INTERVISTA A ROMANO COLOZZI
Cosa vuol dire essere
ricoverato per Covid-19 e arrivare quasi alla morte? Ce lo racconta un paziente
guarito
“Avevo l’identikit per non guarire, per essere il
classico paziente a rischio: età avanzata, patologie pregresse. Avevo paura di
morire, ma non tanto paura della morte, quanto di non riuscire più a vedere i
miei familiari prima di andarmene”. Romano Colozzi, di Cesena, ex assessore al
Bilancio delle giunte Formigoni, è una delle migliaia di persone colpite dal Covid-19.
Un ricovero lungo più di un mese e poi, improvvisamente, la guarigione, con la
malattia che è andata scemando da sola, “vissuta in totale solitudine, sapendo
di trovarmi davanti a una patologia sconosciuta non solo a me, ma anche ai
medici cui erano affidate la mia vita e la speranza di guarigione”.
Quando e come ha cominciato a sentire i primi
sintomi?
Era il 9 marzo, avevo una semplice febbre che con
la tachipirina scendeva e risaliva, non pensavo assolutamente al coronavirus,
convinto fosse la solita influenza. Questo forse mi ha fatto ritardare un po’
il ricovero. Sono andato avanti con questa febbre per circa una settimana.
Aveva problemi di respirazione?
No, né tosse né raffreddore, l’unica cosa era la
sensazione di respirare a pieni polmoni con difficoltà. La cosa determinante
che mi ha fatto decidere di telefonare al medico di base è che avevo il
saturimetro a casa, l’ho provato e la saturazione era molto bassa. C’era un
problema di ossigenazione, perciò il mio medico ha chiamato l’ambulanza. Al
pronto soccorso mi hanno fatto gli esami e mi hanno ricoverato.
Cosa hanno scoperto?
Dagli esami ai polmoni è risultato che avevo una
polmonite molto rilevante e lì è cominciato un decorso lungo 40 giorni.
Questo ci fa capire come mai tante persone non si
siano rese conto di essere contagiate fino a quando è stato troppo tardi. Il
suo ricovero è avvenuto nel periodo peggiore dell’epidemia. Come è cominciato?
In quel periodo sulle terapie si andava un po’ a
tentativi, mancavano gli elementi utili che sono emersi in seguito.
Era consapevole dei tanti decessi, della
situazione drammatica?
Sì, assolutamente. Quando sono stato ricoverato
era previsto un percorso preciso. All’inizio si entrava in un reparto chiamato
pre-Covid, dove si vedeva come reagiva il paziente. Poi si era trasferiti nel
reparto pre-intensivo, in cui cominciavano a dare un aiuto di ossigeno per
respirare meglio. Nel giro di un giorno e mezzo avevo bisogno di sempre più
ossigeno e mi hanno messo in medicina intensiva.
Dove si usano
i caschi ossigenatori?
Ero in una stanza, sempre da
solo, vedevo solo i medici e gli infermieri quando dovevano fare qualcosa al
mio povero corpo. C’ero solo io non intubato, gli altri erano tutti intubati e
sedati. Il lavoro dei medici è stato quello di evitare di dovermi intubare.
Come?
casco cpap |
Hanno provato in tutti i modi,
perché non c’erano farmaci risolutivi: gli antivirali, poi il farmaco per
l’artrite reumatoide, poi l’eparina, il cortisone. Io non rispondevo a nessuno
di questi. A distanza di otto giorni dal ricovero, eseguendo una radiografia, è
venuto fuori che stavo peggio che all’inizio. Hanno avuto l’impressione che
avrei potuto anche non farcela, che ero davvero in bilico.
Glielo hanno
detto? E come ha vissuto quel momento?
Non ero del tutto lucido, l’ho
scoperto solo quando sono tornato a casa. Prima, ogni tanto, mandavo messaggi
ai familiari e quando sono tornato mia moglie e i miei figli mi hanno detto:
guarda che per cinque giorni non ti sei fatto vivo, per fortuna siamo riusciti
a parlare con l’ospedale. Io non me ne ero reso conto, ma in effetti nel
cellulare c’è un buco di cinque giorni. Mi hanno messo la testa nel casco che
ossigena e quella è stata una esperienza davvero dura.
Lo hanno
detto tutti: una grande sofferenza. È così?
Diverse persone facevano
fatica a tenerlo, sei dentro a questo scafandro con un rumore molto forte
causato dall’ossigeno che entra al suo interno. Le giornate sono eterne, fai
fatica a dormire. Chiedevo al medico di togliermelo qualche ora, mi diceva:
deve tenerlo, altrimenti dobbiamo intubarla. Poi, improvvisamente, dal giorno
dopo, piano piano, hanno diminuito le ore.
Stava
recuperando la sua capacità respiratoria?
Sì, un po’ di capacità
respiratoria autonoma, fino a quando il bisogno di ossigeno è stato talmente
basso da poter farmi tornare al reparto di ingresso. Hanno continuato a darmi
l’ossigeno, ma in quantità minori. Sono stato trasferito nella pre-intensiva,
poi nella medicina normale e gli ultimi dieci giorni in una sorta di reparto
Covid dove c’era sì gente con il contagio, ma finalizzato alla riabilitazione.
Le hanno
spiegato come ha fatto a guarire?
Mi sento un miracolato. Io
avevo tutte le caratteristiche per non guarire.
Anche
la solitudine deve essere stata una dura prova.
Una esperienza insolita. Ero già stato ricoverato
in passato, con la possibilità che ci stesse sempre qualcuno a farmi compagnia.
Lì invece sei da solo, in una stanza con le macchine a cui sei collegato,
l’unica possibilità di interloquire è attraverso i messaggi telefonici. Una
esperienza lunga, 40 giorni, e strana. Per chi, come me, ha la fede il tempo
era riempito dalla preghiera. La solitudine era meno forte, la preghiera non è
dire delle parole, è vivere a tu per tu con una Persona. Era solitudine
rispetto al modo ordinario di relazionarsi, ma non era una solitudine totale.
Da questo punto di vista un momento di grande grazia.
Ce lo spieghi
meglio.
Avendo molto tempo per stare
con te stesso magari intuisci o cogli degli aspetti della tua fede che in altre
condizioni hai percepito di meno.
Mentre noi
vivevamo l’isolamento in casa con noia e rabbia, lei ha vissuto un isolamento
che l’ha messa faccia a faccia con il mistero. Ne ha colto il senso?
C’è stato un momento in cui
ero davvero convinto che sarei morto, senza poter salutare mia moglie, i figli,
la nipotina. Ho scritto a mia moglie “non mi sento pronto”, ma non di morire,
non ero pronto a quel tipo di morte. Nella stanza accanto alla mia c’era una
persona che non vedevo, ma ho capito che era deceduto. Ho visto quando l’hanno
portato via senza un sacerdote, senza nessun parente: mi ha davvero
impressionato. Anche il Papa ha ricordato tutte queste persone. La morte è
sempre una esperienza drammatica, ma così in totale solitudine, non era mai
successo. L’ho visto in questa persona che è passata dal sonno alla morte in
totale solitudine.
Lei ha anche
detto che quello che lo sosteneva era il dialogo con una Presenza di cui era
certo, ma normalmente questa Presenza è l’ultimo dei nostri pensieri.
Non facevo l’eroe, pregavo per
essere liberato da questa prova, come Gesù nel Getsemani, però allo stesso
tempo con il riconoscimento che la volontà di Dio è un bene per te, non ci
toglie la fatica, ma dà senso a qualcosa che altrimenti non lo avrebbe. Lo dico
per me, non so per gli altri, ma senza la certezza di questa Presenza, puoi
pensare a questa esperienza solo come una sfortuna. La volontà di Dio assume
forme misteriose e si manifesta in circostanze che uno non avrebbe mai scelto.
(Paolo Vites, IL SUSSIDIARIO.NET 1
giugno 2020)
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