IL PENSIERO UNICO E IL NUOVO RAZZISMO
L’emergenza pandemica
non è ancora rientrata, anche se almeno in Italia e in Europa segnali
incoraggianti non mancano, che già è prepotentemente tornato al centro della
scena un virus storico, che da decenni,
indisturbato, ammorba l’Occidente: quello del pensiero unico e del
politicamente corretto, in nome del quale le censure non si contano, anzi si
moltiplicano in antitesi ad un razzismo spesso dubbio e, talvolta, del tutto
inventato. A tale proposito, sono almeno tre i casi clamorosi emersi in
questi giorni.
“ALL LIVES MATTER”, IL
TELECRONISTA CACCIATO
Il primo è quello di
Gran Napear, il telecronista dei Sacramento Kings che ha perso il posto di
lavoro semplicemente per aver – ben stuzzicato via Twitter da DeMarcus Cousins,
ex star dei Kings, affinché dicesse la sua sul dibattito e sugli scontri
scatenatosi dopo l’uccisione di George Floyd – osato rispondere con tre parole: «All lives matter», tutte le vite
contano. Come a dire: condivisibile la rabbia e il dolore per la morte di
Floyd, ma ricordiamoci che appunto tutte le vite contano. Anche quelle delle
vittime degli scontri successivi.
Un pensiero di
elementare civiltà, quello di Napear, che però agli occhi di alcuni è suonato
come una contestazione allo slogan caro ai movimenti di contestazione che
stanno mettendo a ferro e fuoco gli Usa – «Black lives matter» -, motivo per
cui, come si diceva, è stato allontanato. Un licenziamento grave e liberticida
che però diventa spiegabile, se si guarda a come gli indignati per la morte di
Floyd siano letteralmente coccolati dai mass media; basti pensare, per fare un
esempio, agli assembramenti di questi contestatori, i soli che a quanto pare
nessuno osa far notare. Ma andiamo avanti.
BIBLIOTECARIO SCRIVE
“WUHAN VIRUS”: RAZZISTA
Un secondo caso di
censura verificatosi in questi giorni – forse meno grave, ma certo non meno
emblematico – è avvenuto alla Winthrop University, un ateneo pubblico della
Carolina del Sud. In questa università, Mark Herring, decano dei servizi
bibliotecari, a pochi giorni dalla pensione, ha visto censurato un proprio
articolo sul numero di aprile di Against the Grain, storica rivista destinata
principalmente ai bibliotecari. Il motivo della censura?
Eccolo: nel suo
articolo, Herring, aveva in modo del tutto innocente osato chiamare il
coronavirus «Wuhan virus», scelta che è
stata giudicata «etnicamente offensiva»; razzista, insomma. Per questo
l’intero intervento è stato cancellato. Il che è doppiamente bizzarro se si
considera che il pezzo di Herring non conteneva alcun incitamento razzista né
particolari bordate alla Cina per come ha gestito o, meglio, non gestito
l’epidemia, almeno al suo inizio.
Semplicemente,
l’articolo censurato si limitava a ricordare da dove proviene il covid-19,
sottolineava che da una crisi può emergere il meglio e il peggio delle persone
ed esortava ad un promemoria su ciò che davvero conta nella vita: nulla di
scandaloso, insomma, anzi. Eppure quel «Wuhan virus», evidentemente, pur
corrispondendo ad un incontestabile dato di realtà, è stato ritenuto
inaccettabile.
FU IL CAMPIONE DELLA LIBERTÀ
Sulla statua di Winston Churchill a
Londra i manifestanti del Black Live Matter hanno scritto "era un
razzista". Il totalitarismo dell'ignoranza, uno sfregio alla memoria
dell'uomo che sconfisse Adolf Hitler e liberò l'Europa dall'oppressione.
"Era un razzista", questa è la scritta che alcuni manifestanti
del "Black Lives Matter" hanno lasciato sulla statua di Winston
Churchill di fronte al Parlamento di Londra. Il ministro dell'Interno, Priti
Patel, ha definito la violenza delle manifestazioni britanniche come
"assolutamemnte vergognosa". Trentacinque agenti di polizia sono
stati feriti nel fine settimana durante le manifestazioni. A Londra, un
manifestante, è salito sul piedistallo di The Cenotaph, il monumento ai caduti
di guerra a Whitehall, e ha appiccato il fuoco alla bandiera dell'Union Jack.
Un campione della libertà oltraggiato, il nome trascinato nel fango
dove sguazzano masse ignoranti, la violenza contro la memoria e l'eroismo, uno
sfregio doloroso a un simbolo della democrazia. Chi ha
sfregiato la statua di Winston Churchill, chi ha scritto su quel monumento la
parola "razzista", ha offeso la memoria di uno dei protagonisti del
Novecento, un eroe della Seconda guerra mondiale, ha danneggiato la giusta
marcia per l'eguaglianza, ha rivelato per sempre la sua infinita ignoranza.
NON SI DISSENTE DALLO
STORYTELLING
Ora, pur nella loro
chiara diversità le vicende citate evidenziano – come si diceva all’inizio – uno stesso paradosso tutto occidentale,
ossia quello di una società che non perde occasione per incensare e sbandierare
la libertà quale valore supremo, salvo poi limitare quella di espressione a chi
viene preventivamente e inappellabilmente accusato di essere razzista o
intollerante. Una contraddizione lampante.
Ma ciò, sia chiaro, non
legittima un atteggiamento di resa, anzi c’è da sperare che raccontare la
portata grave e paradossale di simili episodi possa servire a far aprire i
tanti occhi ancora distratti o chiusi. Perché è decisamente concreto il rischio
che proprio chi reputa simili censure di gravità relativa possa, un domani,
trovarsi a sua volta vittima di quel politicamente corretto le cui derive liberticide, oggi, vengono
invece incautamente sottovalutate.
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