mercoledì 17 gennaio 2018

CHE COSA SIGNIFICA BENE COMUNE?

Terza lezione del PERCORSO sul discorso del Papa a Cesena
di  Ivo Colozzi

Premessa
 L’espressione bene comune è ormai desueta, nel senso che al di fuori della DSC nessuno la utilizza più. Sentiamo parlare, invece, di beni pubblici, interesse generale, beni comuni (al plurale), bene collettivo. Tutte queste espressioni non sono sinonimi, ma rappresentano, piuttosto, visioni antropologiche e sociali concorrenti, legate a filosofie/ideologie (ad es. il liberalismo, l' utilitarismo, il socialismo) che la Chiesa prima ha condannato e che, successivamente, ha tentato di correggere, proprio attraverso l' elaborazione della DSC.

 Cosa intende come “bene comune” la DSC
 Il concetto di bene comune è uno dei “principi permanenti della DSC” (160)[1], assieme a: dignità della persona umana, sussidiarietà, solidarietà.
La definizione/concezione del bene comune è delineata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC, n. 1905-1912) e nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (CDS n. 164-170). Sulla base di questi testi possiamo dire che:
(a) il bene comune è il legame sociale (la relazione) che unisce insieme le persone. (CDS n. 165) 
(b) il bene comune, quindi, non consiste né in uno stato di cose, nè in una somma di singoli beni, ma coincide con «le condizioni di tutta la vita sociale che permettono ai gruppi, nonché ai singoli membri, di raggiungere completamente e rapidamente la propria perfezione ». (Gaudium et Spes, 26);
c) in breve: il bene comune rappresenta la dimensione sociale e comunitaria del bene morale, il bene comune è il bene morale di ogni relazione sociale. (CDS n. 164). Così formulato, il principio del bene comune cosa chiede alla comunità politica? (CDS n.168, 169)

Come si vede, siamo molto lontani dalle posizioni liberiste di chi sostiene che  si deve lasciare ad ogni uomo la libertà di perseguire la propria idea di bene, col solo limite del rispetto della libertà altrui, perché la “mano invisibile” del mercato produrrà, attraverso un misterioso processo di combinazione, non un mondo perfetto, ma il migliore dei mondi possibili. Siamo, però, lontani anche dalle posizioni utilitariste o neoutilitariste, secondo le quali sono buone quelle norme o quelle politiche che producono il benessere dei più dal punto di vista di un osservatore imparziale (Smith), e da quelle hegeliane che legittimano l’intervento perequativo e redistributivo dello  Stato a partire dall’inevitabile particolarismo dei singoli e delle aggregazioni sociali che non possono non scontrarsi perché riescono solo a perseguire i propri interessi particolari. 
Il bene comune per la DSC è anche e soprattutto il vivere bene tra cittadini, ossia il vivere secondo giustizia e nell’amicizia civile, che comporta la giustizia. (CDS. 167) Vivere bene nella giustizia è frutto di un insieme di virtù che lo Stato non può produrre coi suoi mezzi, ma che i cittadini acquisiscono nella società e tramite la società, in particolare tramite la famiglia e l’impegno nelle formazioni sociali intermedie. Lo Stato, quindi, per la DSC non è mai Stato etico, soggetto chiamato ad imporre la morale e l’ordine ad una società intrinsecamente disordinata e particolaristica. Il compito dello Stato, piuttosto, è di sostenere e promuovere i soggetti sociali che favoriscono lo sviluppo delle virtù indispensabili alla realizzazione del bene comune e di usare la legge per sanzionare i comportamenti e gli atti che violano la giustizia e il bene comune. Quindi lo Stato giusto è lo Stato sussidiario, cioè quello che promuove la sussidiarietà verticale e orizzontale.
Quali siano le condizioni e le misure “che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni”, cioè nella società, “il conseguimento più pieno e più rapido della loro perfezione” non si può definire una volta per tutte.  Dipende dalle esigenze delle persone e dalle circostanze storiche. 

Esistono, però, alcune “indicazioni di fondo”, che sono irrinunciabili. (CDS 166) Quindi, la traduzione concreta del principio del bene comune va individuata nelle varie epoche tramite un’indagine razionale di tipo induttivo ed è una scelta che può essere modificata al cambiare delle condizioni e delle circostanze.[2] Questo è il punto più delicato. Il pensiero dominante, infatti, ritiene che le diverse concezioni del bene, specie in una società multietnica e multiculturale, siano reciprocamente incompatibili e che il conflitto tra di esse sia razionalmente irrisolvibile, per cui propone la prospettiva della democrazia procedurale, in cui il criterio di verità delle norme coincide col rispetto delle procedure formalmente previste dai regolamenti politici. 
Tale posizione dà per scontata l’incapacità dei singoli uomini e donne di   confrontare le proprie idee di vita buona e di arrivare, attraverso il dialogo pubblico, ad una comune formulazione delle regole che consentono a ciascuno di realizzare meglio il vero bene umano. Ma senza una vera condivisione, le regole rischiano di essere percepite come un arbitrio e diviene difficile trovare le ragioni per rispettarle e farle rispettare. Se vogliamo evitare una deriva autoritaria o, all’opposto, di dover rinunciare all’idea regolativa della giustizia, dobbiamo riprendere la strada della ricerca del bene comune.





[1]              I numeri tra parentesi si riferiscono ai paragrafi del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (2004) in cui compaiono le parole citate.
[2]              Cfr. su questi aspetti J. Maritain, 1951. 

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