La seconda indicazione che la liturgia
ci dà come segno della Quaresima, oltre alla preghiera e alla Carità fraterna,
è la parola “digiuno” o “sacrificio”.
LA TENTAZIONE DI CRISTO (particolare) * Sandro Botticelli, 1481-82, Cappella Sistina, Vaticano, Roma
Immediatamente questo significa una temperanza nell’impeto, nell’istinto, nell’uso dell’istinto. Temperare, in latino, vuol dire governare secondo lo scopo, “allo scopo di”, sia come direzione sia come tempo: mantenere la cosa nell’ordine dinamico verso il suo scopo.
Potremmo allora tradurre l’invito al sacrificio, alla mortificazione e al digiuno, come fedeltà a ciò che, in quella cosa in cui ci dobbiamo temperare o mortificare, è “più significativo”.
C’è, infatti, un significato immediato della cosa: uno ha fame, si avventa; uno prova affezione, “tac”, si “accolla”. (Ci sarebbe anche un terzo campo, la vanagloria, l’orgoglio, l’affermazione ingorda di sé, la sete di possesso economico-politico. Ma questo attiene di più all’altra indicazione, della carità fraterna).
Nel mangiare e bere, invece, ciò che è più significativo è che essi sono strumenti per il nostro cammino, non è l’abboffarsi o il sentire tutto il palato reagire dolcemente e vibrantemente al contatto con le molecole del vino. La quaresima ci richiama a questa mortificazione come espressione concreta della ricerca del “più significativo” , anche nel mangiare e nel bere.
La parola digiuno immediatamente, infatti, nella storia liturgica, indicava questo.
Ma soprattutto dobbiamo centrare la nostra attenzione sull’affettività:
è proprio nell’affettività che questo sacrificio, questa mortificazione, come fedeltà al più significativo, deve agire, e deve agire stando bene all’erta, deve agire senza posa, senza addormentarsi, senza parentesi di dimenticanza.
Nell’affezione il più significativo non è l’aderire al riverbero immediato che l’affezione (a qualunque livello) ha. Nell’affettività, infatti, ci sono un affiatamento e una tensione che, espressi in un certo modo, cioè se non sono temperati, alterano e fanno uscire dalla strada.
La parola mortificazione non ci deve impaurire, perché la morte è già in
quella separazione per cui, anche nell’intimità più grande, uno non può
immedesimarsi veramente con l’altro.
Ciò che fa immedesimare veramente con l’altro è proprio la ricerca del più significativo, è la fedeltà al più significativo, perché l’immedesimazione totale è «in Cristo», come diceva san Paolo. La formula di san Paolo – «in Cristo», «fate tutto in Cristo», «il mondo in Cristo» – indica l’unità profonda e finale fra tutto, come ciò cui siamo destinati. E se noi diciamo sempre che la liberazione è l’unità e che la schiavitù è la divisione, dobbiamo sentire questo richiamo, non come nemico, ma come amico.
C’è un riverbero di questa “fedeltà al più significativo” – che deve operare atteggiamenti di reale mortificazione -, c’è un test, un risultato: la libertà, la libertà nella cosa. Questo è proprio un test.
È da questo che si percepisce fisicamente la fedeltà al più significativo, ed è questo che la mortificazione opera, esalta ed edifica: la libertà. Libertà dal risultato, per cui uno finalmente è capace di voler bene all’altro, libero dalla risposta dell’altro, dal modo di corrispondenza dell’altro: è veramente la libertà, è veramente l’amare e basta, l’amore finalmente senza la menzogna.
E, in secondo luogo, la libertà da se stessi, cioè dal gusto.
La libertà dal risultato, dall’altro, e la libertà dal gusto (anche dalla
montagna, per esempio, dalla neve, dalla roccia e dal ghiacciaio; altrimenti,
se non è la ricerca del più significativo, l’andarci diventa fare il Club
Alpino).
*Botticelli ha rappresentato il Demonio vestito dell'abito francescano, forse a significare che nella sua astuzia esso cercava di mostrarsi nel modo che avesse potuto accattivarsi più facilmente la maggiore stima e maggiore considerazione. Sisto IV committente dellopera, prima di essere papa era stato generale dell'ordine dei Francescani e nel concetto di Botticelli il vestire il Demonio dell'abito francescano non poteva avere intenzioni irriverenti.
Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in occasione
del ritiro di Quaresima dei Memores Domini. Pianazze, 16 febbraio 1975 (riassunto a cura di Giorgio
Canu)
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