Terza lezione del PERCORSO sul discorso del Papa a Cesena
di
Ivo Colozzi
L’espressione bene comune è ormai desueta, nel
senso che al di fuori della DSC nessuno la utilizza più. Sentiamo parlare,
invece, di beni pubblici, interesse generale, beni comuni (al plurale), bene
collettivo. Tutte queste espressioni non sono sinonimi, ma rappresentano,
piuttosto, visioni antropologiche e sociali concorrenti, legate a
filosofie/ideologie (ad es. il liberalismo, l' utilitarismo, il socialismo) che
la Chiesa prima ha condannato e che, successivamente, ha tentato di correggere,
proprio attraverso l' elaborazione della DSC.
Cosa intende come “bene comune” la DSC
Il concetto di bene comune è uno dei “principi
permanenti della DSC” (160)[1], assieme a: dignità della
persona umana, sussidiarietà, solidarietà.
La definizione/concezione del bene comune è
delineata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC, n. 1905-1912) e nel
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (CDS n. 164-170). Sulla base di
questi testi possiamo dire che:
(a) il bene comune è il legame sociale (la relazione) che unisce insieme le persone. (CDS n. 165)
(a) il bene comune è il legame sociale (la relazione) che unisce insieme le persone. (CDS n. 165)
(b) il bene comune,
quindi, non consiste né in uno stato di cose, nè in una somma di singoli beni,
ma coincide con «le condizioni di tutta la vita sociale che permettono ai
gruppi, nonché ai singoli membri, di raggiungere completamente e rapidamente la
propria perfezione ». (Gaudium et Spes, 26);
c) in breve: il bene
comune rappresenta la dimensione sociale e comunitaria del bene morale, il bene
comune è il bene morale di ogni relazione sociale. (CDS n. 164). Così formulato, il principio del bene
comune cosa chiede alla comunità politica? (CDS n.168, 169)
Come si vede, siamo molto
lontani dalle posizioni liberiste di chi sostiene che si deve lasciare ad ogni uomo la libertà di
perseguire la propria idea di bene, col solo limite del rispetto della libertà
altrui, perché la “mano invisibile” del mercato produrrà, attraverso un
misterioso processo di combinazione, non un mondo perfetto, ma il migliore dei
mondi possibili. Siamo, però, lontani anche dalle posizioni utilitariste o
neoutilitariste, secondo le quali sono buone quelle norme o quelle politiche
che producono il benessere dei più dal punto di vista di un osservatore
imparziale (Smith), e da quelle hegeliane che legittimano l’intervento
perequativo e redistributivo dello Stato
a partire dall’inevitabile particolarismo dei singoli e delle aggregazioni
sociali che non possono non scontrarsi perché riescono solo a perseguire i
propri interessi particolari.
Il bene comune per la DSC è anche e soprattutto
il vivere bene tra cittadini, ossia il vivere secondo giustizia e nell’amicizia
civile, che comporta la giustizia. (CDS. 167) Vivere bene nella giustizia è
frutto di un insieme di virtù che lo Stato non può produrre coi suoi mezzi, ma
che i cittadini acquisiscono nella società e tramite la società, in particolare
tramite la famiglia e l’impegno nelle formazioni sociali intermedie. Lo Stato,
quindi, per la DSC non è mai Stato etico, soggetto chiamato ad imporre la morale
e l’ordine ad una società intrinsecamente disordinata e particolaristica. Il
compito dello Stato, piuttosto, è di sostenere e promuovere i soggetti sociali
che favoriscono lo sviluppo delle virtù indispensabili alla realizzazione del
bene comune e di usare la legge per sanzionare i comportamenti e gli atti che
violano la giustizia e il bene comune. Quindi lo Stato giusto è lo Stato
sussidiario, cioè quello che promuove la sussidiarietà verticale e orizzontale.
Quali siano le condizioni
e le misure “che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e
nelle associazioni”, cioè nella società, “il conseguimento più pieno e più
rapido della loro perfezione” non si può definire una volta per tutte. Dipende dalle esigenze delle persone e dalle
circostanze storiche.
Esistono, però, alcune “indicazioni di fondo”, che sono
irrinunciabili. (CDS 166) Quindi, la traduzione concreta del principio del bene
comune va individuata nelle varie epoche tramite un’indagine razionale di tipo
induttivo ed è una scelta che può essere modificata al cambiare delle
condizioni e delle circostanze.[2] Questo è il punto più
delicato. Il pensiero dominante, infatti, ritiene che le diverse concezioni del
bene, specie in una società multietnica e multiculturale, siano reciprocamente
incompatibili e che il conflitto tra di esse sia razionalmente irrisolvibile,
per cui propone la prospettiva della democrazia procedurale, in cui il criterio
di verità delle norme coincide col rispetto delle procedure formalmente
previste dai regolamenti politici.
Tale posizione dà per scontata l’incapacità
dei singoli uomini e donne di
confrontare le proprie idee di vita buona e di arrivare, attraverso il
dialogo pubblico, ad una comune formulazione delle regole che consentono a
ciascuno di realizzare meglio il vero bene umano. Ma senza una vera
condivisione, le regole rischiano di essere percepite come un arbitrio e
diviene difficile trovare le ragioni per rispettarle e farle rispettare. Se
vogliamo evitare una deriva autoritaria o, all’opposto, di dover rinunciare
all’idea regolativa della giustizia, dobbiamo riprendere la strada della
ricerca del bene comune.
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