebbe reso cattivo dalla società. Scrive ad esempio in una
lettera a Malesherbes: «[…] l’homme est bon naturellement et… c’est par
ces institutions seules que les hommes deviennent méchants» (Roussea à
Malesherbes, 12 janvier 1762, C. G., n° 1249, t. VII, p. 51).
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