ESISTE ANCORA UN POPOLO?
«Il popolo, che si riconosce in un ethos e in una cultura propria, si
attende dalla buona politica l difesa e lo sviluppo armonico di questo
patrimonio e delle sue migliori potenzialità» (papa Francesco). –
Cesena, 29 novembre 2017.
Il tema che mi è
stato affidato è molto difficile e complesso. Provo a impostarlo, se non a
svolgerlo, chiarendo innanzitutto il significato delle parole che trovate nel
sottotitolo: popolo, ethos e cultura. Chiarire e approfondire il significato delle parole è
fondamentale. Buona parte degli errori che facciamo nel pensare e nel
comunicare dipendono proprio dalla confusione e dagli equivoci sul senso delle
parole. E oggi la confusione è al massimo.
1. Popolo come unità
di tutti (unitotalità).
Partiamo
dall'etimologia della parola popolo.
Deriva ovviamente dal latino populus
che a sua volta potrebbe secondo alcuni (G.Devoto) risalire a una parola etrusca, *Poplu, col significato di “schiera
armata”, mentre secondo altri deriverebbe da una radice
indoeuropea *pal «che esprime
il concetto di riunire, mettere insieme», In greco abbiamo ad esempio πλῆθος = folla. In latino il collegamento può essere con plenus. In tedesco abbiamo, con
l'aspirazione della consonante labiale p
in f, la parola voll = pieno (inglese full) ma abbiamo
anche Volk = popolo. Non sono in grado di pronunciarmi
sull'attendibilità di questa etimologia, ma essa è molto suggestiva perché ci
consente di cogliere un primo aspetto fondamentale dell'idea di popolo: quella
di un insieme che comprende tutti, una totalità
che non esclude niente e nessuno. Rousseau: «ciò che non è popolo è
una entità così modesta che non val la pena di tenerne conto». Bismarck: «al popolo apparteniamo
tutti; anch'io ho i diritti del popolo, del popolo fa parte anche sua maestà
l'imperatore, noi tutti siamo il popolo (wir sind alle Volk, und die
Regierungen mit)».
Perché è
così importante questa sottolineatura? Perché l'aspirazione alla totalità, cioè ad una unità che comprenda tutti
(tutti gli uomini, ma in un senso più ampio, tutte le cose, tutti i “pezzi”
della realtà) è un bisogno fondamentale del cuore umano. Questo ci fa capire
come il concetto di popolo sia imprescindibile non solo sul piano sociale, ma
per la persona stessa. Persona e popolo sono infatti due termini correlati: il
popolo è fatto di persone, ma la persona
non può esistere senza il popolo,
perché non può senza un popolo realizzarsi nella propria esigenza di totalità.
Noi
credenti però sappiamo che l'unitotalità
è una proprietà divina. L'impronta teologica dell'idea di popolo, anche se
resta sullo sfondo, del tutto implicita, e addirittura apparentemente negata, è
qualcosa di cui dobbiamo tenere conto. Essa, tra l'altro, ci aiuta a capire
perché quella di popolo può, più
facilmente di altre nozioni, caricarsi di un valore quasi religioso e diventare
un idolo. Conosciamo nella storia diversi esempi di idolatria del popolo.
Affinché
non si pensi che tutto questo è astratto, vediamone un risvolto giuridico. Quando il giudice emette una sentenza,
esordisce con la formula «Nel nome del popolo italiano». Perché? Perché l'art.
1 comma 2 Cost. recita che «La sovranità appartiene al popolo». Ma questo che vuol dire? Vuol dire che
quell'atto, che se ci pensiamo bene dovrebbe sembrarci “scandaloso” (un uomo
decide della vita di un altro uomo), è invece un atto di giustizia perché si
compie “nel nome del popolo”, cioè nel nome di tutti, nessuno escluso, compreso
anche l'imputato. Se non fosse così quell'atto sarebbe di una parte contro un
altra: apparterrebbe cioè all'ordine della politica e della guerra (vendetta),
non all'ordine della giustizia.
2. La molteplicità dei popoli.
Se però proseguiamo l'analisi
della parola popolo ci imbattiamo subito in una complicazione, se non
proprio in una contraddizione: essa, infatti si declina anche al plurale: popoli.
Anzi, ci sono dei casi in cui è obbligatorio usarla al plurale: per esempio, se
ci riferiamo alla totalità degli uomini, non diciamo “il popolo della
terra”, ma “i popoli della terra”. Nella realtà storica del mondo non
esiste (e non ci risulta che sia mai esistito) un solo popolo ma ci sono tanti
popoli. Quando vogliamo parlare dell'intero, diciamo popolazione oppure
parliamo di umanità. Ora, questo sembra contraddire l'aspirazione alla
unitotalità di cui parlavamo prima. La nozione di popolo implica dunque anche
una pluralità, che si riverbera su di essa anche quando la usiamo al singolare:
quando diciamo il popolo, è sempre di un popolo che stiamo
parlando (quindi quell'aspirazione alla totalità viene in qualche modo
smentita).
Come dobbiamo pensare il rapporto tra l'aspirazione alla unitotalità
e la molteplicità dei popoli? Cè un testo capitale su questo, che ha avuto
un'enorme importanza in tutta la storia del pensiero occidentale e su cui
l'esegesi patristica avrebbe molto da dire: è il racconto della costruzione
della torre di Babele, in Genesi 11,1-9.
Tutta la terra
aveva un'unica lingua e uniche parole. 2Emigrando
dall'oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi
si stabilirono. 3Si dissero l'un l'altro:
"Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco". Il mattone servì
loro da pietra e il bitume da malta. 4Poi
dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi
il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". 5Ma il Signore scese a vedere la città e la torre
che i figli degli uomini stavano costruendo. 6Il
Signore disse: "Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un'unica
lingua; questo è l'inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di
fare non sarà loro impossibile. 7Scendiamo
dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua
dell'altro". 8Il Signore li disperse di là
su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9Per
questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la
terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
Che cosa ci dice questo
racconto? Innanzitutto che “all'inizio non fu così”: in origine c'è un solo
popolo, che parla un'unica lingua (quella di Adamo, che è anche la lingua di
Dio, quella con cui Adamo parla con Dio). Questa unità è causa, condizione e al
tempo stesso fine del progetto di costruzione di «una torre la cui cima tocchi
il cielo», che però fallisce per volere di Dio. Perché quel progetto religioso
è sbagliato? Il testo non dice in alcun modo che esso sia intenzionalmente
ostile verso Dio. Dice anzi che gli uomini vogliono raggiungere il cielo e
unirsi sulla terra. Perché dunque dovrebbe essere un male? La risposta è: perché
l'iniziativa della relazione tra Dio e l'uomo non spetta all'uomo ma solo a
Dio. È Dio che inizia, non l'uomo. Qualunque progetto umano di
unitotalità che non prenda le mosse da un'iniziativa di Dio è radicalmente
sbagliato. Noi oggi potremmo dire, in un certo senso, che Babele è un progetto
di unità del popolo, di fraternità di tipo massonico. Il suo fallimento è sì
una punizione di Dio, ma non una vendetta. L'ira di Dio, e le sue punizioni, infatti
sono sempre medicinali, mai solo afflittive.
Guardate che qui noi avremmo un potentissimo criterio di
giudizio culturale, che è naturalmente da articolare ed elaborare, ma ha una
formidabile pertinenza rispetto alla situazione attuale. Perché qui la parola
di Dio ci fa capire che la pluralità dei popoli è un bene. Non un bene in senso
assoluto, ma un bene relativo alla condizione dell'umanità dopo il peccato
originale. I cristiani dovrebbero essere perciò estremamente critici nei
confronti di ogni progetto di unione dell'umanità basato su un ideale e su uno
sforzo umano. Invece mi pare che ci sia una penosa mancanza di lucidità nei
confronti del globalismo, del mondialismo, di tutte le varie manifestazioni
ideologiche “sovranazionali”. Basti pensare come, nonostante tutto, si continui
a dare un credito morale alle organizzazioni internazionali. Ad esempio, si
accetta supinamente che “sotto l'egida dell'ONU” possa essere il criterio
discriminante per giudicare un'azione di politica estera. Non sviluppo questo
argomento, ma lo lascio alla vostra riflessione. NB: naturalmente la mia non è
un'apologia della guerra!
3. Popolo come parte (maggioritaria).
C'è un altro aspetto di
ambiguità nel significato della parola popolo, anche al singolare, che rende
questa parola ancora più problematica nella pretesa di unitotalità che abbiamo
visto costituire il suo valore supremo. Popolo, infatti, si usa sì nel senso di
“tutti-nessuno-escluso”, come abbiamo mostrato, ma si usa anche nel senso di
“molti ma non tutti”, cioè di una parte. Questa ambivalenza c'era già nel
termine latino: ricordate che il nome ufficiale dello stato romano era SPQR: Senatus
PopulusQue Romanus il senato e il popolo romano. Dunque qui populus
non significa il tutto, ma una parte. Dalla stessa radice etimologica pare che
derivi anche un'altra parola latina, che noi tradurremmo con popolo, e cioè plebs.
Qui popolo non significa tutti nessuno escluso, ma una parte maggioritaria, in
contrapposizione ad un'altra minoritaria (i patres). Affine è il campo
semantico di altre parole, greche questa volta, da cui derivano vocaboli
importanti del nostro lessico: demos, da cui “democrazia”, e laos,
da cui “laico”.
Qui è necessario notare subito una cosa: nel momento in
cui popolo designa una parte (o perché si parla di un popolo fra
i tanti o perché si riferisce al demos) viene in primo piano la
questione del criterio con cui si determina la sua identità e la si
distingue dalle altre. E, nello stesso tempo, entra in gioco un giudizio di
valore. Quando si distingue, infatti, si dà sempre un giudizio. Così, ad
esempio, nel pensiero filosofico antico, del popolo-demos e della democrazia
di solito non si pensa molto bene: è famoso l'aneddoto che riguarda uno dei
sette sapienti, Biante di Priene, il quale, richiesto di una frase saggia da
scrivere sul frontone del tempio di Delfi, vi fece incidere: hoi pleistoi
kakoi, «la maggioranza è cattiva». Di qui, tutta una tradizione lunghissima
che arriva fino a noi e si riflette nella semantica di parole come plebe,
volgo, o di esmpressioni come “la gente” (Orazio: «odi vulgus profanum et
arceo»). In età moderna e contemporanea, d'altro canto, siamo forse più
abituati ad un'accezione positiva di popolo, visto come la parte sana della
popolazione, in contrapposizione a qualcun altro, qualificato negativamente in
vario modo (i padroni, la borghesia, i parassiti, l'élite, il governo, i poteri
forti ecc.) ma in ultima analisi sempre con lo stigma di “nemico del popolo”.
La tradizione marxista – che originariamente prende le distanze dal concetto,
idealistico e romantico, di popolo adottando un'altra categoria, quella di classe
– quando poi se ne appropria per ragioni di comunicazione politica (pensate da
noi al “Fronte popolare”, o alle parole di “Bandiera Rossa”), lo usa appunto
con questa connotazione “giudicante” e negativa nei confronti di chi non è
popolo.
Un riflesso molto interessante di questo dato culturale
lo ritroviamo nell'art.1 Cost. dove sottilmente questa ambiguità si ritrova:
«L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità
appartiene al popolo eccetera». La strana formulazione del primo comma deriva
da un giudizioso compromesso rispetto all'istanza marxista di proclamare
l'Italia una “repubblica dei lavoratori”, dalla quale, come nelle “democrazie
popolari” che si stavano costruendo al di là della cortina di ferro, i “parassiti”
sono esclusi come nemici del popolo. Fu importante allora il ruolo della
componente cattolica (La Pira) che portò alla formulazione che venne poi
approvata. Si veda anche come questo influì sul comma due dell'art.4 sul dovere
di lavorare, inteso come obbligo di contribuire al progresso non solo materiale
ma anche spirituale della nazione (La Pira richiamò il caso delle monache di
clausura!). Anche qui ci sarebbero molte riflessioni da fare sull'attualità
politica, che qui non c'è modo di fare. Raccomando solo l'attenzione al
rischio, sempre possibile, del riemergere di una concezione esclusiva di popolo
(il popolo degli onesti, degli intelligenti, dei moderni, ecc. ecc.), con la
conseguente identificazione di un “nemico del popolo” da odiare.
4. Criteri per una definizione di popolo.
Una volta acquisita la
complessità della nozione di popolo, dobbiamo porre la questione del criterio
con cui esso si può definire, distinguendosi dagli altri popoli e/o da ciò che
non è popolo (élite, oligarchia, governo eccetera). È chiaro, infatti,
che non ogni aggregazione più o meno casuale di individui si può considerare
popolo. Lo aveva già detto Cicerone:
Popolo non è ogni
unione di uomini aggregati casualmente, ma l’unione d’una moltitudine legata in
società d’accordo intorno alle stesse leggi e alla necessità di un bene comune.
La prima causa di questa unione è non tanto la debolezza, quanto una forma di
aggregazione direi naturale tra gli uomini, perché essi non sono adatti a
vivere né a spostarsi in solitudine.
«Populus autem non
omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris
consensu et utilitatis communione sociatus. Eius autem prima causa coeundi est non tam inbecillitas
quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio: non est enim singulare nec
solivagum genus hoc» (Cicerone, De republica, 1, 25, 39)
«Populus est humanae
multitudinis, iuris consensu et concordi communione sociatus. Populus autem eo
distat a plebibus, quod populus universi cives sunt, connumeratis senioribus
civitatis. (Plebs autem
reliquum vulgus sine senioribus civitatis). Populus ergo tota civitas est;
vulgus vero plebs est» (Isidoro di Siviglia).
Schematizzando e semplificando, possiamo dire che sono
tre i fattori a cui ci si è agganciati, storicamente, per costituire e definire
l'identità di un popolo.
Uno è di
tipo, per così dire naturale, e fa
riferimento ad elementi come la razza, l'etnia, la stirpe, la consanguineità o,
più genericamente, un'origine comune. Da questo lato, la nozione di popolo è
contigua, o addirittura si sovrappone a quella, appunto di razza. Si veda il caso estremo dell'ideologia del
nazionalsocialismo hitleriano.
Un altro
è di tipo culturale e lega l'identità
del popolo a fatti quali la lingua, le tradizioni, la religione, le memorie
storiche condivise, in cui manifesta lo “spirito del popolo”. Per questo
aspetto, il concetto di popolo tende ad avvicinarsi e addirittura a sovrapporsi
al concetto di nazione.
Un terzo
fattore, infine, può essere quello politico,
per il quale la condensazione di un'identità di popolo avviene come risultato dell'azione
di un sistema di istituzioni politico-territoriali comuni e/o di una comune
volontà politica. Sotto questo profilo, l'idea di popolo viene ad essere quasi
assorbita in quella di stato.
Questi
tre fattori possono naturalmente mescolarsi, come in quei versi di Manzoni che
tutti ricordiamo: «una d'arme, di lingua, d'altare / di memorie, di sangue e di
cor». Diciamo subito, comunque, che dei tre fattori, quello più plausibile è il
secondo, ma dovremo chiarire bene che cosa si intende per cultura, e lo faremo
tra un attimo.
C'è un
ulteriore nota bene da tenere presente: il riferimento a ciascuno di questi tre
elementi può essere reale o puramente ideale, al limite immaginario. La “razza”
o la consanguineità possono essere fittizie (anzi, sappiamo che normalmente lo
sono); i dati storico-culturali pure (gli storici parlano di «invenzione della
tradizione»), e anche l'unità politica può funzionare come catalizzatore di un
popolo anche se è solo vagheggiata. Popolo quindi può essere un concetto ideale
che si cerca di tradurre politicamente in realtà fattuale: vedi un esempio di
questo fenomeno nel nostro Risorgimento: «fatta l'Italia, bisogna fare gli
italiani». Da questo punto di vista, si potrebbe arrivare a dire che in ultima
analisi a fondare l'identità di un popolo è la volontà di esserlo. Popolo è chi
tale vuole essere. A questo proposito c'è una frase famosa di Ernest Renan, che
dice che la nazione altro non è che «un
plebiscito di tutti i giorni».
5. La situazione
attuale: distruzione del popolo e dei popoli.
La frase di Renan
ci dà lo spunto per fare un accenno alla situazione attuale, partendo da
un'evidenza clamorosa: la fine della democrazia, come sistema in cui questa
volontà di essere popolo si manifesta attraverso il voto. Il plebiscito di cui
parlava Renan, non solo non avviene più tutti i giorni, ma vien disertato anche
quando ci sono le elezioni perché il popolo ormai è latitante. Si rifletta sul
fatto, enorme e sorprendentemente poco considerato, che nei paesi occidentali
ormai praticamente nessun governo, è l'espressione di una maggioranza dei
cittadini, spesso neanche della maggioranza di quelli che hanno votato (che
sono sempre di meno). Un dato: dal 1976 al 2013, la percentuale dei votanti
alle elezioni politiche in Italia è passata dal 93,39 % al 72,25 % e si prevede
che alle prossime elezioni sia ancora più bassa, ma nelle elezioni
amministrative siamo ormai abituati a percentuali al di sotto del 50 %. L'altro
giorno a Ostia, al ballottaggio ha votato il 33 %: vuol dire che il cosiddetto
successo grillino (60% dei voti espressi) corrisponde al consenso (di cui una
parte faute de mieux) del 20% della
popolazione.
Non si tratta solo della crisi di un
sistema politico, ma di un sintomo di una vera e propria disgregazione del
popolo, che non è accidentale, ma è il frutto di un'azione portata avanti ormai
da decenni da un potere mondiale. «Perché il potere, oggi (posso anche
sbagliare...) ha come scopo, di fatto, la eliminazione del popolo, in quanto
unità di uomini che ha uno scopo e che identifica i mezzi per raggiungere
questo scopo» (L.Giussani, Affezione e
dimora, p.256). Di fronte al potere, infatti, l'individuo è comunque
perduto.
Al di là della palese frammentazione
politica, si deve riconoscere che quello che manca ormai sono una cultura e un
ethos condivisi dalla maggioranza della popolazione. Occorre a questo punto che
spieghiamo brevemente gli altri due termini del nostro titolo: per cultura non si intende qui, la
conoscenza, l'istruzione, e nemmeno la “concezione del mondo” in senso
puramente teorico, ma piuttosto un sistema complesso che comprende tutte le
attività umane, quindi non solo quelle volte alla conoscenza, ma più ampiamente
tutte quelle con cui l'uomo si relaziona con il mondo. Gli antropologi ci
insegnano che l'uomo è un animale
culturale perché tutti i suoi dispositivi di apprendimento e di adattamento
all'ambiente, cioè tutti i modi con
cui egli entra in rapporto con la realtà esterna, non li desume da se stesso,
dalla sua struttura biologica (istinto), ma li trova all'esterno di sé, nella
comunità in cui vive, cioè, in definitiva nel popolo.
A questo concetto di cultura, si
aggancia strettamente anche la parola ethos,
che è una parola greca e significa propriamente: “abitudine, tradizione,
usanza, costume”, e ne sottolinea la valenza pratica e l'aspetto durativo: ethos di un popolo è l'insieme dei
convincimenti morali, dei comportamenti ritenuti corretti, dei “modi di fare”
accettati, degli habitus in cui gli
appartenenti al popolo si riconoscono. Il discorso sarebbe complesso, ma
proviamo a semplificarlo così: se consideriamo l'insieme delle azioni che
ciascuno di noi può compiere, dalle più semplici alle più complesse, vediamo
che esse si possono distinguere in tre categorie: quelle puramente soggettive,
dipendenti dalla decisione arbitraria e imprevedibile del singolo individuo;
quelle “obbligate” cioè imposte da regole esterne e “oggettive”; infine i
comportamenti “abituali”. Non sono le prime, e in fondo neppure le seconde, che
fanno la cultura di un popolo, ma le terze sì. Faccio un esempio banale: voi
siete qui questa sera ad ascoltare questa lezione. Avete deciso di venire in
base ad una vostra libera decisione, potevate benissimo stare a casa: questa è
un'azione del primo tipo, che dipende esclusivamente da una vostra scelta del
tutto soggettiva. Venendo qui, se avete usato la macchia, aveto compiuto tutta
una serie di azioni che invece erano del tutto determinate da una regola
esterna (codice della strada), in cui non c'è niente di soggettivo. Ora però
siete qui e tutti vi comportate all'incirca allo stesso modo. Perché? Non
perché c'è una norma esterna, cogente, giuridica che vi obbliga a farlo, né
perché facciate una scelta personale: aderite ad un comportamento che è il
“come si fa” in una data circostanza: non vi mettete a camminare per la sala
(anche se magari avete voglia di sgranchirvi le gambe), non mi interrompete,
non parlate ad alta voce col vicino eccetera eccetera. Seguite un habitus, che è al tempo stesso oggettivo
e soggettivo. L'esempio, ripeto, è banale, ma se voi pensate a tutto l'insieme
dei “comportamenti accettati”, dei “come si fa” che sono in essere in una
determinato contesto sociale avete un'idea di quale sia la sua “cultura”. Si
potrebbe fare un esempio molto meno banale se riflettessimo su “come si fa” ad
essere una famiglia, tanto per dire.
Allora potremmo chiederci:
considerando la cultura e l'ethos,
c'è (ancora) una condivisione
sufficientemente ampia da poterci far dire che sì, nonostante tutto, noi
italiani siamo (ancora) un popolo? Per me questa domanda resta aperta, ma il
fatto stesso che siamo costretti a porcela e facciamo una gran fatica a darvi
una risposta la dice lunga. C'e però un'altra domanda ancora più importante,
che invece una risposta ce l'ha. Purtroppo per ragioni di tempo devo solo
accennarla.
6. Il popolo
cristiano, un'«etnia sui generis».
Rispetto a tutto quanto
abbiamo detto, qual è la nostra posizione come cristiani?
Innanzitutto noi siamo un popolo. Quindi la risposta alla domanda del titolo,
che è dubbia se riferita all'Italia (e negativa se riferita all'Europa), è
sicuramente positiva se riferita alla chiesa. A prescindere dal numero: anche
se siamo pochi, anche se fossimo pochissimi (i primi cristiani furono
pochissimi per secoli). Ma perché lo siamo? Per rispondere dobbiamo tornare a
Babele.
Sgominato il progetto di unire tutti
gli uomini in un solo popolo e dare la scalata al cielo, è Dio che prende
l'iniziativa di costituire un popolo. Lo
fa scegliendo Abramo. Si noti bene: la scelta di Abramo non è la scelta di un
individuo, ma di un capostipite, e infatti la prima promessa di Dio è: «farò di
te un grande popolo» (Gen 12,2). Israele è il
popolo, diverso da tutti gli altri perché il suo fattore costitutivo non è
naturale, culturale o politico, ma è l'elezione
divina. Gli altri sono “popoli” al plurale (goym), e qui c'è una differenza qualitativa tra il singolare, che è
qualificante e il plurale, che invece è generico. Però Israele è un popolo
anche in senso culturale e, per un certo periodo della sua storia, anche
politico. Ha una sua lingua, usanze proprie, un suo territorio, ha o aspira ad
avere autonomia politica, eccetera.
Nel caso del popolo cristiano le
cose stanno diversamente. Anche qui è decisivo, come fattore costitutivo del
popolo, non uno dei tre che abbiamo visto sopra, bensì il fatto storico della
libera iniziativa di Dio, con l'incarnazione-morte-risurrezione del Figlio e
soprattutto con la discesa dello Spirito Santo sui discepoli di Gesù e su
Maria. L'origine del popolo cristiano è nell'avvenimento della Pentecoste,
raccontato in Atti 2,1-11 in un modo
che non a caso ci richiama, per opposizione, l'episodio della torre di Babele:
1 Mentre stava compiendosi il giorno
della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2Venne
all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e
riempì tutta la casa dove stavano. 3Apparvero loro lingue come di
fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, 4e
tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue,
nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
5Abitavano allora a
Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. 6A
quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva
parlare nella propria lingua. 7Erano stupiti e, fuori di sé per la
meraviglia, dicevano: "Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? 8E
come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? 9Siamo
Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della
Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, 10della Frìgia
e della Panfìlia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani
qui residenti, 11Giudei e prosèliti, Cretesi e
Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio".
Questo popolo,
dunque, per quanto piccolo e apparentemente marginale (Galilei!), è universale. È l'idea di cattolicità. Abbraccia tutti, comprende
tutti, nessuno escluso. Qui l'unitotalità è realizzata veramente. Si noti: le
parole degli apostoli raggiungono tutti, ma non annullano le differenze
nazionali.
Diversamente dal popolo ebreo, infatti,
questo nuovo popolo di Dio non ha alcun limite politico e culturale. Si
potrebbe dire, come fanno i Padri, che è un popolo non-popolo, diverso da tutti
gli altri. Così si esprime Origene:
Noi
infatti siamo una “non nazione” (Nos enim
sumus non gens), noialtri che in pochi da codesta città, in pochi da
un’altra, in pochi da un’altra ancora, abbiamo creduto; e dall’inizio della
diffusione del messaggio fino ad ora in nessun posto una nazione è giunta
intera alla fede. La stirpe cristiana non è una nazione unica e omogenea come
era la nazione giudaica o quella egiziana, ma si raduna provenendo in modo
sparso dalle singole nazioni. [Origene, hom.
in Ps. 36, I,1]
Ci sono dunque due modi di concepirsi come popolo:
uno ancorato all’idea di possedere un’identità già data, definita
irrevocabilmente, dipendente da una tradizione sedimentata nel passato
(guardate che una certa maniera di parlare delle “radici cristiane” corre il
rischio di essere questo); l’altro che concepisce l'essere popolo come un
processo, una dinamica o, se così possiamo dire prendendo a prestito una
formula sociologica molto nota, uno “stato nascente” in cui il non-popolo è
sempre nella condizione di essere convocato (perciò si definisce come ἐκκλησία, da ἐκκαλέω); o «radunato» (congregantur / συνάγονται) come dice Origene nel passo sopra citato; o
«generato» come ancor più fortemente si esprime in un passo delle Omelie su Geremia.[1] Questa aggregazione è sempre “iniziale”, proprio per il suo essere frutto
dell’azione che Dio compie “oggi” e per la sua essenziale libertà da un retaggio
identitario che la ancora al passato, e ciò pone il popolo di Dio in una
situazione di permanente alterità, se non di contrasto, con tutti i “popoli” in
mezzo ai quali vive e dai quali si distingue. È un paradosso: i cristiani sono
in mezzo agli altri, non hanno marcatori di identità nazionale evidenti che li
distinguano dagli altri (non sono un popolo in quel senso), eppure sono
irriducibilmente diversi dagli altri. È questo il senso di un altro brano
patristico notissimo, dall'Ad Diognetum:
I
cristiani né per paese, né per lingua, né per abbigliamento si distinguono
dagli altri uomini. Non abitano città loro proprie, né parlano una lingua
diversa da quella degli altri, né conducono una vita che sia fuori delle norma.
[...] Ma, pur abitando città greche o barbare, così come a ciascuno è toccato
in sorte, pur uniformandosi ai costumi del luogo nell'abito, nel mangiare e
nella maniera di vivere, danno prova di un modo sorprendente e, come tutti
convengono, paradossale di essere cittadini [politeia: vivere insieme agli altri]. Abitano ciascuno la propria
città, ma come stranieri; partecipano a tutto come cittadini ma si adattano a
tutto come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria; ogni patria è per
loro terra straniera. Come tutti, si sposano e generano figli; ma non gettano
via i loro bambini. Hanno una mensa in comune, ma non il letto. Vivono nella
carne, ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma la loro città è in
cielo. [...] Per dirla in breve: ciò che nel corpo è l'anima, i cristiani lo
sono per il mondo. [V,1-2.4-9.VI,1]
La forma di questo rapporto del popolo cristiano
con tutti gli altri popoli è quella del giudizio,
della krisis, o se si vuole del
discernimento (purché sia chiaro che il discernimento è giudizio e non fuffa).
Non si tratta di sparare sentenze su questo e su quello, ma di porre, nello
spazio politico, il fatto della propria diversità.
Nella
condizione politica attuale, di un'Europa ormai fatta di minoranze, visti
dall'esterno noi siamo una minoranza tra le altre. Che cosa dobbiamo fare?
Essere una minoranza consapevole e una minoranza attiva capace di interagire
con le altre nello spazio politico. Con quale modalità? Non appena quella
della coesistenza/tolleranza, che è riduttiva; non quella della competizione
per l'egemonia, che non ci interessa; ma in quella della krisis intesa come capacità di attivare di una riflessività
relazionale, in cui ciascuno impara a concepire se stesso in relazione con
l'altro, mettendosi in crisi. Esempio della famiglia: occorre che la famiglia
cristiana sia una contestazione permanente dell'abominio che viene perpetrato.
Che ogni matrimonio cristiano che viene celebrato sia un atto di guerra
culturale. Esempio dei rosari di popolo ai confini: in Polonia, in Irlanda ...
Nel nostro
piccolo: il rosario del 20 di ogni mese per i cristiani perseguitati. La
consacrazione a Maria dell'8 dicembre. Sono gesti politici.
Cosa chiedere alla politica? Innanzitutto
di lasciarci liberi. Creare le condizioni perché il rapporto tra le minoranze
sia libero, rispettoso e fecondo. Se fa questo, è già tanto.
[1] In hom. in
Ier. 9,3 (SCh 232, p.384) dove cita ancora Deut. 32,21 in un contesto in
cui dice che non ogni popolo (λαός) che si dice popolo di Dio
lo è veramente. Il popolo ebraico, infatti, avendo tradito Dio con un non-dio,
è stato punito perché Dio lo ha reso geloso di un non-popolo (cioè dei pagani
chiamati alla salvezza). «Noi dunque» prosegue Origene, «siamo divenuti per Dio
un popolo (λαόν) … venuto dalle nazioni (ἀπὸ τῶν ἐθνῶν). Questo popolo, infatti, viene generato (τίκτεται) tutto
insieme (ἀθρόως) …».
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