FERNANDO DE HARO
Il nostro modo di conoscere riflette una frattura tra la capacità di sviluppare la conoscenza e la gestione politica, tra la ragione scientifica applicata all’immunizzazione e la ragione pratica.
La reazione negli Stati Uniti e in Europa ai vaccini di AstraZeneca e Janssen dice molto di noi. Abbiamo speculato per mesi su come sarebbe stato il mondo dopo il Covid, ma, come sempre, il trailer del futuro è nel presente. Quello che sta succedendo con i vaccini a vettore virale riflette una frattura tra la capacità di sviluppare la conoscenza e la gestione politica, tra la ragione scientifica applicata all’immunizzazione e la ragione pratica.
La
precedente grande pandemia
di cui ha sofferto l’umanità, nel 1918, è stata l’influenza causata dal virus A
(sottotipo H1N1), erroneamente denominata spagnola in quanto il primo caso fu
scoperto nel Kansas. Dopo oltre 50 milioni di morti, si dovette aspettare fino
al 1930 per isolare il virus e fino al 1945 per iniziare a produrre i primi
vaccini.
Un secolo dopo, i primi vaccini, con un’altissima percentuale di efficacia, sono stati disponibili in meno di un anno. La sfida, adesso, non è solo migliorare il farmaco e accelerarne la produzione, in quanto si è presentato un ostacolo imprevisto: la crescente mancanza di fiducia e il rifiuto, in molti Paesi del Sud, nei confronti di AstraZeneca e Janssen. È sorprendente che, dopo aver ottenuto ciò che sembrava più difficile, un problema considerato “minore”, come l’accettazione dei dati oggettivi della scienza, possa ritardare e mettere a rischio il ritmo delle vaccinazioni e il raggiungimento dell’immunità di gregge in ampie zone del pianeta. Si è visto che i risultati freddi e oggettivi non sono sufficienti: stiamo riscoprendo che l’intelligenza emotiva di Goleman, il cuore intelligente, è decisiva.
La sequenza di quanto è
successo la ricordiamo tutti.
La comparsa di trombosi, collegate alla somministrazione di milioni di dosi di
AstraZeneca, ha provocato un primo rinvio delle vaccinazioni con il prodotto di
Cambridge. Solo dopo che l’Ema, accertata la relazione causale degli effetti
secondari, ha dichiarato che i benefici rimanevano maggiori dei danni, la
maggioranza dei governi europei ha ripreso le vaccinazioni. Ancor prima del
pronunciamento dell’Ema, era evidente che il rischio era molto basso, ma i
governi hanno aspettato che fosse un’altra istituzione a dare il via libera,
per l’incapacità di assumersi responsabilità.
Qualcosa di simile è successo
con il vaccino Janssen. Dopo che le autorità sanitarie degli
Stati Uniti hanno deciso la sospensione per alcune, pochissime, trombosi,
perfino meno che nel caso di AstraZeneca, si è prodotto lo stesso effetto. Il
discredito di AstraZeneca e di Janssen è poi aumentato dopo che l’Ue ha annunciato che in futuro farà a meno di questi due
vaccini.
In buona parte del mondo
non vi sono altri vaccini diversi da quelli di AstraZeneca e Janssen. L’eccesso
di precauzione si è trasformato in rifiuto da parte di alcuni Paesi
dell’Africa, evocando il fantasma di un Occidente che manda al Sud farmaci di
serie B: i vaccini che non sono buoni per i bianchi sono buoni per i neri. Le
conseguenze possono essere nefaste laddove non vi sono alternative ai vaccini
con adenovirus, perché nella corsa contro il virus ritardare le vaccinazioni
porta a favorire lo sviluppo di nuove varianti.
Tuttavia, la diffidenza non è aumentata solo nei Paesi del Sud. In questi giorni, opinionisti e responsabili sanitari continuano a riportare statistiche per cercare di superare le incertezze, o direttamente le paure, sorte attorno ai vaccini di AstraZeneca e Janssen. Per il primo la probabilità di trombosi è dello 0,0001 per cento e per il secondo dello 0,00008 per cento. Si continua a dichiarare che è più probabile, molto più probabile, morire per il virus che per delle cifre prossime allo zero come quelle relative ai vaccini.
Le campagne di sensibilizzazione si presentano però molto difficili e i numeri vicini allo zero che allontanano le probabilità negative non sono sufficienti per far recuperare la fiducia. È la conseguenza di una fallimentare gestione politica e comunicativa.
Tuttavia, dice molto anche di noi. Abbiamo una memoria corta e pare che abbiamo dimenticato la vulnerabilità della quale, solo qualche mese fa, eravamo così coscienti. Torniamo a dimenticarci di ciò che siamo, del nostro bisogno, dell’inesistenza del rischio zero. “Quando la memoria diventa così breve, viene alterata la relazione che abbiamo con l’identità”, sottolinea giustamente Magris. La nostra resistenza a essere convinti da una schiacciante logica statistica dice della nostra memoria corta, ma riflette anche il modo in cui noi conosciamo.
Dovrebbe essere facile arrendersi all’evidenza che ci portano le percentuali bassissime, ma se anche la minima possibilità si trasforma per noi in un ostacolo difficile da superare, è perché non siamo né algoritmi, né computer.
La possibile trombosi
su un milione diventa una barriera se non c’è un affetto, un’intelligenza
emotiva, che ci aiuta a far memoria dei mesi che abbiamo vissuto, ad aprire la
ragione al bene che ci aspetta. Ancora una volta, questa dolorosa crisi ci
insegna come siamo fatti.
IL SUSSIDIARIO
NET 20 APRILE 2021
(foto LaPresse)
Nessun commento:
Posta un commento